I reati culturalmente motivati endofamiliari: giurisprudenza nazionale

I reati culturalmente motivati endofamiliari: giurisprudenza nazionale

SOMMARIO: 1. Il fenomeno sociologico – 2. Il fenomeno sul piano normativo: modelli a confronto – 3. La circoncisione maschile – 4. La difficile collocazione del fattore culturale nella sistematica del reato – 4.1. La tipicità – 4.2. L’antigiuridicità – 4.3. Il dolo – 4.4. L’ignoranza della legge penale – 4.5. La quantificazione della pena – 4.6. Riflessioni alla luce della sentenza n. 364\1988 della Corte Costituzionale.

1.Il fenomeno sociologico.

Il fenomeno migratorio ha imposto al legislatore ed alla magistratura di affrontare i casi in cui il singolo, portatore di propri stili di vita, convinzioni religiose o etiche, si trovi in conflitto con l’ordinamento nazionale e scelga di comportarsi in ossequio ai primi, integrando al contempo una fattispecie di reato. Questo conflitto si manifesta spesso a danno di membri del medesimo nucleo familiare.

Una tipizzazione di questa categoria di fattispecie non esiste; purtuttavia la dottrina vi ha posto mano.

Il reato culturalmente motivato è stato definito come un’antinomia impropria, trattandosi di un conflitto tra una norma giuridica (la disposizione penale violata) ed una extragiuridica (il modello culturale rispettato), un conflitto normativo-culturale1.

Ne sono state individuate tre componenti: il motivo culturale, dunque un’eziologia della condotta che trova spiegazione nel bagaglio culturale dell’agente; la coincidenza di reazione, cioè una valutazione ipotetica basata sulla prova che un altro soggetto, appartenente al medesimo contesto culturale, trovandosi nelle medesime condizioni avrebbe agito allo stesso modo; il divario tra la cultura dell’agente e quella della comunità in cui si colloca. Le motivazioni possono essere non solo religiose, ma anche filosofiche, di coscienza, inerenti alla concezione di onore o di morale familiare, oppure riguardanti tradizioni sociali2.

Sempre a scopo definitorio, la nozione di cultura richiede un necessario approfondimento. Sono stati tenuti in considerazione vari riferimenti3.

Ad esempio, la Dichiarazione universale sulla diversità culturale (UNESCO, 2001) la definisce come “l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale e che … include, oltre alle arti e alle lettere, modi di vita, di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze”.

In ottica comparata, la House of Lords ha approfondito la nozione nello svolgimento della propria funzione giurisdizionale4. Richiamando una legge varata al fine di combattere forme di discriminazione (Race Relations Act, 1976), si individua il gruppo etnico come quello che si ritiene ed è ritenuto dagli altri come distinto in base a due caratteristiche essenziali: una storia condivisa e peculiare, che gli appartenenti al gruppo conoscono e di cui tengono viva la memoria, e proprie tradizioni culturali, familiari e sociali. Altri “indicatori” utili, eventuali, sono la comune origine geografica, antenati, lingua, letteratura comuni, una specifica religione, essere una parte di una comunità più vasta (che si sia in minoranza o in maggioranza). Un significato storico-culturale, non meramente biologico o razziale.

La pronuncia cita una decisione emessa dalla Court of Appeal della Nuova Zelanda5, che in un passaggio dice: “they have a distinct social identity based not simply on group cohesion and solidarity but also on their belief as to their historical antecedents“.

Non si ritengono compresi nella fattispecie le subculture, le quali condividono i generali valori della cultura maggioritaria, nè i delinquenti ideologici, che utilizzano la diversità culturale come pretesto per destabilizzare le istituzioni del Paese considerato avverso6.

2.Il fenomeno sul piano normativo: modelli a confronto.

Gli individui portatori del proprio bagaglio culturale aspirano alla tutela dei propri diritti, attraverso forme di flessibilità dello Stato di accoglienza tale da permettere loro di conservare le usanze di origine. Da qui sorge il potenziale riconoscimento della diversità culturale in sede di accertamento del reato7.

Peraltro, come è stato correttamente sostenuto, i beni giuridici tutelati dall’ordinamento sono quelli ritenuti degni di tutela dagli stessi consociati: per questo, nell’affrontare il tema della protezione penale di beni costituzionali, risulta essenziale armonizzarsi con le “norme di cultura” diffuse nella società8. Ove queste collidano con quelle dello straniero, ecco sorgere la necessità di un bilanciamento.

L’approccio alla questione non è uniforme nel continente europeo, come ormai noto. Sono individuabili tre principali modelli9; chiaramente, sono forme di semplificazione: difficilmente essi vengono adottati “in purezza”.

L’approccio neutro, detto anche assimilazionista, applica in ogni caso il diritto comune: il fattore culturale è totalmente ininfluente. Trova fondamento nel principio di uguaglianza formale.

Il modello multiculturalista, invece, attribuisce rilevanza al fattore culturale: si fonda sul principio di uguaglianza sostanziale. Può manifestarsi alternativamente nel trattamento differenziato di favore, che riconosce e protegge le culture diverse (detto anche multiculturale forte, o di cultural defense), oppure nel trattamento differenziato di disfavore, che invece disconosce in toto la cultura straniera oppure ne punisce i riti, ma al contempo concepisce la possibilità di attenuanti.

Anche questo secondo orientamento, tuttavia, prevede un limite di tolleranza della cultura diversa: i diritti fondamentali dell’individuo10. Questi valgono anche all’interno del gruppo, e sono da bilanciarsi con la generale concezione liberale dei diritti delle minoranze vigente nell’ordinamento. Le ingerenze esterne sono legittime quando finalizzate a correggere condizioni di svantaggio o di rischio a cui possono essere esposti i membri di un determinato gruppo11.

3.La circoncisione maschile.

La l. 101\1989 regola i rapporti tra Stato e Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, in base all’Intesa stipulata il 27\02\1987.

Nell’Intesa, già nel Preambolo si individua un criterio di ammissibilità dei riti di tale confessione religiosa: i diritti fondamentali riconosciuti dalle Dichiarazioni internazionali sono “aspirazione perenne dell’ebraismo nella sua plurimillenaria tradizione”; è dunque una confessione in linea con l’ordinamento sovranazionale civile.

Inoltre, il richiamo alla “plurimillenaria tradizione” suggerisce che i reati culturalmente motivati siano configurabili anche rispetto all’ebraismo, in conformità con la nozione di cultura rilevante a questi fini.

L’art. 25 riconosce che le esigenze religiose della tradizione ebraica comprendono due tipi di attività: quella di religione o culto, diretta “all’espletamento del magistero rabbinico, all’esercizio del culto, alla prestazione di servizi rituali, alla formazione dei rabbini, allo studio dell’ebraismo e all’educazione ebraica”, e quella diversa da religione o culto, che comprende “assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, comunque, le attività commerciali o a scopo di lucro”. La circoncisione si colloca nella prima tipologia di attività e, al contrario delle MGF, non è oggetto di un espresso divieto.

Infatti, l’art. 17 comma 1 prevede che “le Comunità ebraiche, in quanto istituzioni tradizionali dell’ebraismo in Italia, sono formazioni sociali originarie che provvedono, ai sensi dello Statuto dell’ebraismo italiano, al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei, secondo la legge e la tradizione ebraiche. La Repubblica italiana prende atto che le Comunità curano l’esercizio del culto“; l’art. 24 stabilisce al primo comma che “L’attività di religione e di culto dell’Unione, delle Comunità e degli altri enti ebraici civilmente riconosciuti si svolge a norma dello Statuto dell’ebraismo italiano e degli statuti dei predetti enti senza ingerenze da parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali”.

In secondo luogo, l’Intesa esplicita i riti da coordinare con l’ordinamento italiano: le festività e la necessità di coprire il capo nel prestare giuramenti previsti dalle leggi statali. La circoncisione non è menzionata.

In dottrina si è sostenuto che tale pratica è consentita perchè non è diretta a menomare la funzione sessuale e non è riconducibile ad alcun messaggio di “sottomissione di genere”. Inoltre, non implica un danno permanente e non incide sulla vita di relazione dell’individuo12.

Tale rituale è stato oggetto di una vicenda giurisdizionale che ha evidenziato alcuni particolari sulla sua natura e sulla sua legittimità. L’oggetto del giudizio è un potenziale concorso in esercizio abusivo della professione medica a carico di una madre che ha fatto circoncidere il figlio da un sedicente ministro del culto, rivolgendosi al personale medico solo in seguito alle lesioni provocate dalla stessa pratica (poi curate senza pregiudizio per la salute futura del bambino).

In primo grado13 si fornisce innanzitutto la nozione di circoncisione: “asportazione in toto o in parte dell’anello prepuziale, allo scopo di determinare una scopertura permanente del glande, e può essere effettuata per motivi clinici … , profilattici … , religioso-rituali … o altre ragioni”.

Viene definito come un atto medico, un intervento di chirurgia minore: incidendo sull’integrità fisica, si ritiene necessario l’intervento del medico, come lo si ritiene pacificamente necessario in caso di finalità terapeutica14. Di conseguenza, la madre risulta colpevole del reato ascrittole.

Nè l’imputata ha potuto invocare la scriminante dell’esercizio della libertà religiosa. In motivazione, infatti, si richiama un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 25\09\1998, in base al quale il giudice, se da un lato desume la conformità del rito al nostro ordinamento, peraltro nega che nella fattispecie esso abbia avuto valenza religiosa. L’imputata è infatti cattolica praticante, non ebrea; ne consegue che la scelta di sottoporre il figlio a circoncisione non è stata religiosa, ma meramente culturale, tradizionale, dunque priva della copertura costituzionale dell’art. 1915.

