I riflessi del ne bis in idem convenzionale sul doppio binario sanzionatorio degli abusi di mercato
La questione in esame[1] trae spunto da una recente ed interessante sentenza emessa dal tribunale di Milano in data 1° febbraio 2019 con la quale si affronta un caso davvero particolare relativo al tema tanto attuale quanto complesso della rilevanza nel bis in idem sul trattamento sanzionatorio in sede penale, anche alla luce della giurisprudenza delle Corti nazionali ed europee.
Il caso, come si accennava, è singolare. Gli imputati, ai quali era stata applicata in via definitiva la sanzione pecuniaria di centomila euro per la violazione dell’art. 187-ter TUF (illecito amministrativo), erano stati tratti a giudizio per il medesimo fatto (storico) qualificato ex art. 185 TUF come delitto di manipolazione del mercato[2]. Ritenuta la penale responsabilità degli stessi, il tribunale di Milano si è interpellato circa la sanzione da irrogare in concreto che, con riguardo ai criteri fissati dall’art. 133 c.p., è stata fissata nel minimo edittale (anni due di reclusione e 40 mila euro di multa).
Atteso che la sanzione amministrativa pecuniaria già definitivamente inflitta dalla Consob è risultata molto elevata, il Giudice è stato costretto –per dare diretta applicazione alle norme convenzionali «senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale»[3] – a trovare una soluzione di compromesso nella commisurazione della pena al fine di assicurare – nel complesso – una “proporzionalità” tra il cumulo delle sanzioni complessivamente irrogate agli imputati e la gravità dell’illecito realizzato[4].
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, il tribunale si è espresso sulla richiesta formulata dagli imputati di pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 649 c.p.p. poiché essendo già stati “condannati” in sede amministrativa, qualora si fosse giunti ad una sentenza di condanna, si sarebbe leso il diritto al ne bis in idem espresso a livello sovranazionale nell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti umani (d’ora in poi CEDU)[5], nonché nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (d’ora in poi CDFUE o Carta di Nizza)[6].
Sul punto, è bene ripercorrere la questione anche alla luce degli sviluppi giurisprudenziali nazionali e sovranazionali che hanno caratterizzato la materia della manipolazione di mercato.
Invero, in un primo tempo, il sistema del doppio binario sanzionatorio ha ricevuto censure – anche importanti – da parte della Corte europea dei diritti umani.
Il punto di partenza deve individuarsi nella sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014, ove la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che l’applicazione del cumulo sanzionatorio, così come risultante dal TUF, contrastasse con la garanzia al ne bis in idem prevista dall’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU.
Decisiva, nell’accertamento della violazione della garanzia convenzionale, era la qualificazione alla stregua di “sanzione sostanzialmente penale” della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 187-ter TUF; infatti, sulla scia dei noti criteri Engel, si è ritenuto che, a dispetto del suo nomen iuris, la sanzione de qua si connotasse per un grado di afflittività tale da essere attratta nella nozione sostanziale di “pena”.
Acclarata l’applicabilità dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, in questo primo arresto, la Corte EDU aveva assunto un’impostazione rigorosa, affermando il carattere assoluto del divieto convenzionale: ovverosia, aveva statuito il divieto assoluto di avviare, nei confronti della medesima persona, ed in relazione ad un idem factum, un secondo procedimento sanzionatorio qualora fosse stata già pronunciata una sentenza definitiva[7].
In linea con l’impostazione allora seguita dalla Corte EDU, la sentenza n. 102 del 2016 della Corte costituzionale, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni sollevate, tra l’altro, dalla Suprema Corte, rilevava che, «in base alla consolidata giurisprudenza Europea», «il divieto di bis in idem ha carattere processuale, e non sostanziale», sicché esso «permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non sì proceda per uno di essi quando è divenuta – definitiva la pronuncia relativa all’altro»[8].
Una diversa prospettiva è stata, invece, assunta, dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea. La sentenza della Grande Sezione del 26/02/2013 Aklagarem c. Akeberg Fransson C-617/10. la Grande Sezione ha sottolineato che «spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi del punto 29 della presente sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive» (par. 36).
