ICI, IMU ed aiuti di Stato: la tassazione degli enti ecclesiastici alla luce della recente normativa e giurisprudenza nazionale e comunitaria
Il tema dei trattamenti agevolativi che sul piano fiscale gli Stati possono riservare ad enti che a vario titolo svolgono determinate attività di interesse sociale è stato da tempo al centro di un dibattito che ha interessato sia l’assetto della legislazione fiscale nazionale sia la sua compatibilità con il diritto sovranazionale, in particolar modo quello dell’Unione europea.
Del resto, il diritto comunitario, pur non avendo un diritto tributario unionale, grazie ad una sensibilità crescente per temi e problemi fino a qualche tempo fa inesplorati, è penetrato nei diversi ordinamenti fiscali nazionali grazie all’attività interpretativa della Corte di Giustizia e dei giudici nazionali. Proprio nel contesto appena descritto, si inserisce una importante sentenza della Corte di Giustizia UE del 6 novembre 2018 (sulle cause riunite da C-622/16 P a C-624/16 P) che ha riacceso il dibattito mai sopito (e che ha portato peraltro all’avvio di un’indagine formale da parte della Commissione europea) sulla compatibilità con la disciplina degli aiuti di Stato dell’esenzione prevista dalla normativa istitutiva dell’ICI (rimasta in vigore anche dopo l’abrogazione dell’ICI e l’introduzione dell’IMU) in riferimento agli immobili utilizzati dagli enti ecclesiastici[1] e destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali e sportive, nonché delle attività di religione e di culto.
Al riguardo, però, prima di entrare nel “vivo” della questione relativa all’ICI (ora IMU) e gli “immobili religiosi” come affrontata nel tempo dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, si impone una necessaria premessa generale volta a tratteggiare preliminarmente e a verificare, seppur brevemente, le caratteristiche della soggettività tributaria degli enti ecclesiastici[2].
In primo luogo, come è noto, la norma fondamentale in materia di enti ecclesiastici contenuta nell’art. 20 della nostra Carta Costituzionale afferma che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività»[3].
Tale norma, oltre ad essere posta a tutela di eventuali trattamenti in peius nei confronti di detti enti e per garantire l’uguale trattamento non eliminando comunque la possibilità di interventi di favore eventualmente giustificabili in ragione della tipologia di attività poste in essere[4], diventa momento di applicazione al caso particolare degli enti religiosi proprio dei principi fissati dagli artt. 53 (capacità contributiva e progressività dei tributi) e 23 Cost. (principio della legalità dei tributi). Questo significa che la situazione economica degli enti, e perciò la loro capacità contributiva, non può essere influenzata dalla qualificazione o dai fini confessionali[5].
In linea generale, poi, va premesso, che il nostro ordinamento tributario riconosce gli enti commerciali o c.d. for profit[6], che esercitano in modo esclusivo o prevalente attività di natura commerciale, e gli enti non commerciali, o c.d. no profit.
La diversità tra le due categorie, che ovviamente hanno una rilevanza e soggettività tributaria differente, non deriva necessariamente dalla natura commerciale o meno dell’attività in quanto gli enti non commerciali possono svolgere anche attività diverse (tra cui anche attività di natura commerciale). Infatti, non tutti gli enti non lucrativi sono per definizione no profit, così come pure non tutti gli enti no profit sono necessariamente non commerciali[7]. Inoltre la differenza tra le due categorie non deriva neppure dalla presenza o meno del fine di lucro o da quale sia la destinazione dei risultati di gestione. La differenza tra un ente no profit ed un ente for profit è rappresentata, invece, essenzialmente dalla diversa modalità di svolgimento delle attività commerciali[8]. Infatti, ai sensi dell’art. 55 T.U.I.R., è stabilito chiaramente che l’ente non commerciale non ha quale oggetto esclusivo e prevalente lo svolgimento di attività che determinano il conseguimento di redditi d’impresa[9].
L’attività essenziale deve poi essere individuata, sul piano formale, con riferimento all’oggetto determinato dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata (c.d. riconoscimento ex lege). In ogni caso, quanto risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto (c.d. autoqualificazione dell’ente) deve essere verificato in base all’attività effettivamente svolta ai sensi dell’art. 149 T.U.I.R.[10], rubricato Perdita della qualifica di ente non commerciale (c.d. criterio sostanziale)[11].
Ovviamente, in mancanza delle forme sopra menzionate, per determinare l’oggetto principale si guarda esclusivamente all’attività effettivamente esercitata. Nell’ipotesi in cui i richiamati atti prevedano la possibilità di svolgere più attività, di cui alcune non lucrative, il Ministero ha specificato che occorre fare riferimento all’attività che risulta essere essenziale.
Ciò posto, appare evidente che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti[12], dal punto di vista fiscale, devono essere considerati enti non commerciali[13] non avendo (per legge) come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali quanto, piuttosto, il perseguimento del fine di religione e di culto[14]. Esso, dunque, ha la qualificazione di ente non commerciale poiché esercita un’attività diretta a perseguire il fine di religione o di culto, requisito costitutivo ed essenziale ai sensi della l. 222 del 1985 e delle intese[15].
Peraltro, in base a quanto previsto dall’art. 149, IV co., del T.U.I.R.[16], gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono presunti iuris et de iure[17] “enti non commerciali di diritto”. Essi, dunque, non possono perdere tale qualifica neppure nel caso in cui esercitino attività di natura commerciale e perfino nell’ipotesi in cui le attività di natura commerciale risultino di fatto prevalenti rispetto a quelle non commerciali[18]. Infatti, pure nel caso in cui l’ente, ferma l’essenzialità dello scopo di culto o di religione, svolgesse attività diverse (persino attività commerciali) in modo prevalente, non perderebbe mai la qualifica di ente ecclesiastico e, quindi, di ente non commerciale[19]. Il non perseguimento del fine lucrativo diventa così uno degli elementi strutturali di questi enti che, pur non potendo perseguire il lucro soggettivo, hanno la facoltà di perseguire quello oggettivo che, non contrastando con la natura di ente non commerciale[20], ne è anzi il denominatore comune[21].
Per quanto riguarda invece gli enti ecclesiastici privi del riconoscimento agli effetti civili o comunque di quegli enti (come le associazioni private di fedeli) che, pur sorti nell’ordinamento canonico, vengono riconosciuti soltanto in base alla normativa comune, il carattere commerciale o non commerciale viene rilevato sulla base di ricognizione specifica, basata sul tipo di attività svolta[22].
Va precisato che il nostro ordinamento riconosce agli enti non commerciali una capacità contributiva limitata; in altri termini, contrariamente a quanto previsto per gli altri soggetti, concorrono, ai sensi dell’art. 143 T.U.I.R. (ex art. 108), alla formazione del loro reddito imponibile complessivo soltanto le categorie dei redditi fondiari, di capitale, dei redditi d’impresa e diversi ovunque prodotti e quale ne sia la destinazione, ad esclusione di quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva (es. interessi bancari, interessi sui titoli di Stato)[23].
Ciò premesso, occorre anche evidenziare che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti beneficiano di numerose agevolazioni di natura fiscale[24] essendo normativamente previste specifiche deroghe alle discipline dei singoli tributi. Nei loro confronti, in particolare, può essere determinata la non applicazione degli stessi tributi ovvero una riduzione del prelievo[25].
Dobbiamo anche tenere a mente che il regime preferenziale riconosciuto alla Chiesa Cattolica in materia tributaria si può far risalire alla stipula dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 con il Governo italiano che all’articolo 29, lettera h stabilisce espressamente che «il fine di religione o di culto è equiparato, a tutti gli effetti tributari, ai fini di beneficenza e di istruzione»[26], peculiarità riproposta anche nel Concordato del 1984 approvato con la legge 25 marzo 1985, n. 121[27].
Al riguardo, l’art. 7.3 dell’Accordo del 1984 con la Chiesa Cattolica[28], ma anche norme analoghe previste nelle leggi di approvazione delle Intese[29], sanciscono che gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi[30], sono equiparati[31] a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione[32] e che «le attività diverse da quelle di religione e di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime»[33].
Così, l’ente ecclesiastico ritualmente accreditato e riconosciuto dall’autorità preposta, in virtù del disposto di cui all’art. 2, 2° comma della legge n. 222 del 1985, per il solo fatto di essere catalogato, legittimamente si intende, ‘ecclesiastico’, a prescindere dall’esercizio dell’attività materialmente posta in essere, è soggetto al trattamento fiscale proprio delle attività non commerciali e, conseguentemente, lo Stato dovrà omettere ogni atto o comportamento che di questo statuto speciale mirasse a inficiarne la validità[34].
Va anche rilevato che il medesimo articolo sopra citato afferma poi che le attività diverse[35] da quelle di religione o di culto che gli enti ecclesiastici possono comunque svolgere, sono invece soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, “alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”[36].
A questo punto occorre pertanto esaminare quali siano le agevolazioni di cui beneficiano gli enti ecclesiastici in particolare in base alla equiparazione attività dirette ai fini di religione o di culto – attività aventi fine di beneficenza o di istruzione, precisando che in ogni caso le norme che prevedono agevolazioni fiscali per gli enti confessionali devono essere considerate, al pari delle altre, di stretta interpretazione.
L’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili (ICI)
L’ICI, istituita dal d.lgs. n. 504/1992 (in attuazione della legge delega n. 421/1992, ed entrata in vigore il 1 gennaio 1993), è un tributo diretto reale avente struttura di imposta patrimoniale[37]. Essa ha sostituito le tre fattispecie impositive precedenti (l’Ilor[38], l’Invim ordinaria e l’Invim decennale[39]) ed ha come presupposto impositivo il mero possesso di fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli situati nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla loro attitudine a produrre reddito[40]. Soggetto passivo era dunque il proprietario dell’immobile, il titolare di un diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, nonché il locatario di una locazione finanziaria, o il concessionario su aree demaniali. Il gettito era destinato ai Comuni.
L’art. 7 del decreto istitutivo dell’ICI prevedeva numerose ipotesi di esenzione (che, come si vedrà, sono rimaste in vigore a seguito dell’istituzione dell’IMU)[41]; quelle attinenti alla nostra materia sono due.
La prima, contenuta nella lett. d)[42], è riferita ai fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alle relative pertinenze[43]. Detta previsione riconosce l’agevolazione a prescindere dalla effettiva titolarità dei fabbricati in questione che – stando alla lettera della legge – potrebbero appartenere tanto ad un privato cittadino quanto ad un ente ecclesiastico, richiedendo solo la presenza dell’elemento oggettivo della destinazione degli stessi all’esercizio del culto[44]. Non meno rilevante appare la circostanza che l’esenzione venga applicata senza alcuna distinzione in ordine alle diverse confessioni religiose. Inoltre, nei confronti delle pertinenze, al fine di valutare l’applicabilità o meno dell’esenzione ICI, la giurisprudenza ha affermato che «il rapporto pertinenziale tra la chiesa parrocchiale ed una casa sita nei pressi della stessa e destinata ad abitazione del parroco non è desumibile esclusivamente dall’esistenza di un risalente atto di destinazione dell’autorità ecclesiastica, occorrendo altresì una verifica in ordine alla persistenza dell’effettiva destinazione, in quanto il rapporto pertinenziale può ben essere risolto anche da comportamenti concludenti»[45].
La seconda ipotesi è disciplinata dall’art. 7, lett. i)[46] che esenta dal pagamento dell’ICI i fabbricati impiegati[47] dagli enti ecclesiastici (ma anche da tutti gli enti non commerciali sia pubblici che privati) in attività a vocazione sociale e filantropica quando essi siano “destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”, nonché destinati ai fini di religione o di culto[48]. Da tale norma, dunque, l’agevolazione appariva concessa non all’ente ecclesiastico in quanto tale, ma all’ente che svolga una delle attività rientranti nel novero di quelle appena elencate[49]. Al pari, quindi, di tutti gli altri enti non commerciali esercenti le medesime attività[50]. Da un punto di vista soggettivo, viene valorizzata non l’ecclesiasticità dell’ente (intesa quale dimensione religiosa istituzionale giuridicamente formalizzata), ma la sua riconducibilità alla categoria generale di ente non commerciale[51].
Così, le condizioni necessarie previste dal testo originario erano: a) che gli immobili fossero utilizzati da enti non commerciali (c.d. requisito soggettivo); b) che fossero destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività[52] tassativamente indicate a vocazione sociale e filantropica (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto) (c.d. requisito oggettivo)[53].
Pertanto, non era originariamente prevista nessuna prescrizione circa le modalità di svolgimento dell’attività. Inoltre, si riteneva che nell’unità immobiliare dovesse essere svolta solo l’attività esente e che quindi non fosse possibile una devoluzione anche ad altri e ulteriori usi[54].
Come si è rilevato, gli enti ecclesiastici sono enti non commerciali per definizione[55]. Per essi dovrebbe dunque applicarsi l’esenzione esaminata relativamente agli immobili ove svolgono sia le attività di religione o culto (ex art. 16, lett. a, l. n.222/1985) sia quelle indicate dall’art. 7, lett. i).
Sul tema, però, si è da subito cominciato a discutere circa la necessità della non commercialità dell’attività e si è formato un orientamento giurisprudenziale fortemente restrittivo[56] che ha, di fatto, introdotto come ulteriore requisito (rispetto a quelli chiaramente indicati dalla legge) che l’attività non venisse svolta in forma commerciale[57].