Nel parere si legge che per gli ebrei questo rito “assume valore di un segno esteriore dell’alleanza stabilita fra Dio e il suo popolo eletto, e di segno indelebile di distinzione, di identificazione e di appartenenza al popolo e alla fede di Israele”. E’ un “preciso obbligo personale posto a carico dei genitori”, di valenza religiosa: riconducibile dunque all’ambito di applicabilità dell’art. 19 Cost.. Il medesimo parere aggiunge che l’atto rientra tra quelli permessi ai genitori ex art. 30 Cost., non pregiudicando altri beni costituzionali quali gli interessi del minore o la sua salute. Ove la pratica sia correttamente eseguita, infatti, non si verificano menomazioni permanenti delle funzionalità dell’organo su cui si effettua, pur essendone le tracce irreversibili.

Il parere ritiene inoltre che la circoncisione rispetti i limiti previsti dall’art. 19 Cost., non pregiudicando nè violando “la sfera dell’intimità e della decenza sessuale della persona”. Il Tribunale conferma che la circoncisione incide sì sull’integrità fisica di un soggetto che non è in grado di manifestare valido consenso, ma peraltro “è priva delle connotazioni fisiche, psicologiche e simboliche negative tipiche delle mutilazioni genitali femminili” ed è accettata dalla cultura occidentale.

Il consulente della difesa manifesta posizioni differenti da quelle che sono state in seguito raggiunte dal Tribunale: l’atto medico è vòlto all’intenzione curativa, che può esplicarsi in finalità preventiva, diagnostica o terapeutica. Dunque non vi sono ragioni per definire come medico un atto (e, di conseguenza, per vincolare il medico al mandato specifico di compierlo) che non risponde a tale finalità e che cagiona una seppur lieve menomazione all’integrità fisica, nonchè tracce indelebili. “La medicina e la religione (più in generale la medicina e gli atti di manipolazione di corpo privi di significato terapeutico) … dovrebbero mantenere il più possibile distinti i propri confini”.

Altro argomento sostenuto dal consulente è quello per cui il Codice di Deontologia Medica del 2006 vieta atti non aventi finalità terapeutica e consistenti in mutilazioni, menomazioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti; senza distinzione tra uomo e donna: non dunque solo riferibile alle MGF.

La pronuncia viene impugnata. Mentre la Corte d’Appello di Venezia16 conferma la decisione di primo grado, la Corte di Cassazione17 accoglie il ricorso della madre, in punto di elemento soggettivo (dolo ed ignoranza scusabile della legge penale).

Nella motivazione dell’ultimo grado di giudizio si coglie un approccio molto prudenziale: “Una società multietnica, che accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo, non può ignorare una certa dose di relativismo culturale, che consenta di guardare ad altre civiltà senza giudicarle secondo i propri parametri. Ne consegue che l’approccio alla delicata questione in esame, per le implicazioni di carattere etico e giuridico che vengono in rilievo, deve essere guidato da una prudente e illuminata interpretazione delle norme di riferimento, senza sottovalutare la peculiare posizione del soggetto coinvolto nell’atto rituale incriminato”. Viene così riconfermata la legittimità della circoncisione, sulla base delle norme dell’Intesa richiamate all’inizio del paragrafo.

Tuttavia, ciò non toglie che si tratti di un atto medico: è un “vero e proprio intervento chirurgico” che richiede una ” ‘riserva professionale’, finalizzata a garantire la qualificazione e la specifica competenza” di chi deve procedere. Pur essendo un atto privo di finalità medica, infatti, “il diritto … non può sottovalutare la delicatezza dell’intervento di circoncisione, che, per quanto semplice, interferisce comunque sulla integrità fisica della persona, comporta una manipolazione del corpo umano potenzialmente rischiosa per la salute”.

Ove abbia natura religiosa, può essere compiuto anche dal ministro del culto, data la sua competenza, senza che venga integrato il reato di esercizio abusivo della professione medica e sono invocabili gli artt. 19 e 30 Cost. a difesa della legittimità dell’atto. Quando invece, come nel caso di specie, la valenza sia meramente culturale, non è invocabile l’art. 19 Cost. nè può rinunciarsi alla riserva professionale: in questi casi, infatti, “l’esecuzione dell’intervento … è affidata a persona non qualificata, non dotata cioè di adeguata e riconosciuta competenza, che vi procede in modo empirico e senza alcuna concreta garanzia circa la sua corretta effettuazione”.

4.La difficile collocazione del fattore culturale nella sistematica del reato.

Passando ora a condotte penalmente rilevanti, la motivazione culturale non costituisce un elemento tipizzato nella sistematica del reato. Essa è stata dunque sussunta dalla giurisprudenza a diversi istituti.

In dottrina si è precisato che questa operazione non riconosce un elemento normativo, ma piuttosto amplia la cognizione processuale ad aspetti riguardanti la dimensione culturale del reo, al fine di ricostruire in modo più accurato il fatto concreto18.

Il tema è controverso: è frequentemente (se non sempre) riconoscibile la “pervasività” dei diritti costituzionali, di fronte ai quali le tradizioni culturali sono destinate a soccombere. In un caso di merito, ad esempio, si afferma la superiorità dell’interesse del minore rispetto alla conservazione delle usanze di origine: “L’ordinamento giuridico può e deve esigere che un genitore presti la massima attenzione alla salute del proprio figlio, e quindi richiedere che una legittima pratica tradizionale sia eseguita con modalità tali da garantire la sicurezza del minore. Nulla impedisce che il costume sociale di una comunità possa evolversi affinchè il rispetto di una tradizione non rischi di pregiudicare questo superiore interesse19. Tuttavia, le soluzioni adottate sono a dir poco ondivaghe: a fronte della necessità di bilanciare analoghi interessi, si passa dall’assimilazionismo al multiculturalismo, non solo in vicende diverse, ma anche in gradi diversi della medesima vicenda.

I provvedimenti sulla potestà a fronte di atti (o a fronte del rischio di subìre atti) di mutilazione dei genitali femminili, negli anni antecedenti all’introduzione dell’apposito reato, pur mostrando metodi molto simili, soppesano diversamente la gravità dell’atto.

Il Tribunale di Torino20 si è pronunciato pro reo alla luce del fattore culturale. La vicenda ha visto il Tribunale per i minorenni pronunciarsi con due decreti divergenti. La fattispecie riguarda dei genitori nigeriani che sottopongono la figlia a circoncisione presso il loro Paese d’origine, causandole tuttavia infezioni molto gravi; motivo per cui vengono imputati di lesioni.

Dapprima il Tribunale sospende temporaneamente la potestà, disponendo che la figlia debba rimanere in ospedale e, in seguito, in una comunità d’accoglienza. I genitori possono visitarla, ma senza alcuna possibilità di allontanarla da tali luoghi. Al contempo, ritiene indispensabile, prima del riaffido ai genitori, approfondire l’idoneità dei genitori a “tutelare le sue (della bambina, ndr) esigenze di crescita e sostegno”. A questi fini, richiede ai Servizi sociali competenti le informazioni necessarie riguardanti la situazione familiare delle persone coinvolte.

Viene interpellata una mediatrice culturale appartenente alla stessa etnia dei genitori. Nella sua relazione si spiega che tale pratica, nella specifica comunità di appartenenza, risponde alla credenza per cui senza l’intervento la madre, al momento del parto, potrebbe morire ove la testa del neonato sfiori il clitoride. Di conseguenza, non subìre la lesione implica il non essere in grado di procreare, con la conseguente esclusione dalla società. La procreazione è infatti elemento essenziale del matrimonio: senza la mutilazione (o circoncisione che sia) la donna rischia anche di non trovare un compagno. Inoltre, nel medesimo rapporto si legge che la pratica è apertamente effettuata negli ospedali o nelle cliniche private autorizzate, nonostante la Nigeria abbia accolto le Dichiarazioni Internazionali sul tema.

Da ciò, il Tribunale per i minorenni, con un secondo decreto, desume che non sia stata sufficientemente provata l’inidoneità genitoriale: l’intervento effettuato non è grave ed invasivo quanto l’infibulazione, è stato effettuato in una clinica, “non si può dire che queste conseguenze (quelle sulla salute della bambina, ndr) siano ricollegabili a negligenze o imprudenze nella scelta delle modalità con cui attuare l’intervento”, e se anche i genitori hanno tardato nel portare la figlia in ospedale dopo le complicanze, tale ritardo “fu di lieve entità e, comunque, non tale da far dubitare delle loro capacità genitoriali”. La bambina viene dunque riaffidata ai genitori, salva la sorveglianza dei Servizi sociali per alcuni mesi “onde assicurare alla minore … un buon accudimento ed inserimento nel proprio ambiente di vita”.

In tempi più recenti, invece, il Tribunale di Bologna21 legittima l’allontanamento dalla casa familiare di alcune sorelle a rischio infibulazione (nel caso di specie, in quanto la maggiore aveva già subìto la pratica). In particolare, il padre viene descritto dalla sorella maggiore come un violento “padre-padrone”, a cui è subordinata anche la moglie (e madre della vittima), e che intende sottoporre la figlia stessa ad un matrimonio combinato in Egitto, oltre a non volerle permettere di studiare, quando invece lei “vede nella scuola una possibilità di emancipazione”. Si dispone l’allontanamento alla luce dell’inattendibilità delle dichiarazioni del padre di voler rispettare il volere della figlia, avendo egli una mentalità che “antepone ‘l’onore’ della famiglia al benessere psicofisico dei figli”.

Tuttavia si è inteso realizzare in concreto il benessere e la volontà delle figlie: sono legittimi gli incontri, non rifiutati dalle stesse, con i genitori, seppur in presenza di operatori di servizi sociali. Inoltre, viene posto il divieto ai genitori di portare le figlie all’estero senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria e quello di sottoporre le figlie a trattamenti mutilanti o lesivi.

In entrambi i casi risulta pacifico l’approccio in concreto dell’autorità giudiziaria nel momento in cui interviene nei legami familiari. Nel caso più recente, infatti, l’allontanamento non è dettato dall’abitualità di sottoporre le figlie a MGF in se, quanto dal generale atteggiamento paterno di supremazia su tutti i componenti femminili della famiglia. Ove questo non avvenga, come nel primo caso, il minore ha modo di essere ricongiunto alla famiglia.