Nella definizione, secondo il diritto dell’Unione Europea, della portata del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Corte di giustizia – in ciò distinguendosi dall’impostazione seguita della Corte Edu con la sentenza Grande Stevens – fa dunque riferimento alla necessaria valutazione dell’adeguatezza delle «rimanenti» sanzioni rispetto ai già richiamati canoni di effettività, proporzionalità e dissuasività.
Senonché, con la sentenza A. e B. c. Norvegia del 15 novembre 2016, la Grande Camera della Corte EDU ha parzialmente modificato, attenuandola, la portata della garanzia de qua. In forza di tale parziale revirement, si è impressa al divieto di ne bis in idem una dimensione eminentemente esecutiva.
Difatti, si è affermato che non è preclusa la duplicazione di procedimenti sanzionatori a condizione che, tra questi, sussista una «sufficiently close connection in substance and in time». Siffatta connessione implica, sul piano sostanziale, che i due procedimenti (a) perseguano scopi differenti e complementari; (b) siano prevedibili; (c) siano condotti in modo tale da evitare una duplicazione dell’attività istruttoria; (d) sfocino nell’applicazione di sanzioni che siano proporzionate alla gravità dell’offesa. Sul piano temporale, la connessione presuppone che (e) ci sia un collegamento cronologico tra i procedimenti, di modo che ci sia una contiguità temporale.[9]
Da ciò ne deriva che, la medesima persona può essere sottoposta ad un duplice procedimento, volto a sanzionare un idem factum, purché la risposta sanzionatoria, che deriva dal cumulo delle due pene, sia complessivamente proporzionata alla gravità del fatto.
Di talché, la conformità del doppio binario sanzionatorio ove rispettoso di tale condizione. In questo quadro si collocano le tre pronunce rese il 20 marzo 2018 dalla Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea nelle cause Menci (C-. 524/15), Garlsson Real Estate SA in, liquidazione, Ricucci Stefano, Magiste International SA c. Consob (C-537/16) e Di Puma c. Consob e Consob c. Zecca (C-596/16 e C-597/16).
In particolare, nella sentenza Garisson Real Estate e. a. c. CONSOB, — riguardante anch’essa un’ipotesi di manipolazione del mercato — la Corte di Lussemburgo, risolvendo le due questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte di Cassazione, ha infatti affermato che il divieto di bis in idem preclude «di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva». E che inoltre, il principio euro-unitario del ne bis in idem «conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile nell’ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale».
In definitiva, si può desumere che il criterio della proporzionalità della pena complessiva irrogata costituisce il criterio cardine per verificare la conformità del doppio binario sanzionatorio, rispetto al principio dei ne bis in idem.
Come osservato recentemente dalla Suprema Corte, diviene dunque necessario che, nell’ordinamento interno, siano previsti dei meccanismi compensatori volti ad assicurare il coordinamento delle sanzioni: al fine di verificare il rispetto del divieto di bis in idem, «occorre stabilire se la sanzione imposta all’esito del procedimento conclusosi per primo sia stata tenuta presente nel procedimento conclusosi per ultimo»[10].
A confortare ulteriormente il mutato scenario è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 43 del 24 gennaio 2018: «il mutamento del significato della normativa interposta [CEDU], sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo, che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale. Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità di introdurre, nell’ordinamento, incidendo sull’art. 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto».
L’ultimo approdo giurisprudenziale, da cui non può assolutamente prescindersi, si deve alla Suprema Corte, intervenuta con la già citata sentenza n. 45829 del 16 luglio 2018.
Dando applicazione ai principi suesposti, così come interpretati dalle Corti sovranazionali, i giudici di legittimità hanno verificato l’esistenza di meccanismi di coordinamento volti ad assicurare la complessiva proporzionalità delle pene alla gravità del fatto.