L’oggetto del contendere è se l’esenzione dall’Ici vada riconosciuta anche quando un ente ecclesiastico utilizza un immobile per svolgere in forma commerciale (e cioè traendone un profitto) un’attività che pure è ricompresa fra quelle elencate nell’art. 7 lettera i).
L’interpretazione data dai comuni, ad esempio, non è stata univoca. Hanno ricondotto a tassazione tutti gli immobili (o le porzioni di immobili) comunque destinati ad attività commerciali molti comuni in cui è diffusa la presenza di immobili di enti ecclesiastici, con effetti di gettito rilevanti. Alcuni esempi: Roma (9 milioni di euro all’anno), Napoli (5 milioni di euro) Firenze (600 mila euro), Assisi (300 mila euro), Padova (335 mila di euro). Secondo la Conferenza Episcopale Italiana, invece, (come confermato, da ultimo, nella Nota dell’Ufficio Nazionale per i problemi giuridici Roma, 29 settembre 2005) non vi erano dubbi: la norma controversa prevedeva che «l’esenzione dall’imposta nel caso di immobili utilizzati in maniera esclusiva da enti non commerciali (fra cui rientrano per definizione gli enti ecclesiastici) per le attività espressamente elencate. In questi casi l’esenzione si applica anche quando l’attività è considerata commerciale ai fini fiscali». Si trattava della legge contenente “Disposizioni sugli Enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”, di applicazione dell’intesa finanziaria contenuta nell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato fra Stato italiano e Chiesa Cattolica. La questione, dunque, ha sollecitato un ampio contenzioso che ha portato alla sentenza n.4645 del 2004 della Corte di cassazione.
In particolare, la Cassazione ha affermato che «il beneficio dell’esenzione dall’imposta non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali», attività che, come noto, non rientrano, a rigore letterale, nella norma in esame ma sono riconducibili nell’ambito dell’art. 16, lett. b, l. 20 maggio 1985 n. 222[58].
Così, nonostante la normativa in esame collegasse l’esenzione alle condizioni che l’immobile fosse utilizzato da un ente non commerciale e che l’immobile fosse utilizzato per lo svolgimento di quelle attività specificamente indicate dalla legge che, in virtù di una loro intrinseca utilità sociale, meritavano di essere incentivate con siffatta esenzione, la Corte di Cassazione è arrivata a negare l’esenzione anche in presenza di queste due condizioni richiedendo secondo il “diritto vivente”[59] come terza condizione che l’ente non commerciale esercitasse le attività indicate in modo assolutamente non commerciale (di attività oggettivamente non commerciale). Pertanto, seguendo questo ragionamento la Cassazione ha estromesso dall’area agevolativa gli enti ecclesiastici che esercitano delle attività “oggettivamente commerciali” e che, come tali, “sono quindi tenuti al dell’imposta”.
Siffatta interpretazione sul dettato normativo del d. lgs 504/92 invero per molti è parsa una vera e propria modifica illogica ed arbitraria del testo legislativo giudicata[60].
Basti pensare che, ad esempio, le norme in materia sanitaria e socio-assistenziale in riferimento agli ospedali e alle case di riposo, o anche le norme sulla parità scolastica in riferimento alle attività didattiche, impongono elevati requisiti organizzativi e prevedono contributi pubblici erogati in forza di norme che regolano il convenzionamento e l’accreditamento. Pertanto queste devono necessariamente essere organizzate in forma di impresa ed hanno natura commerciale agli effetti tributari con la conseguenza che, secondo l’orientamento restrittivo richiamato, l’unica possibilità di usufruire dell’esenzione de quo in relazione alle suddette attività sussiste quando le stesse siano svolte del tutto gratuitamente e senza alcun corrispettivo o contributo pubblico, circostanza evidentemente irrealizzabile.
Così, le difficoltà di individuare una corretta e condivisa interpretazione della presente disposizione ( nonostante la mens e la volutas legislatoris) indussero il legislatore, prima con il decreto legge del 17 agosto 2005 n. 163 (non convertito)[61], e successivamente con l’art. 7, comma 2-bis del decreto legge del 30 settembre 2005, n. 203 (convertito in legge dalla legge del 2 dicembre 2005, n. 248), ad una modifica del testo normativo.
In particolare, con l’art. 7, comma 2-bis, del d.l. 203/2005 (conv. in l. n. 248/2005)[62] ai sensi del quale «l’esenzione disposta dall’ articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse»[63]. Era, così, possibile (ristabilendo una corretta interpretazione della norma a fronte della forzata modifica giurisprudenziale) che un ente commerciale potesse godere dell’agevolazione indipendentemente dalle modalità di svolgimento delle attività, indipendentemente quindi dall’accertamento della conduzione dell’attività con metodo economico[64] ( determinando così un possibile contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva, per i quali è la natura fiscale del reddito conseguito che assume rilevanza e non la qualifica o meno di ente non commerciale).
Una successiva norma interpretativa è stata inserita nell’art. 39 del d.l. 4 luglio 2006 n. 223[65], secondo cui «all’articolo 7 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il comma 2-bis è sostituito dal seguente: «2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale»[66].
Si è passati così da un sistema in cui l’esenzione concerne gli immobili utilizzati per le attività elencate dalla norma «a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse» (Art. 7, comma 2-bis, del D.L. 203/2005) ad un regime fiscale di favore da applicarsi solo nel caso di attività «che non abbiano esclusivamente natura commerciale» (Art. 39 del D.L. 223/2006)[67] .
Eppure, l’uso dell’avverbio “esclusivamente”, piuttosto che reintrodurre il sistema fiscale di cui al d. lgs. 504/92, sembrava addirittura porsi nello stesso solco del d.l. 203/005, in quanto attraverso un’interpretazione estensiva del testo normativo sarebbe stato possibile garantire il non assoggettamento all’imposta di tutte quelle attività che, pur avendo carattere oggettivamente commerciale, conservassero un legame, anche flebile, con le attività in re ipsa non commerciali, come quelle di religione o di culto. Per questo motivo una qualsiasi attività commerciale, gestita da religiosi con metodo economico e con la precisa volontà di realizzare un profitto, per il solo fatto di essere collegata ad una finalità di religione o di culto, avrebbe dato diritto all’esenzione dall’imposta[68].
Veniva, così, introdotto il c.d. criterio della prevalenza (ai fini dell’esenzione Ici, possibilità di esercizio di attività commerciali negli immobili da parte degli enti ecclesiastici, purché attività commerciali non prevalenti rispetto alle attività istituzionali[69]) secondo il quale vi era esenzione se ricorrevano tali condizioni: 1) immobili utilizzati da enti non commerciali (c.d. requisito soggettivo) e, sotto questo profilo, non vi era alcun elemento di novità rispetto alla normativa originaria; 2) immobili destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate a vocazione sociale e filantropica (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto) (c.d. requisito oggettivo), ribadendo, anche sotto questo profilo, la normativa originaria; 3) attività tassativamente indicate non aventi però esclusivamente natura commerciale (elemento di novità); 4) svolgimento nell’immobile solo dell’attività esente, non essendone possibile una devoluzione anche ad altri usi[70].
Tale intervento normativo, prevedendo oltre alle categorie di attività commerciale e non commerciale il tertium genus dell’attività non esclusivamente commerciale, oltre a suscitare nuovi interrogativi ha dato nuovamente il via a ad un’interpretazione creativa della giurisprudenza.
Al riguardo, ad esempio, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5485 del 29 febbraio 2008, ribadendo quanto già affermato nelle sentenze n. 20776 del 26 ottobre 2005 e n. 23703 del 15 novembre 2007, ha sostenuto che «la sussistenza del requisito oggettivo – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale».
Del resto, già con le sentenze nn. 4573, 4642, 4644, 4645 del 2004[71] la Cassazione, sull’assunto che l’esenzione non spettasse agli enti ecclesiastici esercenti attività (oggettivamente) commerciale (in grado di porsi in concorrenza con altre attività commerciali), negò il diritto all’esenzione[72].
Così, sollecitato dal contenzioso sorto dalle divergenti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza nonché dalle precedenti denunce (archiviate) di incompatibilità col diritto comunitario della concorrenza, il Ministero delle Finanze con la Circolare ministeriale Economia e finanze 26 gennaio 2009 n. 2/Df ha indicato i requisiti necessari per il riconoscimento dell’esenzione, le attività beneficiate dallo sgravio fiscale e le modalità con cui le stesse devono essere poste in essere dagli enti non commerciali.
Sforzandosi di coordinare le attività commerciali a finalità di carattere sociale, in modo da farle risultare, in ossequio al decreto Bersani del 2006, non esclusivamente commerciali, la Circolare ministeriale chiarisce che l’esenzione trae la sua «giustificazione tanto dalla meritevolezza dei soggetti e delle finalità perseguite, quanto dalla rilevanza sociale delle attività svolte».
Inoltre, la Circolare ha chiarito anche che «un’attività o è commerciale, o non lo è, non essendo possibile individuare una terza categoria di attività» e che «pertanto, se non è possibile individuare attività qualificabili come “non esclusivamente di natura commerciale”, si può sostenere che quest’ultimo inciso debba essere riferito solamente alle specifiche modalità di esercizio delle attività in argomento, che consentano di escludere la commercialità allorquando siano assenti gli elementi tipici dell’economia di mercato (quali il lucro soggettivo e la libera concorrenza), ma siano presenti le finalità di solidarietà sociale sottese alla norma di esenzione»[73].
Si rileva infatti che «la combinazione del requisito soggettivo[74] e di quello oggettivo[75] comporta che le attività svolte negli immobili ai quali deve essere riconosciuta l’esenzione dall’ICI non siano di fatto disponibili sul mercato o che siano svolte per rispondere a bisogni socialmente rilevanti che non sempre sono soddisfatti dalle strutture pubbliche e che sono estranee alla sfera di azione degli operatori privati commerciali»[76].
La Circolare aggiunge che l’esenzione trae la sua giustificazione, da un lato nella meritevolezza dei soggetti e delle finalità perseguite, e, dall’altro, nella rilevanza sociale delle attività svolte. Attraverso questi passaggi risulta chiaro che l’agevolazione ICI non va vista come un privilegio concesso all’ente ecclesiastico per il solo fatto di possedere un bene immobile, ma risponde ad una precisa logica di politica legislativa: agevolare tali enti in vista dello scopo solidaristico perseguito. Riletta in questo modo si affievolisce l’ipotesi del contrasto con la disciplina UE inerente gli aiuti di Stato.
Inoltre, viene anche chiarito che «la prova delle condizioni che giustificano il riconoscimento dell’esenzione spetta a chi sostiene di averne diritto»[77].
La Suprema Corte con sentenza 20 novembre 2009, n. 24500[78], in maniera ancora più netta dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Trib. del 16 luglio 2010, n. 16728, ha sostenuto che «l’esenzione è limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto e pertanto non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività sanitaria, non rilevando in contrario né la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività, né il principio della libertà di svolgimento di attività commerciale da parte di un ente ecclesiastico» in quanto, tra l’altro, «l’art. 111 bis d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, (aggiunto dall’art. 6 d.lg. 4 dicembre 1997 n. 460), nel prevedere (comma 1) la perdita della qualifica di ente non commerciale per gli enti che esercitino prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta ad esclusione (comma 4) di quelli ecclesiastici, riflette i suoi effetti unicamente sulla qualità del soggetto utilizzatore dell’immobile, ma non sul requisito oggettivo dell’attività nello stesso esercitata». Del resto, aggiunge la Cassazione, l’attribuzione di vantaggi fiscali adenti ecclesiastici esercenti attività commerciale (anche se negli ambiti indicati dalla normativa ICI) «porrebbe il problema della compatibilità della disposizione con l’art. 87, n. 1 del Trattato CE (attuale articolo 107 TFUE) che vieta gli aiuti di Stato che favoriscono talune imprese rispetto ad altre. Attesa la latitudine della nozione di impresa assunta dalla giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza” ed atteso che «costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, non potrebbe invero escludersi che l’esenzione dell’ICI concessa alle aziende di proprietà ecclesiastica riduca per esse soltanto gli oneri normalmente gravanti sul bilancio delle imprese che offrono nel medesimo mercato servizi analoghi, conferendo un vantaggio idoneo ad incidere sulla concorrenza»[79].
L’esenzione è stata, invece, riconosciuta nel caso di immobile destinato ad abitazione dei membri di un ordine religioso dalla Cassazione con la sentenza n. 26657 del 2009[80] mentre è stata negata con la sentenza n. 25935 del 21 dicembre 2010 con riferimento al mancato pagamento dell’ICI da parte di una scuola privata gestita da un ente ecclesiastico.
Del resto, sempre la Cassazione con la sentenza n. 16728 del 16 luglio 2010 ha stabilito l’esclusione dall’esenzione relativamente ad un «fabbricato gestito da un ente religioso destinato a casa religiosa di ospitalità» (attività considerata a dimensione imprenditoriale) anche se non prevalente, deducendo che «l’esenzione è prevista in via generale solo per gli immobili destinati direttamente ed in via esclusiva allo svolgimento di determinate attività tra le quali quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana mentre per gli immobili in cui si svolgono attività diverse dalla religione e dal culto è necessario verificare se tali attività, ancorché esercitate da enti religiosi siano svolte per lo scopo istituzionale protetto ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c, del d.lg. n. 504 del 1992 nella formulazione anteriore alle modificazioni introdotte dalla l. n. 248 del 2005».