Tuttavia, mentre nel primo caso l’intervento subìto dalla bambina viene “declassato” nella sua gravità in quanto circoncisione e non mutilazione in senso stretto (nonostante le gravi conseguenze sull’integrità fisica della bambina), nel secondo il divieto rivolto ai genitori si estende non solo agli atti di mutilazione, ma anche, più in generale, ai trattamenti “lesivi”.

Infine, le medesime argomentazioni sono applicabili sia per i reati nei confronti dei figli sia per quelli intraconiugali, considerando il principio di parità tra i membri del nucleo familiare nella titolarità dei diritti fondamentali ed il superamento di una visione che vede il figlio come di proprietà del genitore.

4.1.La tipicità.

Una giurisprudenza rigetta le tesi secondo cui il fatto contestato, in quanto lecito nella cultura del reo e della vittima, non integra la fattispecie tipica.

In una sentenza di Cassazione22 il ricorrente contesta la sentenza di condanna per violenza sessuale sull’assunto per cui “non è possibile criminalizzare la violenza sessuale intraconiugale nel matrimonio retto da un diritto straniero che non ritenga criminale tale comportamento”. La Cassazione rigetta l’argomento in base ai princìpi di obbligatorietà e territorialità del diritto penale (rispettivamente, artt. 3 e 6 c.p.), nonchè in quanto “il rapporto di coniugio non degrada la persona di un coniuge ad oggetto di possesso dell’altro”. Sostenendo la tesi opposta, si pregiudicherebbe “il rispetto dovuto alla persona quale soggetto autonomo e alla sua libera determinazione”: implicitamente si richiama l’art. 2 Cost..

Lo stesso può dirsi per una pronuncia di merito23, dello stesso anno, che vede una donna imputata per maltrattamenti nei confronti della figlia. Il giudice, nonostante l’origine culturale dei metodi educativi integranti il reato e della relativa concezione della famiglia, non vi attribuisce alcuna rilevanza pro reo: i diritti inviolabili garantiti al singolo anche nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità sono “uno sbarramento invalicabile” contro consuetudini incompatibili.

Al contrario però, sempre nello stesso anno, un’altra pronuncia di Cassazione24 nega che si possano configurare maltrattamenti a carico di un padre e un fratello nei confronti della, rispettivamente, figlia e sorella, ove, oltre alla non abitualità, si tratti di singoli episodi “motivati da comportamenti … ritenuti scorretti e quindi non esprimenti il necessario requisito di volontà di sopraffazione e disprezzo”. I comportamenti ritenuti scorretti erano, nel caso di specie, la frequentazione di un amico e uno stile di vita non conforme alla cultura familiare.

Tuttavia, non può non riconoscersi una volontà di sopraffazione nel comportamento violento di due uomini, uno dei quali titolare di poteri educativi, nei confronti di una giovane donna, finalizzato ad imporle la propria visione dei rapporti tra i generi: si tratta di uso della violenza a fini intimidatori, vòlto ad ottenere il rispetto di determinate regole.

Argomentazioni come quella della pronuncia riportata contribuiscono ad incrinare il principio di certezza del diritto (e della pena), soprattutto quando incentrate sugli elementi soggettivi della fattispecie, chiaramente connotati da contorni più relativistici rispetto agli elementi oggettivi.

In altri casi, i giudici non negano in toto la tipicità, ma precisano le differenze tra i diversi reati potenzialmente integrati dal reo.

Ad esempio, la Cassazione25 distingue i maltrattamenti in famiglia dall’impiego di minori nell’accattonaggio. La fattispecie riguarda uno zio, magrebino, che si appropria del ricavato derivante dall’accattonaggio del nipote infraquattordicenne, “disinteressandosi della condizione di sofferenza in cui … versava (malnutrizione, esposizione ai rigori invernali con abbigliamento inadeguato, stato di isolamento, mancata frequentazione della scuola)”. La Corte sussume il fatto al reato di maltrattamenti per due ordini di ragioni.

In primis, lo zio aveva volontariamente assunto gli obblighi di cura e vigilanza (i genitori del minore lo avevano affidato a lui per permettergli di studiare in Italia) e “si erano instaurate tra i due strette relazioni e consuetudini di vita, che avevano generato un naturale rapporto di assistenza e solidarietà”. Dunque, era integrato il carattere proprio, endofamiliare, del reato.

In secondo luogo, i beni giuridici tutelati sono diversi. Mentre il divieto di accattonaggio è vòlto a tutelare l’ordine pubblico e la “pubblica tranquillità”, il reato di maltrattamenti si configura ove la condotta incriminata sia “espressione di una più complessa condizione di vita … caratterizzata da mancanza di effettività familiare, da sofferenze fisiche e psicologiche, da mortificazioni di ogni genere”. Questo reato non rappresenta solo la protezione della famiglia in senso lato da parte dello Stato, ma anche il rispetto della personalità del soggetto passivo all’interno della formazione familiare. I comportamenti integrano la norma ove “lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, incapace – per la tenera età – di una qualunque reazione autonoma”. La sentenza sancisce l’inderogabilità della tutela del minore, che, data la fragilità del soggetto coinvolto, “non deve incontrare limiti di alcun genere e deve essere orientata a garantire comunque la protezione del medesimo, ponendolo nella condizione di non vivere l’isolamento o l’abbandono, di non essere sottratto agli interessi propri della sua età e di affrontare le tappe della crescita, col supporto del soggetto affidatario, in modo equilibrato e sano”. Il reato, infine, è integrato anche da condotte omissive, non solo da quelle commissive: dunque, vi rientra anche il sottrarsi ai doveri di vigilanza e controllo.

4.2.L’antigiuridicità.

Talvolta l’agente si è avvalso del consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. alla luce della circostanza per cui la cultura di origine, comune a tutti i membri della famiglia, ritiene come normali gli atti di violenza compiuti dal padre “capo famiglia” sugli altri membri del nucleo familiare.

La Cassazione ha tuttavia rigettato con vigore tale posizione: gli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., nonchè il principio di territorialità del diritto penale ex art. 6 c.p. impediscono che pratiche illegittime nel nostro ordinamento possano trovare spazio, anche ove legittime nello Stato di origine, in quanto lesive delle posizioni giuridiche familiari costituzionalmente protette26.

Altro argomento di cui si è avvalsa la Corte di Cassazione27, pervenendo al medesimo esito, è quello basato sulla disponibilità del diritto leso: “nel caso della personalità individuale offesa dal delitto de quo, il relativo diritto si sottrae alla sfera della disponibilità, tanto più a quella di minorenni”. Il caso riguarda dei minori, infraquattordicenni, appartenenti ad una famiglia zingara e costretti dai genitori all’accattonaggio, “a pena di aspre e ripetute sanzioni corporali … anche nei casi in cui i minori osavano mostrare segni di stanchezza o ribellione … senza alcuna possibilità di un percorso alternativo di carattere educativo, formativo o di svago”.

In un risalente caso, noto come “caso Oneda”, i genitori Testimoni di Geova rifiutano la cura salvavita dell’emotrasfusione per la figlia talassemica.

In primo grado28, tra i vari argomenti vagliati dai giudici si ha anche il movente religioso come fatto esimente ex art. 50 c.p.. L’argomentazione viene rigettata: la libertà religiosa ex art. 19 Cost. trova un limite nei princìpi generali dell’ordinamento, tra cui il diritto alla vita.

In Cassazione29 si conferma la non configurabilità dell’esimente: non si è più nella sfera dell’esercizio del diritto, quanto piuttosto dell’ “abuso del diritto”, quando un diritto inviolabile si estrinseca a danno di un diritto di intensità almeno eguale. Nell’ambito familiare, l’art. 19 Cost. è “manifestazione di pensiero che trova il suo limite nel diritto di un soggetto – incapace di autodeterminarsi – unico e vero destinatario dei compiti essenziali della potestà dei genitori”. Inoltre, con riferimento alla valenza del motivo culturale, “non si può pretendere di condizionare o di menomare l’obbligatorietà delle leggi deducendo la rilevanza di un precetto ad esse estraneo”.

Altra causa di giustificazione considerata è l’art. 51 c.p., l’esercizio di un diritto, in presenza di specifiche norme attributive di diritti o facoltà a minoranze etniche.

Un esempio di rinviene nella già citata pronuncia di Cassazione30 riguardante l’accattonaggio a cui sono costretti i minori appartenenti ad una famiglia zingara. La Corte esclude l’applicabilità dell’art. 51 c.p. per due ragioni. Innanzitutto, non rientra nelle potestà educative parentali “la facoltà di ridurre i figli e gli altri discendenti in stato di soggezione continuativa e di costringerli all’accattonaggio”. In secondo luogo, in risposta all’argomento secondo cui la pratica suddetta è usuale in tali comunità, la Corte precisa che “la consuetudine può avere una valenza scriminante ai sensi dell’art. 51 c.p., solo in quanto sia richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 Preleggi”.

La Corte di Cassazione, in un’occasione già citata31, ha tuttavia confermato la sentenza di appello riconoscendo la scriminante dello stato di necessità. La Procura Generale propone ricorso contro l’assoluzione dai reati di sequestro di persona e maltrattamenti in danno di una giovane, figlia e sorella dei due agenti.

La Corte d’Appello individua lo stato di necessità in quanto la ragazza sarebbe stata segregata nella propria stanza per ore onde prevenire il suicidio da lei minacciato (la giovane aveva già in passato tentato il suicidio proprio a causa del clima familiare). La Procura, invece, sottolinea che la ragazza è stata sì liberata, ma poi oggetto di percosse a titolo punitivo rispetto al suo stile di vita, non conforme alla cultura familiare. Inoltre, nella pronuncia di merito vi sarebbe difetto di motivazione sul sequestro, in relazione agli elementi costitutivi della scriminante secondo i quali “il pericolo non deve essere volontariamente causato dal soggetto agente” e che possa essere evitato altrimenti.