In tale indagine, si è giunti a ritenere che «non sussiste la violazione del principio di ne bis in idem nei caso in cui le sanzioni penale ed amministrativa complessivamente irrogate rispettino il principio di proporzionalità»; e che «se è vero che l’art. 187-terdecies TUF non può essere assunto — nella sua attuale formulazione — quale parametro normativa a tali fini, dal momento che non permette al giudice di modulare la risposta sanzionatoria, tenendo conto del cumulo della sanzione pecuniaria e detentiva, è altresì vero che l’art. 133 c.p. impone in via generale al giudice di commisurare la pena alla ‘gravità’ del fatto commesso».
Si aggiunga che, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 4 del d.lgs. 107/2018, il necessario coordinamento sanzionatorio può ritenersi, definitivamente ed espressamente, realizzato nell’ambito del doppio binario sanzionatorio ivi in considerazione.
Ciò è quanto si evince dal novellato art. 187-terdecies, co. 1, TUF, il quale oggi dispone: «quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del reo, dell’autore della violazione o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 187-septies ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato: (a) l’autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate; (b) l’esazione della pena pecuniaria, della sanzione pecuniaria dipendente da reato ovvero della sanzione pecuniaria amministrativa è limitata alla parte eccedente quella riscossa, rispettivamente, dall’autorità amministrativa ovvero da quella giudiziaria».
Pertanto, è chiaro nel caso in esame non vi era alcun impedimento formale né sostanziale all’affermazione della penale responsabilità degli imputati che, di fatto, il tribunale ha pronunciato ex art. 185, co. 1, D. Lgs. n. 58/1998 per il reato di manipolazione del mercato (anche noto come aggiotaggio manipolativo) in concorso tra loro.
Tale fattispecie viene a configurarsi allorché siano diffuse notizie false, o poste in essere «operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari».
Invero, sulla base dell’istruttoria, il tribunale ha ritenuto che gli imputati hanno posto in essere condotte artificiose tenuto specialmente conto della loro aggressività e della loro collocazione spazio-tempo, le quali si sono rivelate concretamente idonee ad alterare sensibilmente il prezzo dello strumento finanziario oggetto della negoziazione.
Venendo, ora, al “nocciolo” della questione deve evidenziarsi che il tribunale ha determinato il trattamento sanzionatorio avendo riguardo non solo ai criteri commisurativi dettati dall’art. 133 c.p., ma altresì al novellato art. 187-terdecies TUF il quale, pur costituendo una lex posterior, incide su tale profilo determinando effetti favorevoli.
La novità è, però, senza dubbio costituita dal fatto che si è tenuto presente quanto rilevato nella sentenza Garlsson Real Estate e. a. c. CONSOB, secondo la quale la sproporzione sanzionatoria non è in realtà scongiurata dal meccanismo delineato dall’art. 187-terdecies TUF il quale «sembra avere ad oggetto solamente il cumulo di pene pecuniarie e non il cumulo di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale e di una pena della reclusione»[11].
È dunque compito del giudice nazionale verificare la sussistenza del requisito della proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato[12]; qualora questa valutazione conduca a ritenere detto trattamento lesivo della garanzia del ne bis in idem, il giudice nazionale dovrà dare diretta applicazione al principio garantito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, disapplicando in mitius le norme che questo trattamento definiscono.
In questa direzione vanno, infatti, anche gli approdi della giurisprudenza della Corte di giustizia che – in linea con quelli della Corte EDU – possono essere cosi enunciate: nella verifica della compatibilità con il principio del ne bis in idem del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all’autore dell’abuso di mercato, il giudice comune deve valutare la proporzionalità del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto, da apprezzarsi con riferimento agli aspetti propri di entrambi gli illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo) e, in particolare, agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato (anche sotto il profilo dell’incidenza del fatto sull’integrità dei mercati finanziari e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), tenendo conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo “compensativo” di cui all’art. 187-terdecies TUF; qualora detta valutazione dovesse condurre a ritenere il complessivo trattamento sanzionatorio lesivo della garanzia del ne bis in idem, nei termini sopra diffusamente richiamati, il giudice nazionale dovrà dare applicazione diretta al principio garantito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, disapplicando, se necessario e, naturalmente, solo in mitius, le norme che definiscono il trattamento sanzionatorio.