Allo stesso modo, la Cassazione con sentenza n. 5306 del 2 marzo 2010, chiamata a pronunciarsi sul diritto all’esenzione[81] da parte di una società senza scopo di lucro che ha concesso un immobile in comodato gratuito ad ente ecclesiastico per l’esclusivo svolgimento di attività di religione o di culto; il diritto non è stato riconosciuto per difetto del requisito dell’utilizzazione sociale da parte del comodante, a nulla rilevando la utilizzazione indiretta a mezzo di altro soggetto per un uso vincolato compreso tra quelli meritevoli di esenzione.
Anche nel 2011 la Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia della n. 23314, ha affermato che «gli immobili religiosi come conventi e abbazie non possono usufruire dell’esenzione dall’ICI quando vengono svolte in esse attività commerciali come l’ospitalità a pagamento con le modalità del trattamento alberghiero”; in particolare, “non basta la mera dichiarazione del gestore perché l’immobile “religioso” non sia soggetto al versamento dell’ICI. Per fruire dell’agevolazione è necessario comprovare che l’attività assistenziale svolta nell’immobile non abbia caratteri commerciali la sussistenza del requisito oggettivo (rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate dal legislatore ai fini dell’esenzione) – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino “a priori” il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale»[82].
Infine, meritano di essere ricordate le due sentenze, la n. 14225 e la n. 14226, entrambe dell’8 luglio 2015[83], con le quali la Corte di Cassazione ha deciso le controversie promosse dal Comune di Livorno concernenti la richiesta del versamento dell’I.C.I. (Imposta comunale sugli immobili) a due istituti scolastici paritari a carattere religioso ubicati sul suo territorio. Con tali sentenze la Cassazione ha accolto[84] i ricorsi presentati dal Comune di Livorno contro la sentenza della Commissione Tributaria Regione della Toscana (Firenze – Sezione Staccata di Livorno), che aveva invece dato ragione alla Congregazione delle Suore Mantellate Serve di Maria e all’Istituto Santo Spirito delle Salesiane di Don Bosco, che avevano impugnato un avviso di accertamento ai fini della riscossione dell’imposta comunale sugli immobili per gli anni dal 2004 al 2009.
Gli enti resistenti ritenevano di essere esonerati dal pagamento della predetta imposta[85] in quanto la normativa invocata[86] esentava gli immobili nei quali si esercitava il culto (chiese e locali) per le religioni riconosciute[87] qualificando le suddette attività «quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana»[88]. Le sentenze si occupano di ricostruire il tenore della disposizione da applicare nel lasso di tempo 2004-2009 oggetto del contenzioso. L’originaria formulazione non faceva riferimento alle modalità non commerciali e, tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione aveva chiarito che nel caso delle attività didattiche tale modalità di svolgimento avrebbe dovuto essere dimostrata per conseguire l’esenzione[89]. Le modifiche normative successive non avrebbero alterato questo quadro normativo, dal momento che quelle disposte dal d.l. n. 248/2005 – che aveva esteso l’esenzione alle attività indicate a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse –, convertito in l. n. 248/2005, sarebbero comunque valse solo per l’avvenire essendo norme innovative e non interpretative (Cass. n. 14530 del 2010), sarebbero comunque dovute essere disapplicate in quanto contrastanti col diritto UE ed ebbero vita brevissima perché sostituite da quelle del d.l. n. 223/2006 – che estendevano invece l’esenzione alle attività che non avessero esclusivamente natura commerciale –, convertito in l. n. 248/2006[90]. Inoltre, sulla base della formulazione originaria della norma, l’esenzione «è limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di cullo indicate nell’art. 16, letto a), della legge 20 maggio 1985, n. 222» (Cass. n. 24500 del 2009; V. anche Casso n. 14530 del 2010), nelle quali non rientra l’esercizio di attività sanitarie (Cass. n. 14530 del 2010), didattiche (Cass. n. 20776 del 2005) o ricettive (Cass. n. 4645 del 2004) salvo che non sia dimostrato specificamente che le stesse siano svolte con modalità non commerciali.
Quindi per tutto il lasso di tempo oggetto del contenzioso la disposizione applicabile sarebbe stata quella originaria così come interpretata dalla giurisprudenza, che coincide con quella della formulazione oggi vigente.
Infatti, l’esenzione, alla luce della precedente giurisprudenza della Cassazione, era limitata ai soli casi nei quali l’immobile veniva destinato «in via esclusiva»[91] alle attività di religione o di culto e a quelle concernenti l’esercizio di attività sanitarie[92], didattiche[93] o ricettive che vengono svolte con modalità non commerciali.
Come si è detto, poi, l’art. 39 del d.l. n. 223 del 2006, nell’innovare la normativa previgente, la cui ratio è quella di ridurre l’ambito di esenzione fiscale ai soli casi in cui si dimostri che l’ente “agevolato” operi anche con modalità differenti da quelle proprie del mercato, ha introdotto la nozione, in verità incerta e oggetto di interpretazione non da tutti condivisa di attività “mista”, cioè «parzialmente commerciale», e, quindi, una categoria, per dir così, ibrida ed ambigua dato che non consente di verificare quale sia la linea di confine tra un’attività commerciale ed una non commerciale, vale a dire quando essa debba essere considerata “parziale” e magari anche in base a quale “quota”. A rendere difficoltosa l’esazione ha contribuito, fra l’altro, il fatto che i soggetti titolari degli immobili nei quali si svolgono le c.d. “attività meritorie” non sono tenuti ad osservare l’obbligo della dichiarazione[94], con la conseguenza che tali enti non risultano “censiti” ai fini dell’ICI, rendendo, quindi, particolarmente problematico il recupero dell’imposta (questione rimasta sostanzialmente irrisolta anche a seguito della disciplina relativa all’Imposta municipale sugli immobili).
I giudici della Cassazione, in linea di continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale[95], annullando con rinvio la sentenza impugnata (lasciando, quindi, al giudice di merito un più particolareggiato apprezzamento delle risultanze processuali) hanno risolto la questione dell’esenzione dal pagamento dell’I.C.I. rivendicata dagli enti ritenendola illegittima sotto un duplice profilo. In primis, la Cassazione ha posto in rilievo il profilo dell’individuazione del soggetto passivo cui è imposto il pagamento dell’I.C.I.
A tale proposito, occorre fare riferimento alla nozione giuridica di “attività” verificando in concreto che l’attività svolta attraverso l’immobile oggetto di esenzione non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale ( l’onere delle prova è a carico del contribuente che chiede l’applicazione dell’esenzione fiscale) con lo scopo esclusivo o principale dell’esercizio di attività commerciali. Dunque, per l’esenzione vi deve essere un requisito soggettivo[96], che prevede che l’immobile sia utilizzato da un ente non commerciale per l’esercizio effettivo dell’azione da parte dell’ente, sia esso pubblico o privato, non debba essere svolto in esclusiva o anche in via principale allo stesso modo di una qualsiasi attività commerciale, ed uno oggettivo, per il quale si deve fare riferimento alla destinazione d’uso dell’immobile avendo cura, principalmente, di accertare che l’attività ivi svolta dall’ente non abbia ad essere la stessa alla stregua delle comuni attività commerciali.
Nella controversia in esame, i soggetti in questione sono scuole paritarie, cioè enti qualificati a svolgere attività didattiche nel quadro del sistema nazionale di istruzione cui partecipano insieme alle scuole statali e a quelle degli enti locali. La corresponsione di un corrispettivo da parte degli utenti (nel caso di specie la retta pagata dagli studenti) è, per i giudici della Cassazione, «un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali»[97]. Il pagamento di tale corrispettivo, dunque è stato erroneamente valutato dal giudice di merito che lo ha ritenuto irrilevante ai fini ICI: esso è un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali.
Nessun rilievo avrebbe il fatto che la gestione operi in perdita, ben potendo anche un imprenditore operare in perdita. Nella decisione cassata non si sarebbe tenuto conto, quindi, del fatto che, ai sensi dell’interpretazione dell’art. 2082 c.c. della stessa Suprema corte, deve riconoscersi carattere imprenditoriale a una attività economica organizzata quando vi sia attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, essendo irrilevante lo scopo di lucro, “e dovendo essere, invece, escluso il suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti”. D’altronde, conclude la Cassazione, “per integrare il fine di lucro è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio; né ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente”.
In secondo luogo, i giudici di legittimità, nella parte motiva della sentenza, hanno ritenuto rinvenibile la violazione delle norme comunitarie in materia di concorrenza optando, per così dire, per una interpretazione della normativa nazionale sull’esenzione I.C.I. in modo eurounitariamente conforme[98]. Secondo la Cassazione, infatti, la norma interna contrasterebbe con il diritto comunitario della concorrenza e, in particolare, con le norme sostanziali e con quelle procedurali in materia di aiuti di Stato[99]. Del resto, per la Commissione europea, ex art. 107 TFUE, lo svolgimento di determinate attività, secondo la normativa italiana[100], può essere considerato di natura commerciale ancorché svolto non in via esclusiva. Oltre tutto, la circolare del Ministero dell’economia del 26 gennaio 2009 n. 2/Df ha definito i parametri in base ai quali detta attività può definirsi “non commerciale” ai fini dell’esenzione. In tema, così, la Corte di Cassazione si è soffermata anche sulla circolare in parola ed ha affermato che l’esenzione I.C.I. può essere applicata per i fabbricati a condizione che i medesimi siano posseduti e utilizzati dal soggetto incaricato dello svolgimento delle attività indicate dalla norma, ponendo in risalto, in particolare, la coincidenza tra l’essere proprietario dell’immobile e la sua fruizione; che l’attività, inoltre, deve essere concretamente svolta dall’ente non commerciale ed essere utilizzata in modo totalitario escludendosi, dunque, attività di altra natura che non siano quelle svolte per finalità di solidarietà sociale.
Enti ecclesiastici e Imposta Municipale Unica (IMU)
Il nostro Ordinamento, proprio per sfuggire ad un assai probabile procedimento per infrazione, ha successivamente provveduto ad abrogare l’imposta comunale sugli immobili e ad introdurre un’imposta municipale unica (c.d. IMU) sulla componente immobiliare.
In particolare, è stato il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale), all’art. 7, ad introdurre nel nostro ordinamento l’ IMU a decorrere dal 2014 (art. 8) ed a confermare per essa le esenzioni previste per l’ICI dall’art. 7, I co., lett. d) e lett. i) del d.lgs. n. 504/1992. Peraltro, il d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (c.d. Salva – Italia), convertito in l. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha modificato alcuni aspetti dell’imposta rispetto alla sua concezione originaria, ha poi ritenuto opportuno anticipare in via sperimentale l’applicazione della nuova imposta già a partire dall’anno 2012 (art. 13) senza comunque intervenire sull’esenzione per gli immobili di cui al ricordato art. 7, I co., lett. d) ed i) d.lgs. n. 504/1992.
Soggetti passivi del tributo sono il proprietario ovvero il titolare di diritti reali di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi e superficie secondo le quote di possesso, nonché il locatario del bene immobile nel caso di locazione finanziaria e il concessionario nelle ipotesi di concessioni demaniali.
Presupposto dell’imposta è il possesso di fabbricati (inclusa abitazione principale) e pertinenze, e terreni agricoli. Il soggetto attivo dell’imposta è il Comune; una quota d’imposta è riservata allo Stato. Come si evince, dunque, i presupposti, la struttura e le modalità di tale tributo non differiscono sostanzialmente dalla disciplina dell’ICI in quanto le norme che lo disciplinano richiamano ampiamente il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, istitutivo della soppressa imposta comunale.
Inoltre, un emendamento[101] del Governo ha introdotto nel d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. “decreto-legge sulle liberalizzazioni”), poi convertito in l. n. 27/2012, l’articolo 91 bis che, con decorrenza dal 1° gennaio 2013, ha previsto ulteriori limiti all’applicabilità dell’esenzione prevista dall’art. 7, lettera i), del D.lgs. n. 504/92.
L’art. 91-bis (rubricato Norme sull’esenzione dell’imposta comunale sugli immobili degli enti non commerciali) che come si è detto al I co., prevede una modifica dell’art. 7, I co., lett. i) del d.lgs. n. 504/1992, prevede che «sono esenti dall’imposta: i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87 [ora 73], comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali[102] di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222. (art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. 504/1992)».
L’esenzione dal tributo comunale (IMU), prevista dall’ordinamento italiano, è attualmente fruibile da parte di soggetti che soddisfino contemporaneamente due requisiti: l’uno soggettivo e l’altro oggettivo. Ai fini dell’esenzione, gli immobili gravati dal tributo, devono essere utilizzati direttamente da soggetti (pubblici o privati) che non abbiano come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali[103], e ivi svolgano, effettivamente con modalità non commerciali, attività “assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché (quelle) di cui all’art. 16, lett. a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.
Con tale articolo, dunque, il legislatore ha riformulato l’esenzione (ora riferita all’imposta IMU di nuova introduzione), ponendo ai fini del suo godimento l’ulteriore requisito secondo cui l’attività agevolata deve svolgersi con modalità «non commerciali»[104]. Pertanto, ai requisiti oggettivo e soggettivo già vigenti si affianca ora il riferimento alle concrete modalità[105] di svolgimento dell’attività che deve svolgersi nell’immobile perché l’esenzione possa applicarsi[106]. Il decreto attuativo approvato dal Governo ha a sua volta chiarito che tali modalità sono quelle «prive di scopo di lucro che, conformemente al diritto dell’Unione Europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono e costituiscono espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà»[107].