Il ricorso è dichiarato inammissibile, contestando la Procura la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove effettuate dal giudice di merito. Aggiunge tuttavia che il giudice di merito ha correttamente individuato un ragionevole dubbio sulla sussistenza della scriminante, dati i tentativi pregressi della vittima di togliersi la vita.

La Cassazione non contesta la posizione dei giudici di merito, e dunque non rileva la sproporzionalità tra la mera volontà di evitare il suicidio della vittima e la modalità della condotta, palesemente connotata da una volontà punitiva, oltre che preventiva.

Riunendo ora il dispositivo completo della pronuncia, sono stati negati sia i maltrattamenti, non espressivi di disprezzo e sopraffazione, sia il sequestro, dato il ragionevole dubbio sullo stato di necessità. Un comportamento violento, sproporzionato ed orientato ad affermare la subordinazione della vittima, donna, alla volontà dei componenti maschili della famiglia è rimasto impunito.

4.3.Il dolo.

La giurisprudenza maggioritaria nega che il movente culturale possa affievolire l’elemento soggettivo del reato ove siano in gioco i diritti fondamentali dell’individuo, a fronte di ricorsi a sostegno di tale interpretazione.

Tuttavia, tale movente è idoneo a derubricare un fatto in fattispecie meno gravi, oppure implica il riconoscimento di comportamenti negligenti al posto che dolosi. Queste valutazioni variano di Corte in Corte, di grado in grado, compromettendo non poco il già menzionato principio di certezza del diritto.

In una vicenda di maltrattamenti in famiglia32, viene proposto ricorso per Cassazione da parte del condannato in quanto “la formazione culturale e religiosa dell’imputato era tale da stemperare la valenza dell’elemento soggettivo, sotto il profilo della consapevolezza di vessare e prevalicare il coniuge”. La Corte rigetta il ricorso alla luce del contrasto della condotta del reo rispetto alle norme basilari dell’ordinamento, quali sono gli art. 2 e 3 Cost..

In un successivo caso di maltrattamenti e violenza sessuale33 si legge: “L’assunto difensivo, secondo cui … l’elemento soggettivo del delitto de quo sarebbe escluso dal concetto che l’imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potestà anche maritali, a lui spettanti quale capo-famiglia (concetto abbondantemente differente dal modello e dalla concezione corrente nello Stato italiano), non è in alcun modo accoglibile, in quanto si pone in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno a base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali”.

Similmente, in un ulteriore caso di maltrattamenti la Corte stabilisce “l’ininfluenza delle convinzioni religiose del marito” ai fini dell’accertamento del dolo, e che la fede, nel caso di specie, islamica, seppur professante dei precetti contrari alla nostra Carta non legittima comunque il reato. Inoltre, in risposta ad uno dei motivi di ricorso, precisa che non vi sia contraddittorietà tra l’escludere, in fatto, che il credo del reo sia l’antefatto causale delle violenze subìte dalla vittima, e l’affermare la consapevolezza piena dell’imputato (dunque, la sussistenza dell’elemento soggettivo), anche ove “spinto” dalle convinzioni medesime34.

Viene rigettato, in un caso di violenza sessuale nei confronti della moglie, il motivo di ricorso incentrato sull’assenza di dolo alla luce dell’inesperienza sessuale dei coniugi, essendo loro giunti al matrimonio vergini come previsto dal diritto marocchino35.

L’elemento soggettivo è stato utilizzato dai ricorrenti anche per legittimare l’assorbimento tra reati.

Ad esempio, si sostiene l’assorbimento del reato di violenza sessuale in quello di maltrattamenti in quanto il dolo del reo non avrebbe ad oggetto la fattispecie di reato, ma “rappresenterebbe piuttosto l’espressione di una modalità maltrattante che trova le sue radici nella formazione culturale”. La Cassazione risponde ritenendo con forza che la violazione della basilare posizione di garanzia del genitore a tutela della figlia non può essere scusata “solo per effetto di una particolare – e comunque non condivisibile – biasimevole formazione culturale che urta contro le coscienze”36.

Nella giurisprudenza di merito si individuano dei criteri più precisi e concreti, essendo essa competente, al contrario della giurisprudenza di legittimità, ad accertare la quaestio facti.

L’elemento culturale viene ritenuto, in astratto, rilevante: “può diventare estremamente difficile per il Giudice l’indagine in ordine all’elemento psicologico di un reato come quello di maltrattamenti, alcune condotte materiali realizzatrici del quale possono essere state poste in essere allo scopo, ritenuto non solo legittimo ma addirittura dovuto dall’autore, di adattare i comportamenti dei familiari … alla regola coranica e ciò al fine (soggettivamente inteso come benevolo) di procurare la salvezza”. Tuttavia, nel caso di specie, dato il non recente trasferimento del reo in Paesi occidentali, non si ha difetto della percezione, della comprensione e della capacità di valutazione della propria condotta come forma di maltrattamento37.

Una più risalente pronuncia di merito38, in tema di maltrattamenti in famiglia, non argomenta in base alla lunghezza della permanenza, ma propone un più che condivisibile metodo: il filtro della Costituzione.

Il caso riguarda l’impiego nell’accattonaggio di minori da parte dei genitori; l’accusa sostiene la sussumibilità alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia.

Il giudice precisa innanzitutto la funzione della norma che criminalizza i maltrattamenti, cioè quella di “impedire la degradazione di tale rapporto sociale familiare … in un regime di vita caratterizzato dalla abituale lesione o messa in pericolo della dignità personale del soggetto passivo attraverso l’aggressione sistematica dei fondamentali valori di decoro, di libertà morale, di integrità fisica e psichica, di cui esso è titolare“.

In secondo luogo, non è necessaria la consapevolezza, in capo ai minori, del disvalore del trattamento loro riservato dai genitori, “non dovendosi confondere il piano degli interessi offesi dal reato con quello delle reazioni soggettive alla condotta”.

Infine, il giudice chiede: “sostituire il giudizio di valore maggioritario a quello della minoranza a cui appartengono gli imputati non è per caso una manifestazione di intolleranza o peggio di monolitismo culturale, se non di razzismo?”. La risposta è negativa, alla luce di due necessità: da un lato, il gruppo maggioritario è chiamato ad operare una “verifica costante … dei propri criteri culturali alla luce della comune ed unica Costituzione”, con il divieto di applicare tali criteri in modo immediato, senza passare dal vaglio della Carta. Peraltro, il gruppo minoritario non può esigere una globale accettazione della propria cultura, senza le dovute distinzioni, anch’esse da individuarsi alla luce della Costituzione.

Individuato il metodo, sancisce che “l’interesse della dignità della persona del minore” trova fondamento costituzionale agli artt. 2, 3, 30 e 31; di conseguenza, “ogni diversa tradizione culturale deve ritenersi … inaccettabile sul piano delle valutazioni di principio per chi voglia vivere nell’area di vigenza della Costituzione italiana”.

Sulla stessa vicenda, tuttavia, la Cassazione39 si approccia diversamente. Senza tenere in considerazione il conflitto normativo-culturale, derubrica la fattispecie in impiego di minori nell’accattonaggio precisando ciò che distingue i due reati, ovvero l’elemento psicologico della vittima.

La Corte sostiene infatti che per l’integrazione del reato di maltrattamenti la persona offesa deve “sentirsi ingiustamente oggetto di vessazioni, fisiche e morali, tali da determinare … uno stato di sofferenza, conseguente, appunto, ad umiliazioni, patimenti, afflizioni, disprezzo”; detto altrimenti, rileva “l’avvertire da parte del soggetto passivo la sopraffazione sistematica e programmatica, sì che gli viene resa l’esistenza particolarmente dolorosa se non impossibile”. Nei gradi di merito, alcune prove fotografiche dimostravano, secondo la Corte, che i ragazzi nel corso dell’accattonaggio vi trovavano dei “motivi, se non di allegria, di distensione”: non percepivano lo sfruttamento, da cui la derubricazione. La condotta del reo viene punita in quanto ha sottratto i minori all’istruzione e all’educazione, “avviandoli all’ozio, col pericolo di poter diventare viziosi o addirittura delinquenti”; condotta con cui “l’agente ha uno strumento inconsapevole nel bambino o nell’adolescente e si avvale di un mezzo insidioso e particolarmente pregiudizievole alla morale dei minori”.

In questa vicenda, stupisce come i giudici competenti adottino criteri totalmente diversi per addivenire ad una soluzione: il diritto positivo in primo grado e l’elemento soggettivo in legittimità; inoltre, non viene considerata la percezione del fatto da parte dell’agente, ma da parte della vittima, e tale elemento psicologico è dapprima negato e poi confermato per la medesima figura di reato.

Nel caso Oneda già menzionato, la Corte d’Assise competente40 si pronuncia per la sussistenza del dolo di omicidio volontario. La Corte ritiene infatti che nonostante sia stato sufficientemente provato che non fosse intenzione dei genitori provocare la morte della figlia, escludendo dunque il dolo intenzionale, può configurarsi un dolo eventuale, divenuto poi diretto: “essi, decisi a non contravvenire al divieto posto dalla loro religione, tennero consapevolmente fermo il loro comportamento”, sia quando l’evento morte della figlia appariva solo come una possibilità, sia quando la conseguenza della propria condotta appariva ormai certa.

Nella stessa vicenda ma in sede di legittimità41, invece, si ritiene essere integrata una fattispecie colposa, difettando nei rei una volontà diretta all’evento non impedito: sussiste piuttosto una forma di negligenza. Inoltre, il giudice di prime cure non avrebbe valutato in modo sufficientemente approfondito l’effetto dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, vòlti a garantire i trattamenti salvavita alla bambina, sull’elemento psicologico del reato “con particolare riferimento all’accertata consapevolezza della necessità delle emotrasfusioni ai fini della sopravvivenza” della figlia.