Ebbene, con marcato riferimento al caso in esame, si rileva che il reato di manipolazione del mercato è punito con la pena della reclusione da due a dodici anni e con la pena della multa da euro 40.000,00 ad euro 10.000.000,00.
Il tribunale, in considerazione della risalenza nel tempo del fatto commesso dagli imputati e del loro stato di incensuratezza, ha ritenuto di dover irrogare ad entrambi gli imputati una pena coincidente con il minimo edittale previsto dalla disposizione incriminatrice.
Inoltre, «valutata l’entità della sanzione amministrativa già irrevocabilmente inflitta agli imputati —pari a 100.000,00 euro» il tribunale ha, poi, ritenuto «di non dovere applicare alcuna sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 187-terdecies TUE».
Ma vi è di più. La valutazione della compatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio da irrogare con il principio del ne bis in idem è stata spinta sino alla disapplicazione del minimo edittale della pena detentiva stabilita dall’art. 185 TUE.
Il tribunale ha, infatti, considerato che gli imputati sono stati condannati al pagamento di una sanzione amministrativa molto elevata (e, cioè, di euro 100.000,00); si tratta di sanzione pecuniaria superiore a quella che il tribunale ha applicato agli imputati e che si è attestata nel minimo edittale (dunque ad euro 40.000,00).
Pertanto, «Facendo applicazione — quale criterio parametrico al fine di una valutazione in termini attuali della reale afflittività della sanzione – della disposizione di cui all’art. 135 c.p. (nuova formulazione), si rileva che la pena di 60.000,00 euro di multa corrisponde alla pena detentiva di mesi otto di reclusione. Sulla base di queste considerazioni, si ritiene di condannare gli imputati alla pena detentiva di anni uno mesi quattro di reclusione, disapplicando — in mitius — il minimo edittale di anni due di reclusione, e sottraendo al minimo edittale di anni due di reclusione, la pena di mesi otto di reclusione (corrispondente alla sanzione amministrativa pecuniaria irrogata da CONSOB eccedente la multa che questo Tribunale avrebbe irrogato)».
Tale scelta rappresenta certamente una soluzione innovativa dettata dall’esigenza di assicurare il rispetto dei principi elaborati dalle corti europee e sovranazionali all’interno del nostro ordinamento e quella di dare comunque attuazione ad una norma – l’art. 187-terdecies TUF – (ri)scritta troppo in fretta dal Legislatore[13].
Si è perfettamente consapevoli che l’interpretazione fatta propria dal tribunale di Milano potrebbe prestarsi a legittime critiche di “coerenza” con il tenore letterale della predetta norma che – oggettivamente – non contempla esplicitamente la possibilità di commutazione della sanzione pecuniaria amministrativa “eccedente” nel suo corrispondente in termini di pena detentiva.
Tuttavia, si ritiene che – in un’ottica marcatamente eurounitaria – la soluzione al problema non sarebbe potuta essere diversa dal momento che certamente rientra nei poteri del giudice comune il potere di disapplicare la norma di legge in contrasto con i principi europei[14].
Invero, va rimarcato che nel caso in esame il “giudicato” circa illecito amministrativo è divenuto definitivo prima di quello concernente il reato di manipolazione del mercato. E non è una considerazione di poco momento.
Come si è detto, in caso di valutazione di incompatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio con la garanzia del ne bis in idem, il giudice dovrà dar corso all’applicazione diretta del principio garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, disapplicando le norme interne che definiscono il trattamento sanzionatorio.
Disapplicazione, questa, che potrà investire in toto la norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile solo quando la “prima” sanzione sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, avuto riguardo anche agli aspetti propri della “seconda” sanzione e agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato. Solo in presenza di una sanzione irrevocabile idonea, da sola, ad “assorbire” il complessivo disvalore del fatto, dunque, il giudice comune dovrà disapplicare in toto la norma che commina la sanzione non ancora irrevocabile, così escludendone l’applicazione.