Inoltre, i successivi commi del medesimo art. 91 bis affermano poi che «qualora l’unità immobiliare abbia un’utilizzazione mista, l’esenzione di cui al comma 1 si applica solo alla frazione di unità nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale, se identificabile attraverso l’individuazione degli immobili o porzioni di immobili adibiti esclusivamente a tale attività[108]. Alla restante parte dell’unità immobiliare, in quanto dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente, si applicano le disposizioni dei commi 41, 42 e 44 dell’articolo 2 del decreto- legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286. Le rendite catastali dichiarate o attribuite in base al periodo precedente producono effetto fiscale a partire dal 1° gennaio 2013.
Nel caso in cui non sia possibile procedere ai sensi del precedente comma 2, a partire dal 1° gennaio 2013, l’esenzione si applica in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile quale risulta da apposita dichiarazione. Con successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 17 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono stabilite le modalità e le procedure relative alla predetta dichiarazione e gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale».
L’art. 9, VI co., del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 (convertito, con modificazioni, in l. 7 dicembre 2012, n. 213, “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012”) ha poi aggiunto un ulteriore periodo al suddetto III co. dell’art. 91-bis, prevedendo che con successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze siano stabiliti anche «i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma 1 dell’articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 , come svolte con modalità non commerciali»[109].
Le condizioni necessarie per beneficiare dell’esenzione dono dunque attualmente le seguenti: 1) gli immobili devono essere utilizzati da enti non commerciali (medesimo requisito soggettivo); 2) devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto); 3) le attività tassativamente indicate devono essere svolte con modalità non commerciali (novità)[110]; 4) se gli immobili sono utilizzati promiscuamente (vi si svolgono sia attività agevolate che attività non agevolate) è necessario operare un frazionamento catastale che renda unità immobiliare autonoma la parte di immobile utilizzata per le attività agevolate; se il frazionamento non è tecnicamente possibile, l’esenzione si applica in proporzione all’utilizzo agevolato (novità).
Il regolamento redatto da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze è il d.m. 19 novembre 2012, n. 200, ed ivi sono state stabilite le modalità e le procedure relative alla dichiarazione IMU, gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale, nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività previste dalla novellata lett. i) del comma 1 dell’art. 7 del D. Lgs. 504/1992 (decreto ICI) come svolte “con modalità non commerciali”.
Le modalità non commerciali sono definite dall’art. 1 lett. p) come «modalità di svolgimento delle attività istituzionali prive di scopo di lucro che, conformemente al diritto dell’Unione Europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono e costituiscono espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà».
Il successivo art. 3 elenca i requisiti generali per lo svolgimento con modalità non commerciali delle attività istituzionali, che sono: «a) il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’ente, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge, ovvero siano effettuate a favore di enti che per legge, statuto o regolamento, fanno parte della medesima e unitaria struttura e svolgono la stessa attività ovvero altre attività istituzionali direttamente e specificamente previste dalla normativa vigente; b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale; c) l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un’analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge».
Ebbene, ai sensi del successivo art. 7, gli enti non commerciali devono predisporre o comunque adeguare il proprio statuto a quanto previsto dall’articolo riportato.
Il successivo art. 4 prevede ulteriori requisiti (speciali). In particolare, si afferma che «lo svolgimento di attività assistenziali e attività sanitarie si ritiene effettuato con modalità non commerciali quando le stesse: a) sono accreditate e contrattualizzate o convenzionate con lo Stato, le Regioni e gli enti locali e sono svolte, in ciascun ambito territoriale e secondo la normativa ivi vigente, in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico, e prestano a favore dell’utenza, alle condizioni previste dal diritto dell’Unione europea e nazionale, servizi sanitari e assistenziali gratuiti, salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall’ordinamento per la copertura del servizio universale; b) se non accreditate e contrattualizzate o convenzionate con lo Stato, le Regioni e gli enti locali, sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.
Lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se: a) l’attività è paritaria rispetto a quella statale e la scuola adotta un regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; b) sono comunque osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, di applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, di adeguatezza delle strutture agli standard previsti, di pubblicità del bilancio; c) l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso.
Lo svolgimento di attività ricettive si ritiene effettuato con modalità non commerciali se le stesse sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.
Lo svolgimento di attività culturali e attività ricreative si ritiene effettuato con modalità non commerciali se le stesse sono svolte a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un corrispettivo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività’ svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.
Lo svolgimento di attività sportive si ritiene effettuato con modalità non commerciali se le medesime attività sono svolte a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un corrispettivo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio».
La definizione di utilizzazione mista è contenuta nel punto q) dell’art. 1, che afferma trattarsi dell’«utilizzo dello stesso immobile per lo svolgimento di una delle attività individuate dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 504 del 1992, con modalità non commerciali, unitamente ad attività di cui alla stessa lettera i) svolte con modalità commerciali, ovvero ad attività diverse da quelle di cui al medesimo articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 504 del 1992».
Il successivo art. 5 individua il rapporto proporzionale, affermando che esso « è determinato con riferimento allo spazio, al numero dei soggetti nei confronti dei quali vengono svolte le attività con modalità commerciali ovvero non commerciali e al tempo, secondo quanto indicato nei commi seguenti».
Questi ultimi prevedono che «per le unità immobiliari destinate ad una utilizzazione mista, la proporzione di cui al comma 1 è prioritariamente determinata in base alla superficie destinata allo svolgimento delle attività diverse da quelle previste dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 504 del 1992, e delle attività di cui alla citata lettera i), svolte con modalità commerciali, rapportata alla superficie totale dell’immobile. Per le unità immobiliari che sono indistintamente oggetto di un’utilizzazione mista, la proporzione di cui al comma 1 è determinata in base al numero dei soggetti nei confronti dei quali le attività sono svolte con modalità commerciali, rapportato al numero complessivo dei soggetti nei confronti dei quali è svolta l’attività. Nel caso in cui l’utilizzazione mista, anche nelle ipotesi disciplinate ai commi 2 e 3, è effettuata limitatamente a specifici periodi dell’anno, la proporzione di cui al comma 1 è determinata in base ai giorni durante i quali l’immobile è utilizzato per lo svolgimento delle attività diverse da quelle previste dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 504 del 1992, ovvero delle attività di cui alla citata lettera i) svolte con modalità commerciali. Le percentuali determinate in base ai rapporti che risultano dall’applicazione delle disposizioni di cui ai commi precedenti, indicate per ciascun immobile nella dichiarazione di cui al successivo articolo 6, si applicano alla rendita catastale dell’immobile in modo da ottenere la base imponibile da utilizzare ai fini della determinazione dell’IMU dovuta».
Il suddetto regolamento è stato oggetto di parere favorevole del Consiglio di Stato (n. 4802/2012 del 13 novembre 2012), che tuttavia ha segnalato l’eterogeneità dei requisiti.
In particolare, si è affermato che «in alcuni casi è utilizzato il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta (attività culturali, ricreative e sportive); in altri, il criterio dell’importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale con modalità commerciali (attività ricettiva e in parte assistenziali e sanitarie); in altri ancora, il criterio della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche)» . In particolare, si è anche evidenziato che gli ulteriori requisiti, richiesti per i singoli settori dall’art. 4, presentano profili di criticità soprattutto con riferimento ai principi comunitari[111].
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha provveduto, poi con risoluzione n. 1/DF del 3 dicembre 2012, a chiarire alcuni punti controversi con riferimento ad alcune problematiche applicative riguardanti specificamente gli enti ecclesiastici, introdotte dal d.m. n. 200/2012. In particolare, è stato ivi affermato che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, ai quali non possono essere richiesti né la predisposizione né l’adeguamento dello statuto, devono comunque conformarsi ai citati requisiti generali con apposita “scrittura privata registrata”, che recepisca il dettato dell’art. 3 del Regolamento.
Ed inoltre, è stato precisato come il pagamento dell’IMU da parte degli enti ecclesiastici, stabiliti nel regolamento n. 200 del 2012 agli art. 3 e 4 ed, a partire dall’anno d’imposta 2013, dovrà essere versato sia in base ai menzionati requisiti sia in ragione del rapporto proporzionale[112].
Infine, con la legge di stabilità del 2014 è stata introdotta nella fiscalità locale la IUC, cioè l’Imposta Unica Comunale che, in realtà non è un’imposta, quanto piuttosto la sigla che ne identifica e ne raggruppa tre, tutte di pertinenza comunale, tutte collegate agli immobili: l’IMU (Imposta Municipale propria), la TARI (Tassa sui Rifiuti) e la TASI (Tassa sui Servizi Indivisibili)[113].
La disciplina comunitaria in tema di aiuti di stato e le agevolazioni fiscali per gli enti ecclesiastici
Preme innanzitutto rilevare che l’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) prevede espressamente il cosiddetto divieto comunitario di aiuti di Stato. In particolare, ivi si afferma che «salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza»[114]. Dunque, la nozione di aiuto ivi prevista ricomprende «ogni vantaggio economicamente apprezzabile attribuito ad un’impresa attraverso un intervento pubblico, vantaggio che altrimenti non si sarebbe realizzato»[115].
Il divieto di aiuti di Stato colpisce, quindi, ogni misura che tramite l’impiego di risorse statali accorda un vantaggio economico idoneo a falsare o a minacciare di falsare la concorrenza sugli scambi comunitari[116]. Tale divieto riguarda le attività delle imprese, ovvero attività che risultino economiche a prescindere dallo status giuridico del soggetto che le esercita ed ha ad oggetto non solo i finanziamenti concessi in maniera indiretta, ma anche gli aiuti “negativi”, quali quelli fiscali, consistenti nella rinuncia da parte dello stato alla riscossione di imposte attraverso esenzioni, riduzioni o benefici di effetto equivalente, che in deroga al sistema tributario generale, avvantaggiano alcuni soggetti economici a scapito di altri per ragioni non riconducibili alle logiche di mercato. Del resto, l’ordinamento comunitario, che certamente riconosce la sovranità (anche fiscale) degli Stati membri dell’UE se ne interessa solo in quanto potenzialmente incidente sull’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà europee. In tal senso, Occorre, dunque, di volta in volta verificare se la misura agevolativa possa essere considerata ragionevole in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo complesso, oppure sia una deviazione rispetto a quello stesso sistema, diretta ad avvantaggiare alcuni attori del mercato rispetto ad altri[117], risultando così censurabile in quanto arbitrariamente selettiva. In tal senso lo stesso Regolamento della Commissione europea n. 1998 del 15 dicembre 2006, in materia di aiuti di Stato, stabilisce che le istituzioni europee adopereranno criteri “de minimis” volti ad escludere la rilevanza di misure prive di un impatto percettibile sugli scambi e sulla concorrenza, cosicché dovrà trattarsi di un’alterazione sensibile e non marginale delle condizioni concorrenziali del mercato interno[118]. La norma “de minimis”, così introdotta, prevede una deroga per le sovvenzioni di importo minimo in quanto stabilisce una soglia al di sotto della quale gli aiuti non rientrano più nel campo di applicazione dell’art. 107, paragrafo 1, e sono pertanto dispensati dalla procedura di notifica di cui all’art. 108, paragrafo 3[119].
Questo ultimo articolo, infatti, stabilisce che qualora lo Stato in causa non si conformi all’ingiunzione della Commissione di sopprimere o modificare l’aiuto di Stato giudicato illecito (entro il termine stabilito), la stessa Commissione (o qualsiasi altro Stato interessato) possa adire direttamente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che può condannare lo Stato ad una sanzione pecuniaria.
La questione, se la normativa italiana contenuta nell’art. 7, lett. i) del decreto istitutivo dell’ICI possa ritenersi in violazione dei principi comunitari relativi agli aiuti di Stato, è dibattuta da lunga data[120]. In particolare, e ciò ha animato fortemente anche l’opinione pubblica, si è discusso e si discute relativamente all’esenzione dal pagamento ICI (IMU) per gli immobili ove enti ecclesiastici svolgono anche un’attività commerciale che genera profitto (alberghi delle suore pensionati e case per ferie per studenti e turisti etc.), attività che si palesa in concorrenza con altre realtà economiche stanziate sul territorio, le quali ultime però non beneficiano delle medesime agevolazioni[121].
L’incompatibilità con la normativa europea sugli aiuti di Stato delle esenzioni menzionate per gli immobili degli enti non commerciali destinati ad attività di rilevanza sociale non si deve al fatto che Bruxelles nega la possibilità di sostenere il non profit, ma semplicemente alla circostanza secondo cui quei benefici sarebbero stati legittimi se concessi in altra forma, cioè non valutando l’assenza dello scopo di lucro, ma lo svolgimento o meno di un’attività economica secondo il diritto europeo.
Le prime denunce all’Italia sono arrivate inizialmente a metà del 2006 e, poi, nel 2007. A seguito delle quali la Commissione Europea[122] ha avviato un’indagine formale ai sensi dell’art. 108 TFUE, tendente ad accertare se la nostra normativa fiscale fosse in contrasto con l’art. 107 del medesimo Trattato, prevedendo misure idonee a costituire aiuti di Stato in favore degli enti non commerciali e, tra questi, degli enti ecclesiastici.