A seguito della cassazione con rinvio, la Corte d’Assise d’Appello competente rivaluta quanto statuìto in primo grado42. Non è stata accertata la volontà omicida, in quanto i genitori si erano attivati per ricercare cure alternative alla trasfusione: “la volontà che, nonostante la gravità della malattia, la figlia nondimeno vivesse, indiscutibilmente manifestata da entrambi gli imputati con siffatti univoci comportamenti, non può ritenersi mutata nella antitetica volontà omicida per il solo fatto che, avendo abbracciato la nuova fede religiosa, essi violarono l’obbligo di attivarsi, nonostante il divieto religioso, per far eseguire la terapia emotrasfusionale”. Si conferma un atteggiamento psicologico colposo, non doloso, nemmeno sul piano eventuale. Colpa che non è esclusa dai fraintendimenti sui provvedimenti dell’autorità giudiziaria nè dal basso livello culturale dei genitori (livello culturale che invece viene tenuto in considerazione in altre pronunce, qui riportate).

In una pronuncia di poco successiva43, la Cassazione si occupa di una vicenda in cui dei minori vengono ridotti in schiavitù, nonchè resi oggetto di compravendita, e costretti a commettere furti. La pronuncia si sofferma sulle origini culturali di questa prassi, comprensiva di maltrattamenti in caso di furti non riusciti o poco soddisfacenti e di una accezione dei bambini come di proprietà dei loro padroni. Il ricorso ritiene che vi sia solo concorso in furto, non sussistendo il dolo della riduzione in schiavitù. La Corte rigetta, affermando che per la sussistenza del dolo è sufficiente che “l’evento delittuoso sia stato previsto e voluto dal reo quale conseguenza della propria condotta cosciente e volontaria”, essendo irrilevante invece “l’intenzione di violare la legge penale” nè “la conoscenza dell’antigiuridicità … del fatto”44.

In una fattispecie analoga ma più recente, la Cassazione45 aggiunge che la convinzione dell’agente di esercitare le proprie prerogative di capo famiglia non esclude l’elemento psicologico alla luce dei limiti di ammissibilità della scriminante putativa ex art. 59 ultimo comma c.p.. Essa è infatti applicabile solo “quando l’errore … investe gli estremi di fatto che integrano la causa giustificatrice, e non già quando riguarda gli elementi normativi della scriminante, in relazione ai quali l’art. 5 c.p. non ammette ignoranza”.

Una recente pronuncia di Cassazione46 riassume i criteri di cui avvalersi al fine di valutare l’incidenza dell’elemento culturale sul dolo: l’evoluzione dei costumi sociali (soprattutto nei reati inerenti la dimensione sessuale), i quali tuttavia non potranno mai prevalere sulla tutela di diritti inviolabili della persona; il bilanciamento tra diritto a conservare le usanze culturali e l’importanza del bene giuridico leso; la natura della norma culturale a cui il reo si è attenuto (giuridica o culturale “di sicura e comprovata esistenza”); il grado di inserimento del reo nel Paese di accoglienza. La stessa pronuncia rigetta l’idea di una nozione soggettivistica di atto sessuale in base alla quale negare rilevanza penale al fatto, risultando irrilevante che l’atto non sia stato commesso al fine di soddisfare una propria concupiscenza ma solo per manifestare forme di orgoglio genitoriale: si conferma che “ogni atto invasivo della sfera sessuale di un soggetto, in mancanza del consenso di quest’ultimo, leda tale bene giuridico, a prescindere dal motivo per il quale il soggetto agente lo abbia posto in essere“. Ove il figlio sia minore d’età, la tutela dell’interesse ad uno sviluppo sereno ed armonico della personalità si realizza mediante l’assoluta intangibilità della sua libertà sessuale.

In questa recentissima pronuncia, dunque, i criteri soggettivistici trovano un limite nella tutela di beni giuridici particolarmente sensibili e significativi.

Trattando della specifica fattispecie di MGF, il problema che pone in termini di elemento soggettivo è che il secondo comma, dunque con riferimento non alla mutilazione in senso stretto ma alle pratiche diverse ma con lo stesso effetto, prevede il dolo di menomare le funzioni sessuali. Talvolta questo elemento costitutivo non è integrato nel caso concreto, operando l’agente con la convinzione di migliorarne lo stato di salute, piuttosto che la posizione sociale nella comunità di appartenenza.

Un esempio si rinviene in una pronuncia d’appello47 di assoluzione di una donna nigeriana condannata in primo grado per lesioni e tentativo di lesioni dei genitali di due bambine dietro compenso da parte dei genitori. Non viene ravvisato il dolo specifico in quanto gli esperti antropologi sentiti in dibattimento riportano che la pratica abbia diverse funzioni: “di umanizzazione”, “identitaria” e “di purificazione”, ma non quella di menomazione delle funzioni sessuali.

Si noti, tuttavia, che la menomazione delle funzioni sessuali è una sorta di passaggio obbligato per il raggiungimento delle finalità suddette: non potrà aversi purificazione senza menomazione. Non si comprende dunque come questa possa non essere oggetto di dolo da parte del reo. Inoltre, il significato di queste pratiche è lo stesso, più o meno invasive che siano: limitare il più possibile la libertà sessuale della donna, proprio attraverso l’alterazione, la manipolazione dei suoi organi. Difficilmente dunque, che si tratti di mutilazioni o di altre lesioni, potrà aversi una volontà non comprensiva di ciò.

In un caso precedente48, analogamente, un Tribunale per i minorenni disponeva il riaffido ai genitori di una bimba che aveva subìto circoncisione per loro volontà alla luce della “buona fede” che aveva accompagnato i genitori: secondo la tradizione della loro specifica etnia, senza tale pratica la futura donna è mal considerata dagli altri consociati e difficilmente può trovare un compagno.

4.4.L’ignoranza della legge penale.

Sulla scusabilità dell’errore sul precetto, la giurisprudenza è ondivaga: adotta in alcuni casi un approccio relativistico, analizzando le specifiche circostanze concrete che connotano la condotta dell’agente, mentre in altri si attiene a valutazioni “in astratto”.

Questa incertezza può spiegarsi considerando che sono riconoscibili argomenti della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364\1988, ma paiono al contempo applicati in maniera parziale, poco approfondita.

L’anno successivo a tale pronuncia, infatti, la Cassazione49 ha ritenuto che l’art. 5 c.p. si riferisca ad una impossibilità oggettiva di conoscere la norma penale: la possibilità di conoscere il precetto è sufficiente per far scattare a carico dell’individuo i doveri di informazione e conoscenza che, ove non soddisfatti, conducono alla responsabilità penale (e, su questo, è in linea con quanto statuìto dalla Consulta). Tuttavia aggiunge che taluni reati, detti “delitti naturali”, sono norme sì penali, ma inoltre rispondenti al “principio di riconoscibilità”, “ossia tali da essere percepite anche in funzione di norme extra-penali di civiltà”: dunque, delle quali può “certamente” negarsi l’ignoranza scusabile.

In un altro, più recente caso la stessa Corte50, senza verifiche in concreto sulla inevitabilità o meno dell’ignoranza della legge, ritiene integrato il dolo di maltrattamenti in famiglia “stante l’obbligo … di conoscere, ai sensi dell’art. 5 c.p., il divieto imposto dalla legge di comportamenti lesivi … quale che possa essere stata la valutazione della propria condotta (eventualmente ritenuta innocua o socialmente utile)“. Qui, dunque, la percezione del fatto in capo all’agente risulta del tutto irrilevante.

Oppure, in una sentenza di merito si afferma che sussiste responsabilità quando il reo vive in un contesto dove quanto da lui ignorato è stato affrontato e risolto dagli organi competenti51, senza verificare che l’agente abbia effettivamente posto in essere i comportamenti necessari ad informarsi.

Questa valutazione “in astratto” è smentita, nella stessa vicenda, in sede di legittimità52. L’art. 5 c.p., secondo la motivazione della Corte, non fornisce criteri specifici sulla propria applicazione: essi sono dunque da ricercarsi attraverso l’attività interpretativa, chiamata a considerare fattori sia oggettivi che soggettivi. “E’ certamente dato oggettivo incontestabile il difettoso raccordo che si determina tra una persona di etnia africana che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e l’ordinamento giuridico del nostro Paese; non può tale situazione risolversi semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti”. Viene invece considerato come elemento soggettivo il basso livello di cultura della madre, che comporta una riduzione del grado esigibile di diligenza nel conoscere la liceità dell’atto rituale in un contesto territoriale diverso da quello di origine. Inoltre, viene tenuta in considerazione anche la condotta post factum.

Il criterio relativo allo stile di vita e alla durata della permanenza in Paesi occidentali è adottato anche nella giurisprudenza di merito: ove il reo si sia convertito alla confessione religiosa solo in tempi recenti ed abbia a lungo vissuto nel continente europeo, si ritiene in grado di conoscere le regole della società occidentale53. Similmente, in tempi più recenti, “un cittadino marocchino, dopo alcuni anni trascorsi nel nostro Paese, pur avendo mantenuto dei legami con il Paese d’origine, è … perfettamente in grado, pur conservando la propria cultura e le proprie origini, di rendersi conto dell’insopprimibilità in un Paese civile di alcuni diritti fondamentali della persona umana”54.

Inoltre, ulteriori espressioni del principio della valutazione in concreto sono la non invocabilità della sola circostanza di essere straniero ai fini dell’esclusione della responsabilità55 e la non scusabilità ove la condotta tenuta dal reo sia punita penalmente anche nel Paese d’origine56.

4.5.La quantificazione della pena.

L’art. 133 c.p. individua dei criteri di quantificazione ritenuti qui applicabili.