Si tratta, all’evidenza, di ipotesi, che, considerata la già evidenziata estraneità della sanzione irrogata dall’autorità amministrativa al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, sono potenzialmente suscettibili di venire in rilievo nel caso in cui la valutazione circa la violazione del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa, essendo già divenuta irrevocabile quella penale (ossia nel caso preso in considerazione dalla sentenza Garisson Rea Estate): sanzione penale, evidentemente, determinata in termini di particolare severità rispetto ai disvalore complessivo del fatto.
Nel caso opposto in cui (come nel caso in esame) la sanzione divenuta irrevocabile sia quella irrogata da Consob, la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale può venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa – evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di gravità, sotto il profilo penale, affatto contenuta – risponda, da sola, al canone della proporzionalità nelle diverse componenti riconducibili ai due illeciti.
Fuori dall’ipotesi del tutto eccezionale appena richiamata, l’accertamento dell’incompatibilità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem comporta, nel caso di sanzione amministrativa già divenuta irrevocabile, esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette- sanzioni – non già in toto, ma – solo nel minimo edittale.
L’attenzione, allora, non deve focalizzarsi sulla – legittima – rideterminazione del minimo edittale, bensì su quelle (rarissime) ipotesi nelle quali la sanzione amministrativa risulta talmente elevata da risultare ex se proporzionale alla gravità dell’illecito.
Cosa accadrebbe, infatti, se la sanzione pecuniaria inflitta dall’autorità amministrativa dovesse eccedere enormemente la multa che il giudice ritenga di applicare all’illecito? La pena detentiva sarebbe, in tesi, completamente commutata.
A ben vedere, però, anche questa ipotesi si pone solo astrattamente in contrasto con i principi del nostro ordinamento poiché la deroga in mitius al minimo edittale sarebbe comunque circoscritta, per quanto riguarda la reclusione, nel limite minimo insuperabile dettato dall’art. 23 c.p..
Il carattere “di sistema” rivestito dal limite minimo di quindici giorni della durata della reclusione, funzionale ad integrare le comminatorie di pena indeterminate nel minimo, è confermato dal rilievo che esso trova applicazione non solo con riferimento alle diminuenti processuali collegate all’opzione per un rito speciale[15], ma anche rispetto ad istituti sostanziali[16] e a comminatorie edittali incise, nel minimo, da declaratorie di illegittimità costituzionale[17].
Pertanto, il necessario riferimento al limite assoluto di quindici giorni di reclusione ex art. 23 c.p. colloca comunque l’eventuale deroga in mitius delle norme sul trattamento sanzionatorio in esame in una cornice edittale delineata dalla legge.
L’unica perplessità che rimane sullo sfondo riguarda la legittimità generale di un tale “sistema” di commutazione che potrebbe, in effetti, andare ad esclusivo vantaggio dei soggetti più abbienti i quali solamente potrebbero far fronte al pagamento di una sanzione economicamente elevatissima e beneficiare, poi, di importanti sconti detentivi in sede penale fino (addirittura) a vedere ridotta la pena a quindici giorni di reclusione ex art. 23 c.p..
Sicuramente la mancata attuazione ai principi stabiliti nel Regolamento (UE) 596/2014 (MAR) e nella Direttiva 2014/57/UE (MAD II) ha contribuito a creare incertezza dal momento che le fonti europee– pur autorizzando il mantenimento del regime del c.d. doppio binario (sanzione penale e sanzione amministrativa per il medesimo fatto) – ne avrebbero subordinato l’ammissibilità al rispetto del superiore principio del divieto di bis in idem[18].
[1] Giacomo Romano, I riflessi del ne bis in idem convenzionale sul doppio binario sanzionatorio degli abusi di mercato, Gazzetta Forense n. 1, Giapeto Editore, Napoli, 2019.