Ebbene, la Commissione, a seguito di lunghi scambi di informative con l’Italia, ha ritenuto in entrambi i casi di non dover procedere con l’indagine. Infatti, non si individuavano motivi per proseguire e che l’archiviazione della denuncia si fondava sull’entrata in vigore nel nostro Paese di alcune modifiche normative inerenti la legislazione ICI. L’Italia, dal canto suo, il 5 settembre 2006 presentava ulteriori informazioni evidenziando tutte le modifiche apportate alla materia in questione ed entrate in vigore nel luglio precedente. Difatti il D. L. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito nella L. n. 248 del 4 agosto 2006, aveva apportato rilevanti modifiche alla tassazione ICI. L’intervento normativo si inserisce nel mosaico della vicenda ICI- aiuti di Stato illegali come un tassello che nelle intenzioni del governo italiano avrebbe dovuto fare chiarezza sulla vicenda e risolvere definitivamente tutte le contestazioni insorte.
Si apriva, così, una fase di “botta e risposta” tra denuncianti e Commissione: i primi reiteravano le loro iniziali richieste presentando altre denunce con le lettere dell’ottobre 2006, gennaio e settembre 2007, il che spingeva la Commissione alla richiesta di ulteriori informazioni all’autorità italiana (che nel frattempo adottava la Circolare ministeriale 2/DF del 2009). Ad adiuvandum il 26 aprile 2010 i denuncianti di cui sopra avevano proposto, ciascuno per proprio conto, ricorso di annullamento dinanzi al Tribunale di Lussemburgo[123], mettendo in discussione la lettera del 15 febbraio 2010 con la quale la Commissione – come abbiamo segnalato – aveva deciso di non procedere ad ulteriori indagini.
Nell’ottobre del 2010, con lettera del 12 ottobre, la Commissione Europea ha avviato un’indagine formale ai sensi dell’art. 108, par. 2, TFUE, per stabilire “se l’esenzione dall’Ici concessa dall’Italia per gli immobili usati dagli enti non commerciali per fini specifici costituisca aiuto di Stato illegale”; indagine dunque volta a verificare se alcune delle attività svolte dagli enti non commerciali in questione possano essere considerate commerciali e possano essere in concorrenza con quelle svolte da prestatori di servizi commerciali[124].
Questa decisione, inoltre, era stata preceduta da un esame preliminare in cui la Commissione non solo ha constatato che gli immobili in questione potrebbero «essere usati anche per attività commerciali e che tali esenzioni fiscali potrebbero pertanto distorcere la concorrenza» ma ha anche osservato che «le misure in questione sembrano incidere sugli scambi tra Stati membri» perche i settori che godono delle esenzioni sembrano essere aperti alla concorrenza e agli scambi all’interno dell’Unione Europea, non potendo escludere che «alcune delle attività beneficiarie delle misure in questione possano essere considerate come servizi di interesse economico generale». Del resto, la questione appariva di enorme rilievo. Infatti, benché, l’art. 17 TFUE[125], nel prevedere che l’Unione rispetta e non pregiudica lo status riconosciuto alle Chiese nei singoli ordinamenti statali, sembra etichettare come intangibile la disciplina di cui sono destinatarie le Chiese all’interno degli Stati membri, e evidente come le normative fiscali interne possano potenzialmente entrare in conflitto con i fondamentali principi di diritto comunitario in virtù della possibilità, garantita agli enti ecclesiastici, di esercitare accanto alle attività di religione e di culto altre attività, anche commerciali. Infatti, se il divieto previsto dall’art. 107 TFUE certamente non trova applicazione nei confronti degli enti che esercitano esclusivamente attività non economiche problemi di compatibilità sorgono nei confronti degli enti no profit che accanto ad attività non economiche esercitano ad esempio attività commerciali strumentali alle finalità istituzionali non lucrative, come previsto per gli enti ecclesiastici dall’art. 16, lettera a) della l. 222/1985.
La Commissione, così, ritenendo numerose le incertezze in ordine alla compatibilità di tali esenzioni con il divieto di aiuti di Stato ha avviato, come si è detto, un’indagine approfondita invitando gli interessati a presentare controdeduzioni entro il 21 gennaio 2011. Con decisione C(2012) del 19 dicembre 2012, la Commissione dell’Unione europea ha chiuso l’indagine sulle esenzioni Ici concesse al non profit.
In particolare, va rilevato che la Commissione Europea ha giudicato «incompatibili con le regole Ue sugli aiuti di Stato” le agevolazioni riconosciute agli enti non commerciali per fini specifici previste dal 2006 al 2011 dalla normativa in materia di ICI[126].
Ciò in ragione del fatto che gli enti non commerciali che svolgono attività economiche possono trovarsi “nella stessa situazione giuridica e fattuale di qualsiasi altra società che eserciti un’attività economica”. Secondo la Commissione, infatti, anche gli enti non commerciali possono svolgere “attività commerciali, che sono necessariamente di natura economica ai sensi del diritto UE della concorrenza”. Ad esempio, ha osservato la Commissione, le attività sanitarie e didattiche «sono necessariamente di natura commerciale, poiché sono fornite in forma organizzata verso corrispettivi».
Del resto, la Corte di Giustizia dell’UE ha definito attività economica «qualsiasi attività consistente nell’offrire beni e servizi in un mercato» a prescindere dallo status giuridico e dalle modalità di finanziamento (così, la classificazione di un determinato soggetto come impresa dipende pertanto interamente dalla natura delle sue attività)[127].
E’ stato affermato inoltre che la modifica introdotta nel 2006 consentiva di svolgere attività “di natura non esclusivamente commerciale” negli immobili esentati dal versamento dell’imposta conferendo, in altri termini, ai beneficiari un vantaggio (anche solo potenziale) relativamente alle attività commerciali svolte, essendo tali attività in concorrenza con i servizi forniti da altri operatori commerciali[128]. In questa prospettiva, poi, la destinazione dei proventi risulta totalmente superflua ai fini dell’accertamento di una lesione del mercato e della concorrenza.
Inoltre, anche in caso di scarsa consistenza dell’aiuto o di dimensione modesta dell’impresa beneficiaria, non possono far escludere a priori la possibilità che siano influenzati gli scambi tra i Paesi membri soprattutto se si pensa che la potenziale incidenza della fiscalità di vantaggio in esame sugli scambi intracomunitari e sulla concorrenza, sia ulteriormente accentuata dal fatto che tale esenzione è riconosciuta esclusivamente agli enti con sede in Italia (essendo il requisito della sede richiesto come necessario per il riconoscimento civile degli enti ecclesiastici)[129].
La Commissione pertanto ha espresso forti dubbi che un ente non commerciale esercente in modo non prevalente simili attività si trovi in una situazione diversa da quella di un ente commerciale esercente le medesime attività e che, di conseguenza, non avrebbe, al pari di quest’ultimo, il diritto di godere dell’esenzione dall’ICI per l’immobile utilizzato nell’esercizio di tali attività[130].
La Commissione ha così statuito che ha costituito illecito aiuto di Stato l’esenzione dall’ICI per gli immobili utilizzati da enti non commerciali e non destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonché attività di religione e di culto (art. 7, comma 1, lett. i), D. LGS. n. 504 del 1992; mentre, non costituiscono aiuto di stato l’esenzione dall’IMU concessa ad enti non commerciali che svolgono negli immobili esclusivamente le attività elencate all’art. 7, comma 1, lett. i), D. LGS. n. 504 del 1992 e specificate dal D.M. 19 novembre 2012, n. 200.
Allo stesso modo, però, la Commissione ha riconosciuto l’impossibilità per l’Italia di qualsiasi operazione volta a recuperare le somme a causa della difficoltà di ricostruire il dovuto dalle banche dei dati catastali e fiscali.
Ciò in quanto l’esenzione ICI è stata finanziata mediante l’impiego di risorse statali, realizzato con la rinuncia ad un gettito fiscale per l’importo corrispondente all’abbattimento dell’imposta, ha conferito un vantaggio selettivo poiché ha garantito una riduzione degli oneri gravanti sul bilancio agli enti non commerciali che svolgono determinate attività, non giustificata dalla logica inerente il sistema tributario interno, ha inciso sugli scambi tra gli Stati membri falsando la concorrenza mediante l’introduzione, perlomeno in alcuni settori, di un vantaggio in termini di finanziamento delle attività svolte. Trattandosi di aiuto illegale e incompatibile, ne sarebbe imposto il recupero: una decisione in tal senso nei confronti dell’Italia è tuttavia preclusa dall’impossibilità di identificare i beneficiari dell’aiuto e di calcolarne l’ammontare per la mancanza di informazioni nelle banche dati fiscali e catastali.
Al contrario, l’esenzione IMU è garantita soltanto se non vengono svolte attività commerciali. Secondo la Commissione, questo elemento rende impossibili le situazioni ibride create invece, dalla disciplina dell’ICI, in forza della quale in alcuni immobili “esenti” si svolgevano attività di natura commerciale. In altri termini, la Commissione ha riscontrato che l’IMU è conforme alle norme dell’UE in materia di aiuti di Stato, in quanto limita chiaramente l’esenzione agli immobili in cui enti non commerciali svolgono attività non economiche. Inoltre, ha ritenuto che la nuova normativa prevede una serie di requisiti che gli enti non commerciali devono soddisfare per escludere che le attività svolte siano di natura economica. Queste salvaguardie, a giudizio della Commissione, garantiscono che le esenzioni dal versamento dell’IMU concesse agli enti non commerciali non comportino aiuti di Stato. Bruxelles ha inoltre dato il via libera al nuovo regolamento dell’IMU per il non profit, considerando che nelle norme appena varate le esenzioni “si applicano solo agli immobili dove sono condotte attività non economiche”.
Del resto, il divieto, come rappresentato dall’art.107 TFUE, riguarda le attività delle imprese, ovvero attività che risultino economiche a prescindere dallo status giuridico del soggetto che le esercita. La circostanza che un’attività economica sia svolta da una comunità religiosa non impedisce, dunque, l’applicazione delle norme del Trattato. L’esenzione, quando fruita in ragione di simili attività, sarebbe identificabile con i finanziamenti pubblici, che a ricaduta discendono a titolo delle attività (non economiche o)istituzionali, e quindi falserebbe la concorrenza. È evidente, altresì, che in tali circostanze si deborderebbe nel divieto di aiuti di Stato essendo, appunto, ininfluente lo status che una legge nazionale specifica conferisce a un determinato soggetto, rappresentato in questo caso dall’ente ecclesiastico o religioso in generale.
La Commissione ha inoltre esaminato l’articolo 149, IV co., del T.U.I.R., che afferma che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e le associazioni dilettantistiche non perdono la qualifica di enti non commerciali anche se svolgono prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta. Secondo alcuni, ciò potrebbe ipotizzare un aiuto di stato volto a falsare la concorrenza e gli scambi comunitari del quale beneficerebbero gli enti religiosi in considerazione dell’esenzione del pagamento dell’ICI relativo agli immobili utilizzati anche a fini commerciali.
Ebbene, si è ritenuto che non esiste alcun sistema che preveda una “qualifica permanente di ente non commerciale”. Poiché non conferisce alcun vantaggio selettivo agli enti ecclesiastici e alle associazioni sportive dilettantistiche, la misura non costituisce aiuto di Stato ai sensi della normativa dell’UE. Così, anche rispetto all’art. 149 del TIUR la Commissione ritiene che possa configurarsi una misura selettiva, stante la possibilità riservata solo ad enti ecclesiastici ed associazioni sportive dilettantistiche di mantenere la qualifica di ente non commerciale anche nel caso in cui vengano meno i requisiti propri dello stesso.
Applicando l’esenzione “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale” delle attività di destinazione dell’immobile, l’originaria previsione dell’art. 7, co. 2-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, nella formulazione introdotta dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248, appare dunque in aperto contrasto con la nozione di impresa adottata dalla Corte di Giustizia. Tale contrasto sussiste, in egual modo, nel testo modificato della norma, dove l’esenzione dall’ICI viene subordinata al fatto che le attività in parola “non abbiano esclusivamente natura commerciale” (così l’art. 7, co. 2-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, quale modificato dal d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248).
La Commissione, in questi termini ha chiuso l’istruttoria con la decisione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 18 giugno 2013[131]. Bruxelles non ha aperto alcuna procedura di infrazione contro l’Italia e, di fatto, ha dichiarato chiusa la questione[132] rilevando che l’Italia ha modificato il proprio sistema ed ha adottato una nuova normativa in materia di imposta municipale sugli immobili (IMU)[133] che non comporta la presenza di aiuti di Stato in quanto le esenzioni si applicano solo agli immobili in cui si svolgono attività non economiche[134]. Allo stesso modo, la Commissione ha riconosciuto l’impossibilità per l’Italia di qualsiasi operazione volta a recuperare le somme a causa della difficoltà di ricostruire il dovuto dalle banche dei dati catastali e fiscali.
La conclusione raggiunta dalla Commissione non ha soddisfatto l’istituto d’insegnamento privato Scuola Elementare Maria Montessori («Scuola Montessori») e il sig. Pietro Ferracci, proprietario di un «bed & breakfast» (che nel corso degli anni 2006 e 2007 avevano presentato denunce alla Commissione, lamentando che la modifica dell’ambito di applicazione del regime nazionale relativo all’imposta comunale sugli immobili adottata dall’Italia) che hanno chiesto al Tribunale dell’Unione europea di annullare tale decisione della Commissione[135]. Essi hanno lamentato, in particolare, che tale decisione li ha posti in una situazione di svantaggio concorrenziale rispetto agli enti ecclesiastici o religiosi situati nelle immediate vicinanze che esercitavano attività simili alle loro e potevano beneficiare delle esenzioni fiscali in questione.