Sulle condizioni di vita del reo (comma 2, n. 4), si legge in una pronuncia di merito che quanto più esse rispecchiano un insieme di regole distanti da quelle che ispirano la tutela penale, tanto più la sanzione dovrà essere rigida, a fronte di una finalità preventiva della pena più pregnante: “La provenienza individuale da un sistema di vita del tutto alieno dai nostri princìpi di civile convivenza non può valere ad attenuare la pena, al contrario … la condotta che sia espressione diretta di tali princìpi deve essere sanzionata con congruo rigore”. Un significato opposto rispetto a quello attribuito alla norma dai colpevoli, rimasti “intrisi della cultura del Paese di origine, che non solo è bel lungi dall’attribuire alle donne pari dignità e diritti, ma che le considera ‘naturalmente’ esposte ad ogni forma di sopraffazione maschile”; essi dunque avrebbero posto in essere un “comportamento della cui gravità non potevano essere pienamente consapevoli”. Il caso riguarda una violenza sessuale operata da due uomini pakistani nei confronti di una studentessa57.

Vi è inoltre la disciplina delle circostanze comuni: il particolare valore morale o sociale ex art. 62 n. 1 c.p., attenuante, ed i motivi abietti o futili ex art. 61 n. 1 c.p., aggravante.

Iniziando dall’attenuante, in Cassazione58 si è negata la rilevanza di tradizioni culturalmente diverse ai fini dell’attenuazione del disvalore della condotta antigiuridica, con il rigetto del motivo di ricorso favorevole alla concessione delle attenuanti generiche. Due gli argomenti spesi dalla Corte: l’obbligatorietà della legge penale ex art. 3 c.p., per cui non possono trovare spazio nell’ordinamento italiano tradizioni integranti reato, e l’ordinamento costituzionale, “incentrato sulla dignità della persona umana e sul rispetto e la garanzia dei diritti insopprimibili a lei spettanti”.

Analogamente, in un caso di maltrattamenti in famiglia operati da uno zio nei confronti del nipote minore, impiegato dal reo in attività di accattonaggio59, la Corte nega la possibilità di richiamare “l’etica” dell’agente e le sue “opzioni sub-culturali relative a ordinamenti diversi dal nostro” come fondamento dell’attenuante suddetta: i “principi di una cultura arretrata e poco sensibile alla valorizzazione e alla salvaguardia dell’infanzia” soccombono di fronte ai “principi base dell’ordinamento”, tra cui gli artt. 2, 29 e 31 Cost..

Nella vicenda Oneda, in primo grado60 la Corte precisa che la circostanza sussiste quando la condotta penalmente rilevante viene posta in essere “per un motivo che la coscienza comune considera di grande rilevanza morale o sociale” in quanto ritento normalmente idoneo a motivare azioni nobili, solo occasionalmente foriero di sacrifici di altri interessi penalmente tutelati. Nel caso di specie questo non si verifica: lo specifico precetto consiste nel rifiuto delle trasfusioni di sangue, non rispondente ai requisiti suddetti e soprattutto idoneo a sacrificare sempre il bene giuridico della vita, non occasionalmente. E’ dunque insufficiente la valutazione positiva della condotta da parte dell’agente, ossia l’elemento soggettivo, dovendosi cumulare con l’apprezzamento sociale, l'”elemento oggettivo”. Il secondo grado61, invece, riconosce l’attenuante.

Si è sostenuto che nell’applicazione della circostanza la giurisprudenza non tiene debitamente conto della tutela costituzionale delle minoranze e della pari dignità di tutte le convinzioni62. Questa osservazione non può condividersi quando vengono pregiudicati diritti fondamentali della persona, vincolanti anche per tali minoranze e convinzioni, come si è già sottolineato. Tuttavia, si segnala in una pronuncia di legittimità dove si riporta la precedente di secondo grado, la quale riconosce nella cultura d’origine dei coniugi l’attenuante della minore gravità prevista al terzo comma dell’art. 609-bis c.p., sul reato cioè di violenza sessuale: nel caso di specie in quanto il diritto marocchino, reggente il matrimonio dei coniugi, non prevede la violenza come illecito63. Un caso, dunque, in cui il diritto assoluto alla libertà sessuale soccombe di fronte ad un precetto incostituzionale e derivante da un ordinamento straniero.

Passando all’aggravante, una recente pronuncia di Cassazione valorizza la concezione religiosa di appartenenza, ove radicata ed anche se distante dai valori occidentali: “pur sussistendo una sproporzione tra il movente e l’evento cagionato, non può dirsi nè lieve nè banale la spinta che ha portato il soggetto ad agire”64.

Altra circostanza aggravante comune che è stata riconosciuta è quella ex art. 61 n. 5 c.p., ovvero “l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. In un caso di merito antecedente alla tipizzazione del reato di MGF, un uomo egiziano sottopone i due figli alla pratica della circoncisione, comportando in ciascuno un indebolimento permanente dell’apparato genitale, nonchè diversi giorni di malattia (dieci per la figlia, quaranta per il figlio)65. Tuttavia, nonostante l’applicazione dell’aggravante la pena comminata risulta modesta, data la scelta del patteggiamento, nonchè sottoposta a sospensione condizionale ed accompagnata dal beneficio della non menzione. Nella pronuncia, si noti, non vi sono espliciti riferimenti ad alcun conflitto culturale: vi è solo un accenno alla “particolare natura del reato”, ma a fondamento della sospensione condizionale, dunque in ottica pro reo.

Si richiama un’altra vicenda, in tutti i suoi gradi di giudizio, in quanto chiarificatrice di molti elementi in tema di motivi futili e abietti, nonchè di quantificazione della pena ex art. 133 c.p.. Il caso riguarda l’omicidio di una figlia da parte del padre, marocchino, a seguito di prolungate percosse effettuate con un bastone, calci e pugni, a causa della sua frequentazione con un ragazzo connazionale conosciuto in Italia.

In primo grado66 si ritengono sussistenti sia i motivi abietti che i futili. I primi si hanno in quanto l’azione si è accompagnata ad uno “spirito punitivo”, non semplicemente alla cultura arcaica; i secondi quando “vi è una sproporzione tra movente ed azione delittuosa, che rivela un istinto criminale più spiccato, da punire più severamente … tale sproporzione può anche sottintendere una concezione particolare che ricollega a certi eventi un’importanza di gran lunga maggiore rispetto a quella che la generalità delle persone vi riconnette”.

Sul calcolo delle circostanze, stupisce come siano state valutate come equivalenti le aggravanti dei motivi futili e abietti e dell’azione contro il discendente e le attenuanti dell’incensuratezza e della regolarità sul territorio, della fissa dimora, dell’occupazione.

Sulla quantificazione della pena, il giudice tiene conto della “gravità dell’azione, con particolare riferimento alle sue modalità ed all’intensità del dolo”, della personalità violenta (che infatti si era già manifestata in famiglia in altre occasioni), implicante una “non modesta capacità a delinquere” e del comportamento successivo al reato, teso a nascondere le prove di quanto accaduto67.

In appello68, invece, da un lato si precisa il contenuto del motivo abietto, peraltro viene escluso nel caso di specie. E’ infatti definito come “quello che rivela nell’agente un tale grado di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza e di disprezzo in ogni persona di media moralità. Deve quindi trattarsi di motivo spregevole e vile, che denota ripulsione ed è ingiustificabile per la sua abnormità di fronte al sentimento umano”. L’imputato ha tuttavia chiarito la sua concezione familiare, “l’onore familiare, il rispetto della parola data” (riferimento, questo, ad un matrimonio combinato che la giovane avrebbe dovuto forzatamente accettare). Addirittura in sentenza viene menzionato il codice della famiglia del Marocco, in cui, in tema di contratto matrimoniale, esiste ancora la “tutela matrimoniale della donna” da parte del “padre tutore”. In base a questo, il motivo abietto è escluso.

Viene da chiedere cosa possa essere oggetto di ripugnanza e di disprezzo da parte di una persona di media moralità, se non l’omicidio di una figlia a causa delle modalità, ordinarie nella società occidentale, con cui conduce la propria esistenza.

Vengono invece confermati i motivi futili, definiti come una sproporzionalità integrante più “un pretesto che non una causa scatenante” della condotta; si precisa inoltre che la peculiarità di questo istituto è morale, non di tipo intellettivo o volitivo. La precisazione risponde alla contestazione dell’aggravante da parte dell’appellante: il giudice di prime cure non avrebbe sufficientemente considerato “la persistenza dei valori atavici e socio-culturali dell’imputato”, il “forte ed estremizzato senso della famiglia”, il “concetto di onore, infangato dai comportamenti irregolari della figlia”, la quale aveva ignorato le “regole della sua etnia” ed i “richiami anche violenti del padre”. L’appellante non considera che il delitto d’onore, nell’ordinamento italiano, è stato superato e che il diritto inviolabile della persona all’autodeterminazione non è limitato dal rischio di subìre violenze.

La pena, per la sola esclusione del motivo abietto, viene ridotta di un anno.

Infine, la Cassazione69 conferma la pronuncia d’appello. Non sussistono i motivi abietti in quanto non possono individuarsi delle “sensazioni di ripugnanza, turpitudine e spregevolezza”: il reo ha agito in base al suo “modo di intendere e gestire la famiglia, l’onore familiare ed il rispetto della parola data”.

Un caso estremamente simile è quello di una giovane pakistana uccisa dal padre e dai cognati e sepolta con la testa rivolta verso La Mecca. Il Tribunale70 però qui conferma i motivi abietti, e il fattore culturale risulta irrilevante ai fini di una riduzione di pena.

In una vicenda successiva all’introduzione dell’art. 583bis c.p., un Tribunale71 è chiamato ad occuparsi di due fattispecie di lesione e tentativo di lesione dei genitali femminili di due bambine da parte di una donna nigeriana, dietro compenso da parte dei genitori delle vittime. L’attenuante della lieve entità, prevista dalla norma richiamata, è ritenuta prevalente sull’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di un minore o dietro compenso e “nella valutazione del disvalore del fatto non si può non tener conto, in favore degli imputati, delle motivazioni culturali e di rispetto delle tradizioni che li hanno spinti ad agire”.

Per concludere, sulla valenza della cultura d’origine nella quantificazione della pena regna una forte incertezza.

4.6.Riflessioni alla luce della sentenza n. 364\1988 della Corte Costituzionale.