[2] Nell’attuale assetto normativo integrano una fattispecie delittuosa le condotte manipolative su strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati; integrano fattispecie contravvenzionale le condotte manipolative poste in essere in ogni sede di negoziazione alternativa (piattaforme MTF e OTF, art. 180, co. 1, lett. a), n. 2 e n. 2-bis). Per quanto concerne gli strumenti finanziari non quotati su alcun mercato, né regolamentato né alternativo (art. 180, co. 1, lett. a) n. 2-ter), l’art. 185, co. 2-bis, TUF prevede una fattispecie contravvenzionale «limitatamente agli strumenti finanziari il cui prezzo o valore dipende dal prezzo o dal valore di uno strumento finanziario di cui ai numeri 2 e 2 bis ovvero ha un effetto su tale prezzo o valore o relative alle aste su una piattaforma d’asta autorizzata come un mercato regolamentato di quote di emissioni». Quindi, con riferimento agli strumenti finanziari non quotati su alcun mercato, né regolamentato né alternativo, è ipotizzabile un illecito contravvenzionale quando la condotta manipolativa abbia ad oggetto derivati. Nella fattispecie sia la strumento finanziario derivato oggetto della condotta manipolativa contestata (il warrant FSA), sia lo strumento finanziario sottostante erano negoziati in un mercato regolamentato, e precisamente nel segmento blue chip organizzato e gestito da Borsa italiana.
[3] Così testualmente CGUE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Real Estate.
[4] Cass. pen. Sez. V, 16 luglio – 10 ottobre 2018, n. 45829.
[5] L’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU sancisce che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».
[6] L’art. 50 CDFUE prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».
[7] Richiamati gli scopi della Consob («assicurare la tutela degli investitori e l’efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici»), la Corte di Strasburgo aveva sottolineato come le sanzioni pecuniarie da essa inflitte «mirassero essenzialmente a punire per impedire la recidiva», sicché erano basate «su norme che perseguivano uno scopo preventivo, ovvero dissuadere gli interessati dal ricominciare, e repressivo, in quanto sanzionavano una irregolarità» e, diversamente da quanto sostenuto dal Governo italiano, non si prefiggevano unicamente di riparare un danno di natura finanziaria; inoltre, «le sanzioni erano inflitte dalla Consob in funzione della gravità della condotta ascritta e non del danno provocato agli investitori» (p. 96). Ricostruita la disciplina sanzionatoria amministrativa prevista dal TUF, la sentenza Grande Stevens sottolineava che «il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (…), e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta» (p. 98), giungendo così alla conclusione che «le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell’ambito della materia penale» (p. 99). Muovendo dal riconoscimento della riconducibilità nella materia penale della sanzione inflitta dalla Consob in relazione all’illecito di cui all’art. 187-ter TUF, la Corte EDU metteva in luce la portata del principio convenzionale del ne bis in idem sotto un duplice profilo: per un verso, infatti, «(l)a garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato» (p. 220) e, per altro verso, «la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 ter e art. 185, punto 1 siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla Consob e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta» (p. 224). Risolte in termini positivi le verifiche relative alla sussistenza dei presupposti di operatività del principio convenzionale, la Corte EDU concludeva nel senso della violazione dell’art. 4 del Prot. n. 7.
[8] D’altra parte, la sentenza n. 102 del 2016 indirizzava un monito al legislatore, rilevando che «spetta anzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU» e osservando che, in tale prospettiva, «si muove il recente Legge Delega 9 luglio 2015, n. 114, art. 11, comma 1, lettera m), (Delega al Governo per il recepimento delle direttive Europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea. Legge di delegazione Europea 2014), per l’attuazione alla direttiva n. 2014/57/UE, che impone agli Stati membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato, commessi con dolo e permette loro di aggiungere una sanzione amministrativa nella linea dell’art. 30 del regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE». In effetti, la direttiva 2014/57/UE stabiliva, quale termine per il suo recepimento, il 03 luglio 2016 e la legge di delegazione Europea 2014 richiamata dal giudice delle leggi (L. 9 luglio 2015, n. 114) delegava, all’art. 11, il Governo all’attuazione della direttiva stessa: tale delega, tuttavia, non fu esercitata.
[9] La Grande Carriera sottolinea, inoltre, la necessità di valutare se le sanzioni non formalmente penali non siano riconducibili al «nucleo essenziale» del diritto penale, poiché, «se, a titolo supplementare, tale procedimento non ha carattere veramente infamante, vi sono meno possibilità che faccia gravare un onere sproporzionato sull’accusato» (p. 133).