Con atti depositati nella cancelleria del Tribunale il 17 luglio 2013, la Commissione ha sollevato eccezioni di irricevibilità (la Commissione ha obiettato che né la Scuola Montessori né il sig. Ferracci soddisfacevano le condizioni per rivolgersi ai giudici dell’Unione, previste dall’articolo 263 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea)[136] che, con ordinanze del 29 ottobre 2014, il Tribunale ha riunito al merito.
Con sentenze del 15 settembre 2016[137], il Tribunale pur avendo respinto nel merito i ricorsi in quanto infondati, li ha però dichiarati ricevibili sul piano processuale, aprendo di fatto le porte al rimedio del ricorso alla Corte di Giustizia.
La Scuola Montessori e la Commissione hanno così proposto impugnazioni contro tali sentenze[138]. Così, in primis la Corte di giustizia[139] esamina per la prima volta la questione della ricevibilità – sulla base dell’articolo 263, quarto comma, terza parte di frase, TFUE – dei ricorsi diretti proposti dai concorrenti di beneficiari di un regime di aiuti di Stato contro una decisione della Commissione la quale dichiari che il regime nazionale considerato non costituisce un aiuto di Stato e che gli aiuti concessi in base a un regime illegale non possono essere recuperati. La Corte rileva che una decisione del genere 1) è un «atto regolamentare», ossia un atto non legislativo di portata generale, 2) che riguarda direttamente la Scuola Montessori e il sig. Ferracci e 3) che non comporta alcuna misura d’esecuzione nei loro confronti. La Corte conclude, di conseguenza, che i ricorsi della Scuola Montessori e del sig. Ferracci contro la decisione della Commissione sono ricevibili.
Quanto al merito della causa, la Corte ricorda che l’adozione dell’ordine di recupero di un aiuto illegale è la logica e normale conseguenza dell’accertamento della sua illegalità. Infatti, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, prima frase, del regolamento n. 659/1999, nell’ipotesi di decisioni negative relative a casi di aiuti illegali la Commissione adotta una decisione con la quale impone allo Stato membro interessato di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l’aiuto dal beneficiario. L’obiettivo principale di un simile ordine è, infatti, quello di eliminare la distorsione della concorrenza causata dal vantaggio concorrenziale determinato dall’aiuto illegale.
Inoltre, a norma dell’articolo 14, paragrafo 1, seconda frase, del regolamento n. 659/1999, la Commissione non impone il recupero dell’aiuto qualora ciò sia in contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione, come quello secondo cui «ad impossibilia nemo tenetur» («nessuno è tenuto all’impossibile»). Tuttavia, la Corte sottolinea che un recupero di aiuti illegali può essere considerato, in maniera obiettiva e assoluta, impossibile da realizzare unicamente quando la Commissione accerti, dopo un esame minuzioso, che sono soddisfatte due condizioni, vale a dire, da un lato, l’esistenza delle difficoltà addotte dallo Stato membro interessato e, dall’altro, l’assenza di modalità alternative di recupero[140].
Nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo Stato membro interessato alleghi, fin dalla fase del procedimento di indagine formale, un’impossibilità assoluta di recupero, il principio di leale cooperazione obbliga tale Stato membro, già in questa fase, a sottoporre al vaglio della Commissione le ragioni alla base di tale allegazione, e la Commissione a esaminare minuziosamente tali ragioni. Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla Scuola Elementare Maria Montessori, tale principio non impone alla Commissione di far seguire a qualsiasi decisione che dichiara un aiuto illegale e incompatibile con il mercato comune un ordine di recupero, ma la obbliga a prendere in considerazione gli argomenti presentati dallo Stato membro interessato con riferimento all’esistenza di un’impossibilità assoluta di recupero. Infatti, secondo costante giurisprudenza della Corte in materia di ricorsi per inadempimento presentanti per violazione di una decisione che ordina il recupero di aiuti illegali, uno Stato membro che incontri difficoltà impreviste e imprevedibili o si renda conto di conseguenze non considerate dalla Commissione deve sottoporre tali problemi alla valutazione di quest’ultima, proponendo appropriate modifiche della decisione di cui trattasi. In un caso del genere, lo Stato membro e la Commissione, in forza del principio di leale cooperazione, devono collaborare in buona fede onde superare le difficoltà osservando scrupolosamente le disposizioni del Trattato FUE, in particolare quelle relative agli aiuti. Tuttavia, la condizione relativa all’esistenza di un’impossibilità assoluta di esecuzione non è soddisfatta quando lo Stato membro convenuto si limiti a comunicare alla Commissione difficoltà interne, di natura giuridica, politica o pratica e imputabili alle azioni o alle omissioni delle autorità nazionali, che l’esecuzione della decisione in questione presenta, senza intraprendere alcuna vera iniziativa presso le imprese interessate al fine di recuperare l’aiuto e senza proporre alla Commissione modalità alternative di esecuzione di tale decisione che consentano di sormontare tali difficoltà. Pertanto, uno Stato membro che si trovi di fronte, in questa fase del procedimento, a difficoltà nel recuperare gli aiuti in questione deve sottoporre queste difficoltà alla valutazione della Commissione e cooperare lealmente con tale istituzione al fine di sormontarle, in particolare proponendole modalità alternative che consentano un recupero, anche solo parziale, di detti aiuti. In ogni caso, la Commissione è tenuta ad esaminare minuziosamente le difficoltà prospettate e le modalità alternative di recupero proposte. Solamente nel caso in cui la Commissione constati, in esito a un esame scrupoloso, che non esistono modalità alternative che consentano un recupero, anche solo parziale, degli aiuti illegali di cui trattasi, detto recupero può essere considerato, in maniera obiettiva e assoluta, impossibile da realizzare. Nel caso di specie, quindi, la Commissione non poteva dedurre l’impossibilità assoluta di recuperare gli aiuti illegali in questione dal solo fatto che era impossibile ottenere le informazioni necessarie per il recupero di tali aiuti avvalendosi delle banche dati catastali e fiscali italiane, e si è al contempo astenuta dall’esaminare l’eventuale esistenza di modalità alternative che consentissero il recupero, anche solo parziale, di tali aiuti.
Ebbene, confermando tale decisione sul punto, il Tribunale ha commesso un errore di diritto Inoltre, il fatto che le informazioni necessarie per il recupero degli aiuti illegali in questione non potessero essere ottenute utilizzando le banche dati catastali e fiscali italiane appare riconducibile a difficoltà interne, imputabili alle azioni o alle omissioni delle autorità nazionali. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, quindi, simili difficoltà interne non sono sufficienti a configurare un’impossibilità assoluta di recupero poiché il recupero di aiuti illegali può essere considerato, in maniera obiettiva e assoluta, impossibile da realizzare unicamente quando la Commissione accerti, dopo un esame minuzioso, che sono soddisfatte due condizioni cumulative, vale a dire, da un lato, l’esistenza delle difficoltà addotte dallo Stato membro interessato e, dall’altro, l’assenza di modalità alternative di recupero.
In mancanza di un’analisi siffatta, la Commissione non ha dimostrato l’impossibilità assoluta di recupero dell’ICI[141]. Per tale ragione, la Corte annulla la sentenza del Tribunale nella parte in cui esso ha convalidato la decisione della Commissione di non ordinare il recupero dell’aiuto illegale concesso con l’esenzione dall’ICI (anni 2006-2011) e annulla, di conseguenza, la decisione della Commissione. La Corte ritiene, inoltre, che il Tribunale non abbia commesso errori di diritto dichiarando che l’esenzione dall’IMU, che non si estendeva ai servizi didattici forniti dietro remunerazione, non si applicava ad attività economiche e non poteva pertanto essere considerata un aiuto di Stato. A tale riguardo, la Corte richiama la propria giurisprudenza[142] secondo cui le esenzioni fiscali in materia immobiliare possono costituire aiuti di Stato vietati se e nei limiti in cui le attività svolte nei locali in questione siano attività economiche[143].
Pertanto, la Commissione sarà obbligata a dare seguito alla sentenza, emanando uno nuova decisione e valutando assieme allo Stato italiano, le modalità di recupero delle imposte non riscosse.
Attualmente, dunque, l’esecuzione della sentenza della Corte UE si trova, per così dire, in stand by nell’attesa che, nonostante l’inutilizzabilità delle banche dati catastali e fiscali, sia individuato un meccanismo capace di raccogliere tutte le informazioni necessarie per determinare l’ICI dovuta dai soggetti che hanno beneficiato dell’esenzione. Del resto, tralasciando di considerare i dubbi riguardo all’eventuale intervenuta prescrizione, non è ancora da scartare l’ipotesi – assai sfumata, ma comunque possibile – di una “archiviazione” dell’ordine di recupero ove lo Stato italiano, nell’intraprendere una “vera iniziativa”, riscontri l’assenza di una modalità alternativa per il recupero del tributo e, in tal caso, chieda – questa volta legittimamente – l’applicazione del principio generale impossibilium nulla obligatio est.
[1] Gli enti ecclesiastici riconosciuti, dal punto di vista fiscale, appartengono alla categoria degli enti non commerciali. Si veda sul punto la Circolare Ministeriale n. 124/E del 1998. Ancora, in tema di non commercialità degli enti ecclesiastici riconosciuti, C. Redalli, Enti non profit: la rivoluzione incomincia dal fisco, in Quad. dir. pol. eccl., 1998,n. 3, pp. 704–705; G. Feliciani Organizzazioni «non profit» ed enti confessionali, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, n. 1, pp. 13 ss.; G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici, Milano, 2008, p. 131; P. RONZANI, Il regimetributario degli enti ecclesiastici, Padova, 2000, pp. 213–244; A. Guarino, Organizzazioni non lucrative di utilità sociale ed enti religiosi nella riforme tributaria del terzo settore, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, n. 1; A. Fuccillo, Enti ecclesiastici e impresa commerciale, finalmente un binomio compatibile!, in Dir. eccl., 1995, II.
[2] Per i profili istituzionali, bastino, in questa sede, i richiami a S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, Cedam, Padova, 1986; F. Finocchiaro, Enti ecclesiastici – II) Enti ecclesiastici cattolici, in Enc. giur, Vol. XX, Roma, 1989; G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra attività no profit o for profit, Giuffré, Milano, 2002. Per un analitico commento delle nuove norme si veda C. Sacchetto, La tassazione internazionale degli enti non commerciali, in Rass. trib., 2012, pp. 565-568.
[3] A. Guarino, Diritto ecclesiastico tributario e art. 20 della Costituzione, Seconda Edizione, Napoli, Jovene, 2012, spec. p. 69 e ss.; S. Landolfi, L’art. 20 della Costituzione nel sistema degli enti ecclesiastici, in Rass. dir. pubbl., 1969, p. 261 e ss.; F. Onida, L’art. 20 della Costituzione, in Quad. dir. pol. eccl., 1996, p. 108 e ss.
[4] F. Finocchiaro, Commento agli artt. 19 e 20 Cost., in G. Branca (a cura di) Comm. Cost., Bologna-Roma, 1977, p. 85 e ss.
[5] M. C. Folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community, la transizione, Giappichelli, Torino, 2010, p. 134 e ss.
[6] Enti pubblici o privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che esercitano in modo esclusivo o prevalente attività di natura commerciale.
[7] L’appartenenza all’una o all’altra categoria ha riflessi sulla determinazione del reddito imponibile: per gli enti commerciali si rileva sulla base delle prescrizioni riferite ai redditi di impresa ( artt. 52 a 77 TUIR); per gli enti non commerciali sulla base della somma complessiva delle singole categorie reddituali (art. 108 TUIR).
[8] In questi termini, G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra attività no profit o for profit, Giuffré, Milano, 2002, p. 124. L’Autore chiarisce altresì che per inquadrare un ente in una categoria piuttosto che nell’altra “nessun rilievo assume la natura pubblica o privata , la rilevanza sociale delle finalità perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati di gestione”. Inoltre, “l’appartenenza all’una o all’altra categoria ha riflessi diretti sulla determinazione del reddito imponibile: per gli enti commerciali si rileva sulla base delle prescrizioni riferite ai redditi d’impresa (artt. 56 ss. del Testo Unico delle Imposte sui Reddit.) e per gli enti non commerciali sulla base della somma complessiva delle singole categorie reddituali (art. 143 T.U.I.R.)”.
[9] Cfr. art. 55 T.U.I.R. (“Redditi d’impresa”): “[1]. Sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa. [2]. Sono inoltre considerati redditi d’impresa: a) i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.; b) i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne; c) i redditi dei terreni, per la parte derivante dall’esercizio delle attività agricole di cui all’articolo 32, pur se nei limiti ivi stabiliti, ove spettino alle società in nome collettivo e in accomandita semplice nonchè alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa. [3]. Le disposizioni in materia di imposte sui redditi che fanno riferimento alle attività commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate nel presente articolo”.
[10] Cfr. Corte Costituzionale, 5 – 19 novembre 1992, n. 467, in Corr. trib., n. 47/1992, 3414, che afferma l’insufficienza dell’autoqualificazione dell’ente sulla base della sola definizione statutaria. Rileva dunque il criterio della prevalenza delle attività effettivamente esercitate rispetto alle finalità statutarie.