Nei cari casi richiamati sono riconoscibili dei concetti risalenti alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364\198872, le cui argomentazioni, se considerate in maniera organica, potrebbero ritenersi idonee a fornire un impianto generale intorno al tema dei reati culturalmente motivati, nonchè a stimolare alcune riflessioni.

La pronuncia inizia esponendo tre impostazioni ideologiche a fondamento dell’irrilevanza assoluta dell’ignoranza ex art. 5 c.p. (irrilevanza, come noto, ritenuta parzialmente inconstituzionale all’esito di questo giudizio). Ai nostri fini, quelle rilevanti sono due.

Una è quella secondo cui l’ordinamento è sorretto da una “coscienza comune”, ed è dunque irragionevole condizionare la sanzione alla conoscenza di ciascun singolo precetto, rilevando piuttosto il comportamento arbitrario di chi, pur “conoscendo e contribuendo a realizzare i valori essenziali che sono alla base dello stesso ordinamento”, vi si ponga in contrasto. La Corte contesta a tale posizione che oggi i precetti penali coinvolgono anche discipline in cui difficilmente sono ravvisabili i suddetti valori comuni (ad es.: previdenza, edilizia, fisco). Sono casi, infatti, non attinenti ai c.d. ” ‘delitti naturali’, di comune ‘riconoscimento’ sociale”.

Ora, la casistica analizzata nel presente capitolo coinvolge interessi quali l’integrità fisica e psichica, la libertà sessuale, il diritto all’istruzione, il diritto alla crescita in un ambiente familiare sano. Non si può negare la natura di “delitti naturali” alle condotte considerate, senza negare la natura fondamentale, di “comune riconoscimento sociale”, per ribadire le parole della Corte, di tali beni giuridici. Dunque, essendo scusabili gli errori sulla legge non riguardante i valori fondanti dell’ordinamento, non risultano invece scusabili quelli su norme poste a tutela di diritti fondamentali della persona umana. Inoltre, anche argomentando che lo straniero, da poco residente in un Paese, non contribuisca alla realizzazione dei valori del suo ordinamento, e dunque sia “più scusabile” nella violazione della legge, i beni della vita coinvolti sono stati riconosciuti nella loro assolutezza a livello internazionale, non solo nel limitato contesto del Paese ospitante.

La seconda impostazione ideologica dell’art. 5 c.p. è quella per cui l’obbligatorietà della legge non debba essere condizionata “dalle mutevoli ‘psicologie’ individuali nonchè dall’alea della prova, in giudizio, della conoscenza della stessa legge”. A questa posizione la Corte controbatte (senza però argomentare) che l’irrilevanza dell’ignoranza non deriva direttamente dal principio di obbligatorietà, pur essendo “pericoloso, per la tutela dei valori fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di volta in volta, alla prova il giudizio”. Proposizione calzante in un ambito in cui non si ha chiarezza della rilevanza o meno, ed in che termini, di un elemento di fatto nella valutazione di reità: un rimprovero alla eccessiva incertezza e relatività della tutela dei diritti fondamentali coinvolti.

La Corte prosegue indicando i due essenziali presupposti della responsabilità penale, affinchè si abbia una colpevolezza costituzionalmente orientata.

Il primo è la considerazione del rapporto tra l’autore del fatto e “l’ordinamento, quale soggetto attivo dei processi di socializzazione” ex art. 3 comma 2 Cost.. In questo senso, i princìpi di legalità e tassatività sarebbero insensati ove accompagnati dalla responsabilità della persona che “non può, comunque” impedire l’evento illecito o che “non è in grado, senza la benchè minima sua colpa, di ravvisare il dovere … nascente dal precetto”. Si ritiene dunque necessario, in alcuni precedenti della Corte, un “requisito psichico” per configurare un fatto “compiutamente proprio” che comporti responsabilità; vengono esposti anche i lavori preparatori dei Costituenti, che parlano di “partecipazione personale al fatto proprio” e di elemento soggettivo inteso come “possibilità di muovere rimprovero all’agente, potendo da lui pretendersi un comportamento diverso“. Si richiede, data la “piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona”, che gli episodi criminosi esprimano “riprovevole contrasto od indifferenza” verso i valori della convivenza espressi nelle norme penali. Altrimenti, risulterebbe inefficace la funzione rieducativa della pena ex art. 27 Cost..

Nei casi analizzati, gli imputati spesso risiedono da lungo tempo nel Paese ospitante: essi possono impedire in qualche modo l’evento illecito, rispettando i valori della comunità in cui sono collocati, e sono in grado di ravvisare i doveri nascenti dai precetti in quanto, nel corso della loro permanenza, difficilmente non hanno avuto modo di confrontarsi con i comportamenti altrui. Dunque, può esigersi un comportamento diverso: banalmente, il rispetto della legge dello Stato in cui vivono.

Secondo presupposto essenziale è la riconoscibilità del contenuto precettivo delle norme: un monito alla chiarezza ed alla certezza del diritto. La Corte auspica che il diritto penale, in particolare, sia riconoscibile non solo in quanto tale, ma anche come insieme di “norme ‘extrapenali’, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare” (è un auspicio dunque, non un’affermazione: ed è invece stato menzionato come tale da una delle pronunce riportate in tema di ignorantia legis).

Nei casi dei reati culturalmente motivati, il legislatore ha assunto una chiara posizione criminalizzando le mutilazioni genitali femminili piuttosto che i maltrattamenti in famiglia o la violenza sessuale: la protezione dell’inviolabilità della persona ex art. 2 Cost.. Lo svilupparsi di interpretazioni pretorie non surrogate da una corrispondente voluntas legis concorre a creare incertezza nella valutazione del disvalore di condotte lesive di diritti costituzionalmente protetti in modo assoluto; anzi, in modo più ampio rispetto alla invocata tutela della sfera religiosa: si ricorda, infatti, che mentre la libertà religiosa è limitata dai riti contrari al buon costume ex art. 19 Cost., l’art. 2 Cost. non richiama alcun limite. Anche questo può suggerire una risposta al bilanciamento di due interessi contrapposti e gerarchicamente paritari.

Infine, alla oggettiva conoscibilità deve necessariamente accompagnarsi la conoscenza concreta del precetto da parte del singolo, titolare di doveri “strumentali” di informazione e conoscenza. Questi sono “diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale, di cui all’art. 2 Cost. … ai fini del rispetto degli interessi dell’ ‘altrui’ persona umana”. La violazione di questi doveri, i quali si pongono “alla base della convivenza civile”, corrisponde alla violazione di un “impegno di solidarietà sociale”, che rende il comportamento dell’agente punibile in quanto esplicativo di una ” ‘trascuratezza’ nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell’ordinamento tutto”, da valutarsi in concreto, anche in campi “prevedibilmente lesivi di interessi altrui”.

Argomenti che dimostrano la più totale infondatezza di motivi di ricorso che tendono a sottrarre dall’ambito di applicabilità del diritto penale i reati contro la persona esclusivamente alla luce del diverso valore che le donne o i figli assumono nella cultura d’origine. Al contempo, negano la configurabilità di valutazioni in astratto, che invece si sono talvolta verificate, come sopra riportato.

La Corte Costituzionale delinea poi alcuni criteri da adottarsi ai fini della valutazione sulla colpevolezza.

Innanzitutto, la sussitenza nell’agente di una particolare conoscenza della legge: non è legittimo richiamarsi ad un errore comune, generale, sul divieto, come paiono invece fare quelle parti che intendono far valere il motivo culturale come scusante. Accogliere tali argomentazioni rischia, usando le parole della pronuncia, di far sorgere una “consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali”.

Il criterio c.d. “oggettivo puro” consiste nell’impossibilità di conoscere la legge penale da parte di ogni consociato. Giustificare l’ignoranza del precetto sulla base del solo contesto culturale dell’agente, nei casi in cui chiunque altro, come lui, avrebbe potuto informarsi sul contenuto precettivo della legge, pare discriminatorio ai sensi dell’art. 3 comma 1 Cost.. Non si avrà colpevolezza, invece, ove si verifichi che qualsiasi consociato, nelle stesse condizioni, avrebbe egualmente errato sulla norma.

Similmente, la Corte ritiene possano essere presi in considerazione i criteri c.d. “misti”, comprendenti peculiari “circostanze di fatto in cui s’è formata la deliberazione criminosa”.

Non trovano invece spazio i criteri c.d. “soggettivi puri”, ovvero quei parametri considerati “esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente”. Un approccio simile, nei reati culturalmente orientati, rischia di escludere la colpevolezza ogni qualvolta l’imputato sia portatore di una cultura diversa da quella del Paese ospitante, integrandosi, di nuovo, una violazione del principio di uguaglianza.

Solo nella parte finale delle motivazioni è individuabile un chiaro riferimento al conflitto in cui può trovarsi l’agente: il caso in cui un fatto non sia previsto ovunque come reato. In tal caso, si prospettano due possibilità: vi sarà inescusabilità ove l’agente si rappresenti la possibilità dell’antigiuridicità; vi sarà errore inevitabile in caso di “personale non colpevole carenza di socializzazione” a causa della quale l’agente non si rappresenti la possibilità suddetta.