[10] Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 45829/2018 p. 15. 23
[11] Al riguardo, dunque, pur ravvisando profili di illegittimità della disciplina interna, avuto particolare riguardo alla mancata riferibilità del meccanismo “compensativo” ex art. 187-terdecies TUF anche alla pena della reclusione comminata dalla norma penale in materia di abusi di mercato, la sentenza Garlsson Real Estate riconosce comunque un margine di apprezzamento, in relazione alla fattispecie concreta, in capo al giudice nazionale: conclusione, questa, che trova conferma nelle indicazioni offerte anche dalla sentenza Menci, in tema di disciplina del cumulo sanzionatorio relativo agli illeciti tributari, lì dove sottolinea che spetta al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell’applicazione concreta della normativa sanzionatoria nell’ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato in questione e, dall’altro, l’onere risultante concretamente per l’interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale (p. 59).
[12] cfr. Cass. pen., Sez. 5, 16 luglio 2018, Franconi: giudizio che, nella prospettiva eminentemente – pur se non esclusivamente – sostanziale assunta dal divieto di bis in idem a seguito della recente convergenza degli orientamenti delle Corti Europee (convergenza registrata anche dalla Corte costituzionale), integra un elemento essenziale della garanzia, tanto nella prospettiva della Cedu, quanto in quella del diritto dell’Unione Europea.
[13] Articolo inserito dall’art. 9, co. 2, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Legge comunitaria 2004), modificato dall’art. 3, co. 19, del D.Lgs. 29 dicembre 2006 n. 303 e da ultimo sostituito dall’art. 4, co. 17 del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 107.
[14] È oramai pacifico che le sentenze della Corte di giustizia rese in via pregiudiziale vincolano il giudice nazionale che ha effettuato il rinvio, ma dispiegano i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 9 giugno 2016, n. 11) e hanno «al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni» (Corte costituzionale, 13 luglio 2007, n. 284). La normativa interna va quindi interpretata conseguentemente.
Inoltre, «il principio del ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile nell’ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale» (sentenza Garisson Real Estate) e non reca alcun vulnus ai principi costituzionali su cui poggia il nostro ordinamento.
Del resto, neanche il principio di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. può rappresentare un ostacolo poiché, come la Suprema Corte ha già avuto modo di rilevare con l’ordinanza n. 1782/15 del 10/11/2014, esso non può «operare come una sorta di generalizzata preclusione al “recepimento”, nell’ordinamento interno, della riconducibilità nel genus della sanzione penale, così come delineato dalla Cedu, di sanzioni formalmente non qualificate come tali»: rilievo, questo, all’evidenza riferibile anche al “recepimento” dell’interpretazione del diritto dell’Unione Europea – e, segnatamente, dell’art. 50 CDFUE – offerta dalla Corte di giustizia.
I medesimi rilievi valgono anche con riguardo al principio di legalità, che pure non può essere invocato per giustificare una indiscriminata preclusione alla conformazione del diritto interno al diritto dell’Unione Europea in materia penale: rilievo, questo, che trova conferma, in primo luogo, nelle tante pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema, ad esempio, di disciplina dell’immigrazione alla luce della direttiva 2008/115/CE e della sentenza della Corte di Giustizia, 28 aprile 2011, EI Dridi (ex plurimis, Sez. 1, n. 20130 del 29/04/2011, Sali) o di disciplina delle scommesse alla luce degli artt. 49 e 56 TFUE e di varie decisioni della Corte di Lussemburgo (ex plurimis, Sez. 3, n. 43955 del 15/09/2016, Tornassi). Ma analoga conferma si rinviene nella giurisprudenza costituzionale; investita delle questioni di legittimità della disciplina sanzionatoria penale in materia di giochi e scommesse, sollevate anche in riferimento ad alcune norme dei Trattati e sulla base, tra l’altro, del rilievo che, «ai fini della certezza del diritto e della sua applicazione», la normativa censurata dovrebbe essere «necessariamente e preliminarmente» sottoposta a vaglio di legittimità costituzionale «per contrasto con tutte le disposizioni di rango primario, Europee ed italiane che siano», la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 48 del 2017, ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui: «per giurisprudenza di questa Corte, fondata sull’art. 11 della Costituzione e costante a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, il giudice nazionale deve dare piena e immediata attuazione alle norme dell’Unione Europea provviste di efficacia diretta – quali pacificamente sono quelle evocate dall’odierno rimettente (sentenza n. 284 del 2007) – e non applicare, in tutto o anche solo in parte, le norme interne ritenute con esse inconciliabili>>; la <<non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite – sindacabile unicamente da questa Corte – del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona».