[11] Si riporta il testo dell’art. 149 T.U.I.R., ai sensi del quale: “[1]. Indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta. [2]. Ai fini della qualificazione commerciale dell’ente si tiene conto anche dei seguenti parametri: a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività;b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; d) prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese. [3]. Il mutamento di qualifica opera a partire dal periodo d’imposta in cui vengono meno le condizioni che legittimano le agevolazioni e comporta l’obbligo di comprendere tutti i beni facenti parte del patrimonio dell’ente nell’inventario di cui all’articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. L’iscrizione nell’inventario deve essere effettuata entro sessanta giorni dall’inizio del periodo di imposta in cui ha effetto il mutamento di qualifica secondo i criteri di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1974, n. 689. [4]. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche”.
[12] Per gli enti ecclesiastici di culto cattolico, occorre far riferimento all’art. 7 dell’Accordo del 18 febbraio 1984 (legge di esecuzione n. 121/1985), che ha apportato profonde modifiche alla disciplina degli enti e dei beni ecclesiastici e si sostituisce alla normativa del Concordato del 1929 (salvo alcune residue disposizioni), ed alla l. n. 222 del 20 maggio 1985 (“Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”), di esecuzione dell’Accordo integrativo del 15 novembre 1984; inoltre, vi è il relativo regolamento di esecuzione di quest’ultima legge, il D.P.R. n. 33/1987 (così come modificato dal d.p.r. n. 337 del 1999). L’art. 7.1 del nuovo Concordato si richiama all’art. 20 Cost. L’art. 7.2 stabilisce che lo Stato, ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici che ne siano già provvisti in base alle precedenti disposizioni concordatarie, si impegna a riconoscere, per l’avvenire, su domanda dell’autorità ecclesiastica o con il suo assenso, la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto; analogamente si procederà per il riconoscimento degli effetti civili di ogni mutamento sostanziale degli enti ecclesiastici.
[13] Si consideri che con l’introduzione del d. Lgs. 460 del 1997 (Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale), attuativo della legge n. 662 del 1996, il Legislatore ha fornito una definizione di ente non commerciale quale soggetto destinatario di speciali agevolazioni fiscali. In base all’art. 1 precisa infatti che per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. L’art. 6, invece, non applicabile all’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, afferma che indipendentemente daòòa previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente l’attività non commerciale per un intero periodo d’imposta. Cfr. P. Ronzani, Il regime tributario degli enti ecclesiastici, Cedam, Padova, 2000.
[14] ai sensi dell’art. 16, lett. a), della l. n. 222/1985, ci si riferisce alle attività dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana. Al riguardo deve essere sottolineato che l’art. 73 del TUIR approvato con il D.P.R. 22/12/1986, n. 917, sono enti «non commerciali» gli enti pubblici e privati diversi dalle società «che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali»; la stessa norma definisce oggetto principale «l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto».
[15] Disciplina di favore, di stretta interpretazione e orientata ad assimilare gli enti con fine di religione e di culto agli enti non commerciali, per mancanza di lucro soggettivo: Diffusamente cfr. G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra attività no profit e for profit, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2008; M.C. Folliero, Enti religiosi e non profit tra Welfare State e Welfare Community. La transizione, Giappichelli, Torino, 2002. Più recentemente G. Rivetti, Enti senza scopo di lucro. terzo settore e impresa sociale. Profili di specialità tributaria tra attività no profit o for profit, Giuffrè, Milano, 2017, p. 155 ss.; P. Floris, Enti religiosi e riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., n. 3 del 2018; P. Consorti, L’impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli “enti religiosi”, ivi, n. 4 del 2018.
[16] Si tratta dell’ex art. 111-bis T.U.I.R., che è stato modificato dall’art. 6, d.lgs. n. 460/1997. La ratio della presunta natura non commerciale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti deve essere rinvenuta nel fatto che per essi le attività istituzionali di ispirazione idealistica (di religione, di culto) sono quelle principali e prevalenti e che l’esercizio di un’attività commerciale assume soltanto un ruolo complementare o strumentale. A. Fuccillo, Enti ecclesiastici ed onlus: considerazioni in relazione alla fungibilità degli schemi e strutture associative, in Riv. not., 1999, 04, p. 894 e ss., rileva che sono, infatti, necessariamente no profit, nel senso che non possono, per ragioni strutturali, che perseguire il no distribution constraint, con l’esclusione di ogni forma di lucro soggettivo. Secondo l’opinione prevalente, infatti, l’ente che svolge attività di impresa non sarebbe in alcun modo assimilabile alle società, in quanto perseguirebbe il solo lucro oggettivo (ossia un fine lucrativo attraverso lo svolgimento di un’attività economica) e non anche lo scopo della divisione degli utili (il c.d. lucro soggettivo) che caratterizza e contraddistingue le società. Peraltro, si ritiene pacificamente che lo svolgimento dell’attività di impresa da parte dell’ente ecclesiastico non contrasta con gli scopi di natura ideale e non economica che l’ente persegue, ma può svolgere l’importante funzione di procurare i mezzi finanziari necessari e strumentali per il perseguimento dello scopo principale.
[17] Ciò sarebbe confermato sia dalla nozione civilistica di imprenditore ( artt. 2135 e 2195 c.c.) sia dalla normativa fiscale sul reddito di impresa ( artt. 55 e 56 TUIR) e sull’esercizio d’imprese (art. 4 d. P. R. n. 633 del 1972).
[18] L’ Amministrazione Finanziaria, con la Circ. 124/E del 12 maggio 1998, diramata dal Ministero delle Finanze per fornire le prime istruzioni in ordine all’applicazione delle nuove norme in materia di enti non commerciali introdotte dal D.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, ha espressamente riconosciuto che per gli enti «la cui attività essenziale sia di natura obiettivamente non commerciale» non si applicano i parametri quantitativi previsti dall’art. 111-bis (ora 149) TUIR al fine di stabilire se si è verificata la perdita della qualifica di ente non commerciale. Con la più recente Circ. n. 2/F del 24 gennaio 2009, spec. al par. 3, il Dipartimento delle Finanze ha confermato questo orientamento con specifico riferimento alla soppressa ICI. Cfr. Cass., 8 settembre 1999, n. 9529, in Mass. Giust. civ., 1999, 1930, ai sensi della quale “Ai fini della previsione di cui alla seconda parte dell’art. 108 del D.P.R. n. 917 del 1986, la quale esclude dall’assoggettamento ad IRPEG i redditi provenienti, agli enti non commerciali di cui alla lett. c) del comma primo dell’art. 87 dello stesso D.P.R., dallo svolgimento di attività di “prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 cod. civ., rese in conformità alle finalità` istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso il pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”, va escluso che la funzione educativa e di istruzione svolta da un asilo da essa gestito rientri nelle finalità istituzionali di una parrocchia, posto che esso asilo si pone all’esterno del ruolo istituzionale svolto dall’ente nel suo rapporto di ordine religioso con la comunità dei fedeli; va altresì escluso che la gestione di un tal tipo di attività non richieda una specifica organizzazione (mezzi materiali, strutture adeguate, personale docente e non)”. Sono peraltro numerosi altri provvedimenti giurisdizionali che rilevano ad esempio che Istituti religiosi che svolgono l’attività di scuola e casa per ferie sono (rimangono) enti non commerciali che svolgono un’attività di natura commerciale.
[19] G. Casuscelli, Le attuali prospettive del diritto ecclesiastico italiano, in Diritto Ecclesiastico, 2005, I, p. 37 e ss.; N. Fiorita, Enti ecclesiastici ed agevolazioni fiscali: bervi note su alcuni recenti provvedimenti governativi, in www.olir.it, ottobre 2005; S. Carmignani Caridi, Il regime tributario dell’ente ecclesiastico, in Enti ecclesiastici e controllo dello Stato. Studi sull’Istruzione della CEDI in materia amministrativa, a cura di J. I. Arrieta, Marcianum Press, Venezia, 2007, p. 222 e ss.
[20] M. Parisi, Gli enti religiosi nella trasformazione dello Stato sociali, ESI, Napoli, 2004.
[21] G. Feliciani, Organizzazioni no profit ed enti confessionali, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1997, I, pp.13-21.
[22] Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, 4 marzo 2003, in www.agenziaentrate.gov.it
[23] Cfr. gli artt. 67 – 71 e 143 – 149 del D.P.R. n. 917/1986 (modificato dal d.lgs. n. 344/2003). Si precisi inoltre che, ai sensi dell’art. 36, III co., D.P.R. n. 917/1986, gli immobili destinati all’esercizio del culto, ed anche le pertinenze dei medesimi, non producono reddito fondiario; ciò a meno che tali unità immobiliari siano oggetto di locazione. Inoltre, non costituiscono reddito: 1) i fondi pervenuti a seguito di raccolte pubbliche effettuate occasionalmente, anche mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione (es. offerte, collette, liberalità, iscrizioni a corsi di catechesi); 2) i contributi corrisposti da Amministrazioni pubbliche per lo svolgimento convenzionato di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali.
[24] Cfr., A. Guarino, Agevolazioni tributarie, enti ecclesiastici e “terzo settore”: i più recenti orientamenti della giurisprudenza e della prassi amministrativa, in Quad. dir. Pol. Eccl., 1995, p. 753 ss.; A. Guarino, Diritto ecclesiastico tributario e articolo 20 della Costituzione, Jovene, Napoli, 2001; G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra attività no profit o for profit, Giuffrè , Milano, 2002; P. Ronzani, Il regime tributario degli enti ecclesiastici, Cedam, Padova, 2000; S. Carmignani Caridi, Il regime tributario dell’ente ecclesiastico, in J. I. Arrieta (a cura di), Enti ecclesiastici e controllo dello Stato Venezia, 2007, p. 211 e ss.; L. Fuardo, Agevolazioni tributarie ed enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in Dir. eccl., 2000, 4, p. 417 e ss.; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Giuffrè, Milano, 2002, p. 133 e ss.; A. Fantozzi, Diritto Tributario, Giappichelli, Torino, 2003, p. 46 e ss., per il quale “le ragioni del trattamento giuridico di favore sono di natura extrafiscale, ossia nella volontà di perseguire finalità di politica economica, sociale, culturale o, comunque, finalità ritenute meritevoli di tutela dalle norme costituzionali”; A Carmeni, Le agevolazioni tributarie per gli Enti ecclesiastici, in Dir. ed economia assicur., 2012, 4, p. 527 e ss.
[25] Si pensi alla riduzione ai fini dell’imposta sul reddito delle società (IRES) e la disciplina in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA).
[26] Legge 27 maggio 1929, n. 810
[27] Paolo Cavana, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, Giappichelli, Torino, 2011, p.146 e ss.
[28] E già l’art. 29, lett. h), del Concordato del 1929, che si riferisce in realtà più genericamente agli enti ecclesiastici.
[29] art. 23 l. n. 516/1988 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno); art. 27 l. n. 101/1989 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane); art. 14 l. n. 116/1995 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia – UCEBI); art. 25 l. n. 520/1995 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa Evangelica Luterana in Italia – CELI). Si rileva, tuttavia, anche qualche eccezione in merito, e precisamente: l’art. 12, ult. co., l. n. 449/1984 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese) stabilisce che gli enti da esso disciplinati sono soggetti al regime tributario previsto dalle leggi dello Stato; l’art. 17 l. n. 517/1988 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Assemblee di Dio in Italia) ha lo stesso tenore letterale dell’art. 12 l. n. 449/1984. Cfr. altresì art. 12 r.d. n. 289/1930, ai senso del quale “Relativamente agli atti compiuti nell’interesse di istituti, eretti in ente morale, dai culti ammessi nello Stato, il fine di culto è, a tutti gli effetti tributari, equiparato a quello di beneficenza e di istruzione”.
[30] Le attività diverse da quelle di religione o di culto’ vanno distinte a seconda che siano strumentali o meno rispetto alle prime, e la questione riveste una particolare importanza in quanto, ai fini e per gli effetti di ordine e grado tributari, sarà imprescindibile la strumentalità dell’attività dell’ente.
[31] L’assimilazione non è una novità dell’Accordo del 1984. Esso, per gli enti cattolici, era contenuto già nell’art. 29 lettera h) del Concordato del 1929 e, per quelli acattolici eretti in ente morale ( art. 2 legge n. 1159 del 1929) nell’art. 12 R. D. n. 289 del 1930. Per i precedenti cfr. G. Catalano, Sulla equiparazione a fini tributari del «fine di culto o di religione» con i fini di «beneficenza e istruzione», in Dir. eccl., 1952, I, p. 268 e ss., T. Mauro, Riflessione sui principi del regime tributario degli enti ecclesiastici, in Diritto ecclesiastico, 1987, I, pp. 823-831.
[32] Si evidenzino alcuni principi generali in materia fiscale applicabili agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti: 1) gli enti non commerciali devono avere ciascuno il proprio codice fiscale; non sono tenuti ad avere la partita IVA, a meno che esercitino abitualmente anche un’attività commerciale; 2) sono sostituti d’imposta e devono perciò operare e versare le ritenute fiscali IRPEF in relazione ad eventuali retribuzioni ai dipendenti e compenso ai professionisti, rilasciare agli stessi le certificazioni annuali (modello CUD o altro documento previsto dalla normativa fiscale) e fare la relativa dichiarazione (modello 770); comunque sia, non sono sostituti d’imposta per le remunerazioni ai sacerdoti che svolgono servizio presso di essi, in quanto tale compito è attribuito per legge all’Istituto centrale per il sostentamento del clero (art. 25, l. n. 222/1985); 3) nel campo delle imposte dirette erariali sono soggetti, se hanno redditi imponibili, al pagamento dell’IRES, nonché alla presentazione annuale della dichiarazione dei redditi.