1. Basile F., Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 4, 2007, 1296.
2. Riponti D., Il fenomeno delle immigrazioni e i riflessi sul reato “culturalmente motivato”, in Correra M. M. e Martucci P., Elementi di criminologia, Milano, 2013, 245.
3. Quelli che seguono sono riportati in Piqué F., La subcultura del marito non elide l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti nè esclude l’imputabilità del reo, in Cass. Pen., fasc. 9, 2012, 2962.
4. House of Lords, 24\03\1983, Mandla and another v. Dowell Lee and another. Il caso riguarda la non ammissione, da parte del Preside di un istituto scolastico, di uno studente Sikh, a meno che non rinunciasse ai simboli distintivi della sua confessione religiosa (capelli lunghi e turbante) in ossequio alla regole scolastiche di indossare un’uniforme e di tenere i capelli corti.
5. Richmond P, Woodhouse and Richardson JJ, King-Ansell v. Police, 1979. Corsivi aggiunti.
6. Piqué F., op. cit., loc. cit..
7. Piqué F., op. cit., loc. cit..
8. D’Ippolito E., Kulturnormen ed inevitabilità dell’errore sul divieto: la Corte di Cassazione riconosce l’errore detemrinato da “fattori culturali” come causa di esclusione della colpevolezza, in Cass. Pen., fasc. 11, 2012, 3711.
9. Riponti D., op. cit., loc. cit.; adotta invece una bipartizione Lombardi F., Osservazioni a Cass. Pen., sez. III, 23 settembre 2015, n. 40663, in Cass. Pen., fasc.1, 2017, 228.
10. Riponti D., op. cit, loc. cit..
11. Basile F., Società multiculturali, cit..
12. Casuscelli G., Il diritto penale, in Casuscelli (a cura di), Nozioni di diritto ecclesiastico, Torino, 2012, 357.
13. Trib. di Padova, sent. 09\11\2007, in DeJure.
14. Il parere riporta anche la posizione di alcuni membri del Comitato Nazionale per la Bioetica contrari all’ospedalizzazione della pratica, potendo essa essere svolta anche da ministri del culto adeguatamente preparati e competenti.
15. Anche quando praticato nell’Islam la valenza dell’atto è più tradizionale che religiosa, come precisato dal parere del Comitato.
16. Corte App. di Venezia, sent. 12\10\2009.
17. Cass. Pen., sez. VI, sent. 22\06\2011 n. 43646. La vicenda si conclude con la non punibilità della madre a titolo di concorso in esercizio abusivo della professione medica in quanto non è dimostrata l’intergazione dell’elemento del dolo.
18. Piqué F., op. cit., loc. cit..
19. Trib. di Padova, sent. 09\11\2007, in DeJure.
20. Trib. Min. di Torino, decr. 21\06\1997 e decr. 17\07\1997, in Min. Giust., 1999, fasc. 3, 143.
21. Trib. Min. di Bologna, sent. 08\05\2006, in Dir. Imm. Citt., 2006, fasc. 4, 175.
22. Cass. Pen., sez. III, sent. 17\09\2007, n. 34909.
23. Trib. di Bologna, 24\10\2007, inedita, in Basile F., Premesse per uno studio sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giurisprudenza europea sui c.d. reati culturalmente motivati, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., fasc. 1, 2008, 149.
24. Cass. Pen. sez. V, sent. 27\06\2007 n. 31510. Il ricorso viene dichiarato inammissibile in quanto avente ad oggetto un accertamento di fatto, non censurabile in sede di legittimità.
25. Cass. Pen., sez. VI, sent. 30\01\2007 n. 3419.
26. Cass. Pen., sez. VI, sent. 24\11\1999 n. 3398: “L’imbarbarimento del diritto e della giurisprudenza, quale si pretende invocando la scriminante di cui all’art. 50 c.p. di fronte a comportamenti lesivi della integrità fisica, della personalità individuale, della comunità familiare, trova un insormontabile ostacolo nella normativa giuridica (per non dire della coscienza sociale) che presiede all’ordinamento vigente”.
27. Cass. Pen., sez. III, sent. 25\01\2007 n. 2841.
28. Corte d’Ass. di Cagliari, sent. 10\03\1982, in Foro It., vol. 106, n.1 (gennaio 1983), 27\28, con nota di Fiandaca G..
29. Cass. Pen., sez. I, sent. 13\12\1983, in Foro It., vol. 107, n. 7\8 (luglio\agosto 1984), 361\362, con nota di Floris P.. In secondo grado viene fatta valere una circostanza attenuante.
30. Cass. Pen., sez. III, sent. 25\01\2007 n. 2841.
31. Cass. Pen., sez. V, sent. 27\06\2007 n. 31510.
32. Cass. Pen., sez. VI, 08\01\2002, in Dir. Pen. Proc., 2003, fasc. 3, 285.
33. Cass. Pen., sez. VI, sent. 26\11\2008 n. 46300.
34. Cass. Pen., sez. VI, sent. 12\08\2009 n. 32824.
35. Cass. Pen., sez. III, sent. 17\09\2007 n. 34909. Addirittura il ricorrente si spinge a sostenere che il reo si fosse comportato con “una dose di rispetto anche durante le asserite violenze”.
36. Cass. Pen., sez. III, sent. 23\09\2015 n. 40663.
37. Trib. di Arezzo, sent. 27\11\1997, in Basile F., Premesse, cit..
38. Pret. di Torino, 04\11\1991, in Cass. Pen., 1992, fasc. 6, 1647.
39. Cass. Pen., sent. 07\10\1992, in Giur. it., 1993, fasc. 2, 582.
40. Corte d’Ass. di Cagliari, sent. 10\03\1982, in Foro It., vol. 106, n.1 (gennaio 1983), 27\28, con nota di Fiandaca G..
41. Cass. Pen., sez. I, sent. 13\12\1983, in Foro It., vol. 107, n. 7\8 (luglio\agosto 1984), 361\362, con nota di Floris P..
42. Corte d’Ass. D’App. di Roma, sent. 13\06\1986, in Foro It., vol. 109, n. 11 (novembre 1986), 605\606, con nota di Albeggiani F..
43. Cass. Pen., sez. V, 07\12\1989, in Foro It., 1990, vol 113, 369.
44. Sulla stessa linea, in dottrina si è detto che è sufficiente che oggetto di dolo sia la consapevolezza di ledere un bene giuridico protetto, senza la pretesa della conoscenza della tutela apprestata al bene stesso da parte dell’ordinamento. Ne consegue che il reo colpevole di maltrattamenti ma che ritenga di agire correttamente agisce comunque con dolo: “si è rappresentato chiaramente di offendere il bene protetto, ovvero di ledere l’integrità fisica dei suoi familiari, e a nulla rileva la sua convinzione che tale interesse non meriti tutela di fronte al suo potere di capo famiglia”: Piqué F., op. cit., loc. cit..
45. Cass. Pen., sez. III, sent. 25\01\2007 n. 2841.
46. Cass. Pen., sez. III, sent. 02\07\2018 n. 29613. Corsivi aggiunti.
47. Corte d’App. di Venezia, sent. 23\11\2012 . V. D’Amico M., I diritti contesi, Milano, 2016, 244.
48. Trib. Min. di Torino, decr. 17\07\1997, in Min. Giust., 1999, fasc. 3, 143.
49. Cass. Pen., sez. V, 07\12\1989, in Foro It., 1990, vol 113, 369. Nel caso di specie, comunque, era stata negata la possibile ignoranza scusabile anche per un elemento concreto: i rei avevano posto in essere degli artifizi vòlti ad eludere la propria imputabilità.
50. Cass. Pen., sez. VI, 08\01\2002, in Dir. Pen. Proc., 2003, fasc. 3, 285.
51. Trib. di Padova, sent. 09\11\2007, in DeJure.
52. Cass. Pen., sez. VI, sent. 22\06\2011 n. 43646.
53. Trib. di Arezzo, sent. 27\11\1997, in Basile F., Premesse, cit..
54. Trib. di Padova, sent. 09\06\2005, in Dir. Imm. Citt., 2006, fasc. 4, 200.
55. Cass. Pen., sez. III, 17\09\2007, n. 34909. Cass. Pen., sez. III, 07\12\1993 n. 3114, massimata in Giust. Pen., 1994, II, 489, redarguisce parlando di “conseguenze aberranti della ‘generalizzazione’ del principio dell’ignoranza scusabile della legge del paese ospitante, invocata in base alla diversità della tutela penale rispetto al paese d’origine”. Il caso riguarda un uomo marocchino congiuntosi carnalmente con una bambina di nove anni, affidatagli dalla madre emigrata in Germania, per un periodo di circa due anni. Ricorrendo in Cassazione, aveva sostenuto la scusabilità dell’ignoranza in quanto in Marocco la condotta punita è lecita.
56. Cass. Pen., sez. V, 07\12\1989, in Foro It., 1990, vol 113, 369; Cass. Pen., sez. III, 02\07\2018 n. 29613.
57. Trib. di Bologna, sent. 16\11\2006, inedita. V. nota n. 37 in Piqué F., op. cit., loc. cit. e Basile F. Premesse, cit..
58. Cass. Pen., sez. VI, sent. 29\05\2009 n. 22700, sul reato di maltrattamenti in famiglia.
59. Cass. Pen., sez. VI, sent. 30\01\2007 n. 3419.
60. Corte d’Ass. di Cagliari, sent. 10\03\1982, in Foro It., vol. 106, n.1 (gennaio 1983), 27\28, con nota di Fiandaca G..
61. Corte d’Ass. d’App. di Cagliari, sent. 13\12\1982, massimata in Giur. It., 1983, II, 363.
62. Casuscelli G., op.cit., loc. cit..
63. Cass. Pen., sez. III, 17\09\2007 n. 34909.
64. Cass. Pen., sez. I, 04\12\2013 n. 51059, massimata in www.giurisprudenzapenale.com, 13\02\2014.
65. Trib. di Milano, sent. 25\11\1999, in Dir. Imm. Citt., 2000, fasc. 1, 148.
66. Trib. di Padova, sent. 09\06\2005, in Dir. Imm. Citt., 2006, fasc. 4, 200.
67. Si precisa che la pena è stata infine ridotta da 22 anni e 6 mesi a 15 anni per la sola scelta del rito.
68. Corte d’App. di Venezia, sent. 09\11\2006, in Dir. Imm. Citt., 2006, fasc. 4, 204.
69. Cass. Pen., sent. 14\06\2006 n. 20393, inedita. V. Basile F., Premesse, cit..
70. Trib. di Brescia, sent. 20\01\2003, inedita. V. Basile F., Premesse, cit..
71. Trib. di Verona, sent. 14\10\2010. V. D’Amico M., cit., 244.
72. Corte Cost., 24\03\1988 n. 364.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Lara Gallarati

Avvocato presso il Foro di Milano.

Articoli inerenti