Principi e diritti fondamentali della persona che risultano salvaguardati dall’assetto del ne bis in idem e dei compiti di accertamento riconosciuti al giudice penale. Infatti, sempre con riguardo al principio di legalità in materia penale, mette conto osservare che l’apprezzamento cui è chiamato, nei termini sopra indicati, il giudice comune con riferimento alla compatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato all’interessato con la garanzia del ne bis in diem è sostanzialmente affine alle valutazioni sottese ai parametri commisurativi di cui all’art. 133 c.p., determinando, rispetto ad essi, un “allargamento” dell’oggetto di tali valutazioni, che, per un verso, devono essere estese al trattamento sanzionatorio inteso come comprensivo anche della sanzione formalmente amministrativa e, per altro verso, devono investire il fatto commesso nei diversi aspetti propri dei due illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo).
[15] cfr., per il giudizo abbreviato, Cass. pen., Sez. 7, n. 27674 del 15 marzo 2016, Diop; per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, Sez. 6, n. 4917 del 3 dicembre 2003 – dep. 2004,.Pianezza.
[16] cfr. Cass. pen., Sez. 3, n. 29985 del 3 giugno 2014, Lan, che ha ritenuto il limite minimo assoluto di giorni quindici ex art. 23 c.p. invalicabile anche in relazione ai delitti tentati; cfr. ancora Sez. 5, n. 4892 del 22 ottobre 2010 dep. 2011, Cariolo.
[17] cfr. Cass. pen., Sez. 6, n. 6190 del 11 aprile 1995, Bonina, che, con riguardo alla declaratoria di illegittimità costituzionale del minimo edittale per il reato di oltraggio stabilita dalla sentenza n. 341 del 1994 della Corte costituzionale, ha individuato la pena minima facendo rifermento all’art. 23 c.p..
[18] La direttiva 2014/57/UE impone agli Stati membri la “criminalizzazione” degli abusi di mercato gravi e, pur affermando che (considerando n. 22) ciò non comporta l’esonero per gli Stati membri dall’obbligo di contemplare sanzioni amministrative e altre misure per le violazioni previste nel regolamento (UE) n. 596/2014, consente di prevedere per tali violazioni unicamente sanzioni penali nel loro ordinamento nazionale.
Inoltre, ricordando che il termine per il recepimento era fissato per il 3 luglio 2016, il considerando n. 23 della direttiva 2014/57/UE afferma che, mentre le condotte illecite commesse con dolo dovrebbero essere punite penalmente, almeno nei casi gravi, le sanzioni per le violazioni del regolamento (UE) n. 596/2014 non richiedono che sia comprovato il dolo o che gli illeciti siano qualificati come gravi. Nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della direttiva, gli Stati membri devono garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi della direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n. 596/2014 non violasse il principio del ne bis in idem.
Allo stesso modo, il considerando n. 72 del regolamento (UE) n. 596/2014 prevede che, se nulla osta a che gli Stati membri stabiliscano sanzioni amministrative oltre che sanzioni penali per le stesse infrazioni, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a stabilire regole in materia di sanzioni amministrative riguardanti violazioni del regolamento già soggette al diritto penale nazionale. Conformemente al diritto nazionale, in sostanza, gli Stati membri non sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato, ma possono farlo se il loro diritto nazionale lo consente.
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.