[33] Cfr. F. Finocchiaro, Gli enti ecclesiastici e l’accordo del 18 febbraio 1984 fra Stato e Santa Sede, in Aa. Vv., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 178-180.
[34] N. Fiorita, Enti ecclesiastici ed agevolazioni fiscali: brevi note su alcuni recenti provvedimenti governativi, in olir.it, 2005, pp. 1 – 14; Id., Prime riflessioni sulla politica ecclesiastica degli ultimi anni: enti ecclesiastici e agevolazioni fiscali, in Riv. dir. pubbl., 2006, pp. 441 – 466.
[35] Per le attività diverse, si ricordi che esse sono previste dall’art. 16, lett. b, l. n. 222/1985.
[36] art. 8 D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33 (“Approvazione del regolamento di esecuzione della l. n. 222/1985, recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”); esso stabilisce che l’ente ecclesiastico che svolga attività per le quali le leggi tributarie prescrivano la tenuta di scritture contabili, sia obbligato ad adeguarsi al dettato della normativa e quindi ad osservare le norme circa tali scritture relative alle specifiche attività esercitate. Non vi è dunque alcuna esenzione speciale da obblighi e oneri civilistici; infatti l’ente confessionale usufruisce di un regime di specialità riguardo alle sole attività di religione e di culto.
[37] Sul tema, cfr., M. Pistilli, Enti ecclesiastici ed esenzione dall’IMU, in Immobili e proprietà, 2012, 2, 103 ss.; L. Ferlazzo Natoli, Esenzione Ici alla Chiesa e posizione dell’UE: dibattito ancora aperto, in Bollettino tributario d’informazioni, 2011, 3, 165 ss.; A. Mondini, Enti ecclesiastici ed esenzione dall’ICI, in Studium iuris, 2008, 6, 679 ss.; M. Allena, Esenzione ICI per gli enti ecclesiastici che svolgono attività assistenziale in regime convenzionale tra carattere solidaristico e non commercialità, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 8/2009, 718.
[38] Imposta locale sui redditi che gravava su alcune categorie di redditi considerati dal legislatore come espressione di maggiore capacità contributiva,
[39] Imposte sull’incremento del valore degli immobili che colpiva sia la parte la parte alienante nelle compravendite immobiliari, sia l’avente causa nei trasferimenti a titolo gratuito. Questa era l’ipotesi di Invim ordinaria, così chiamata per distinguerla da quella decennale che gravava su tutti i soggetti diversi dalle persone fisiche ed era collegata alla proprietà dell’immobile.
[40] Era destituita di ogni rilevanza l’utilizzazione cui l’immobile fosse adibito o la correlazione con l’attività d’impresa e, pertanto, venivano a tali fini assoggettati al tributo anche gli immobili strumentali.
[41] Cfr. art. 7, secondo cui: “[1]. Sono esenti dall’imposta: a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 4, dalle comunità’ montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all’articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali; b) i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9; c) i fabbricati con destinazione ad usi culturali di cui all’articolo 5- bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601, e successive modificazioni; d) i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto, purchè compatibile con le disposizioni degli articoli 8 e 19 della Costituzione, e le loro pertinenze; e) i fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati negli articoli 13, 14, 15 e 16 del Trattato lateranense, sottoscritto l’11 febbraio 1929 e reso esecutivo con legge 27 maggio 1929, n. 810; f) i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali per i quali e’ prevista l’esenzione dall’imposta locale sul reddito dei fabbricati in base ad accordi internazionali resi esecutivi in Italia; g) i fabbricati che, dichiarati inagibili o inabitabili, sono stati recuperati al fine di essere destinati alle attività assistenziali di cui alla legge 5 febbraio 1992, n 104, limitatamente al periodo in cui sono adibiti direttamente allo svolgimento delle attività predette; h) i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell’articolo 15 della legge 27 dicembre 1977, n. 984; i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.
[42] d) i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto, purché compatibile con le disposizioni degli articoli 8 e 19 della Costituzione, e le loro pertinenze.
[43] Sono tali, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale, la canonica, l’abitazione del parroco e gli oratori.
[44] In questo senso A. Guarino, La giungla delle agevolazioni fiscali “religiose”. Una via per non perdersi, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/1998, p. 125.
[45] Cass. 12 maggio 2010, n. 11437, in Giust. civ. Mass., 2010, 5, 726, secondo cui la circostanza che il parroco aveva trasferito la residenza, sia anagrafica che effettiva, in altro comune da oltre due anni era elemento che, salva prova contraria gravante sul contribuente, poteva far ritenere venuto meno il rapporto pertinenziale. Cfr., altresì, la più risalente Cass. 17 ottobre 2005, n. 20033, in Giust. civ. Mass., 2010, 10, secondo cui “In tema di imposta comunale sugli immobili (i.c.i.), ai fini dell’applicazione dell’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. d), d.lg. 30 dicembre 1992 n. 504 a favore dei fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e delle loro pertinenze, si deve presumere, in base all’ “id quod plerumque accidit” – salva prova contraria, che deve essere fornita dal comune che pretenda di assoggettare l’immobile ad imposizione – che la casa sita nei pressi di una chiesa sia destinata, quale casa canonica, ad abitazione del parroco addetto alla chiesa, e costituisca, dunque, pertinenza di questa, senza che assumano rilievo, in senso contrario, nè la circostanza che il parroco abbia la residenza anagrafica in altro comune o comunque non risieda, temporaneamente, in quella casa, essendo il vincolo pertinenziale collegato ai beni e non alle persone che si trovano ad operare nei fabbricati in questione (chiesa e casa canonica); nè la categoria nella quale la casa canonica risulti iscritta in catasto (nella specie, categoria A/4, corrispondente alle abitazioni di tipo popolare), giacché la situazione di fatto prevale rispetto all’accatastamento del bene”.
[46] Gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c), (i cosiddetti “enti non commerciali cioè gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali) del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222.
[47] Controversa è apparsa nella disciplina del 92 la categoria dell’utilizzazione. Prima facie, infatti, appare incongrua per determinare una ipotesi di esenzione con riferimento ad un’imposta i cui soggetti passivi sono non coloro che si servono del bene ma i proprietari. Molti si sono domandati dunque il reale ambito applicativo di tale norma. Ci si è chiesti se la normativa intendesse agevolare anche quei soggetti proprietari del bene che, non utilizzandolo direttamente, traggano un reddito dall’immobile locato ad enti no profit che lo usano per i loro fini istituzionali. Tale ipotesi è stata però chiaramente rifiutata dalla giurisprudenza. Già la Corte di Cass. (sent. n. 142 del 2004) aveva chiarito come l’esenzione ICI spettasse soltanto agli immobili direttamente utilizzati dall’ente possessore per il conseguimento degli scopi istituzionali, assegnati all’ente medesimo dall’ordinamento giuridico, e non nel caso in cui gli immobili fossero concessi in locazione. Ragionamento ripreso successivamente dalla stessa Corte con la sentenza n. 4645 del 2004 in cui si afferma che: “Ai fini dell’imposizione ICI, tanto gli enti ecclesiastici che quelli con fini di istruzione o di beneficenza sono esentati dall’imposta, limitatamente agli immobili direttamente utilizzati per lo svolgimento delle loro attività istituzionali, non lo sono, invece, per gli immobili destinati ad altro … un ente ecclesiastico può svolgere liberamente anche un’attività di carattere commerciale, ma non per questo si modifica la natura dell’attività stessa, e, soprattutto, le norme applicabili al suo svolgimento rimangono quelle previste per le attività commerciali, senza che rilevi che l’ente le svolga, oppure no, in via esclusiva o prevalente”). Tuttavia il D. lgs. n. 446 del 1997 ha attribuito con l’art. 59 la possibilità per i Comuni di stabilire se le esenzioni di cui alla’art. 7 comma 1 lettera i) del D. lgs. n.504 del 92, dovesse essere applicato solamente a quelli immobili utilizzati e appartenenti all’ente non commerciale. Tale disposizione ha suscitato numerose perplessità e dubbi di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale (con le ordinanze n. 429/2006 e n. 19/2007 In Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, n. 3, 2007, pp. 665 ss. con nota di rinvio di Michele Madonna.), però, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. c) per violazione degli artt. 3, 23, 53, 76 e 77 Cost. (era stato infatti soltanto trasferito ai Comuni un margine di autonomia originariamente attribuito allo Stato), ha affermato espressamente che detta norma non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dal D. Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 comma 1, lett. i) in quanto l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate.
[48] In questa prospettiva, tale esenzione ha il suo precedente nell’art. 25 del d. p. r. del 26 ottobre 1972 n. 643 il cui art. 25 prevedeva l’esenzione dall’Invim decennale per gli immobili appartenenti agli enti non commerciali e destinati all’esercizio delle attività istituzionali, riconoscendo invece una riduzione pari alla metà dell’imposta dovuta per quegli immobili appartenenti agli enti non commerciali e non destinati all’esercizio delle attività istituzionali. Tale modulazione, basata sull’individuazione dei cosiddetti beni strumentali ha subito un primo vulnus coma l’art. 8 della legge n. 904 del 1977 che stabilì l’esenzione dall’Invim decennale per quegli immobili appartenenti ai benefici ecclesiastici (superando così ogni distinzione tra utilizzazione diretta e strumentale dei beni).
[49] Federica Botti, Le confessioni religiose e il principio di sussidiarietà nell’Unione europea: un nuovo giurisdizionalismo attraverso il mercato, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, gennaio 2011, www.statoechiese.it. L’Autrice scrive che: “Per questa via la legislazione di favore derivata per le attività degli Enti ecclesiastici dalla legislazione di derivazione concordataria, nonché da quella ordinaria specificatamente connessa agli Enti ecclesiastici, è risultata essere meno privilegiaria di quella ordinaria relativa alle attività gestite da Enti morali. E’ divenuto così più conveniente per gli Enti delle confessioni religiose operare a prescindere dalla natura religiosa dell’Ente stesso, utilizzando la legislazione italiana.”.
[50] M. Allena, Esenzioni ICI per gli enti ecclesiastici che svolgono attività assistenziale in regime convenzionale tra carattere solidaristico e non commercialità, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria n.8/2009, pp. 718 ss.; E. De Mita, Il regime tributario, in Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, a cura di D. Persano, Vita e Pensiero, Milano, 2008, pp. 245 ss.; M. Miccinesi, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, novembre 2010, www.statoechiese.it.
[51] G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra enti no profit o for profit, Giuffrè, Milano 2002.
[52] Cass. 20 maggio 2005, n. 10646, in Giust. Civ. Mass., 2005, 5, che chiarisce che “l’esenzione non spetta qualora la destinazione statutaria dell’ente soggettivamente esente rientri nel paradigma della norma agevolativa, ma in concreto si associ ad essa attività diversa, dalla medesima norma non contemplata”.
[53] Consiglio di Stato, parere n. 266 del 18 giugno 1996, secondo cui “ove si tratti … di un intero immobile destinato solo in parte, seppure prevalente, alle finalità favorite dalla legge, il carattere restrittivo della ripetuta norma che richiede l’ “esclusività” della destinazione, impedisce comunque l’attribuzione della agevolazione fiscale”.
[54] In tal senso già la risoluzione del Ministero delle Finanze, Dipartimento delle entrate, direzione centrale, Fiscalità locale, n. 1242 del 25 giugno 2004. Si riteneva che occorresse verificare che ogni immobile fosse utilizzato totalmente per lo svolgimento delle particolari attività richiamate dalla norma di esenzione. Pertanto, l’esenzione non poteva essere riconosciuta nei casi in cui l’immobile fosse destinato, oltre che ad una delle attività agevolate, anche ad altri usi (Cfr. fra tutte: Corte di Cassazione sentenze 16 marzo 2005, n. 5747, in Giust. civ. Mass. 2005, 3 e 13 maggio 2005, n. 10092, inedita).
[55] Ai sensi dell’art. 1, della legge n. 222/1985 infatti, ai fine del riconoscimento agli effetti civili, gli enti ecclesiastici debbono possedere “fine di religione o di culto”; in particolare, per gli enti non facenti parte della costituzione gerarchica della Chiesa, detto fine viene accertato caso per caso e deve risultare “costitutivo ed essenziale dell’ente” (art. 2). Ciò consente di escludere che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti abbiano “per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”, secondo quanto previsto dall’art. 87, comma 1, lett. c) del T.U.I.R. Sul punto si veda, per tutti, M. Parisi, Gli enti religiosi nella trasformazione dello Stato sociale, Napoli, 2004, p. 118 ss.
[56] Criticato dalla dottrina, in particolare, da E. De Mita, Il regime tributario, in D. Persano (a cura di), Gli edifici di culto fra Stato e confessioni religiose, Milano 2008, 251.
[57] Contro tale operazione si vedano M. Miccinesi, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, in Rivista Telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, www.statoechiese.it, novembre 2010; A. Perrone, Enti non profit e diritto dell’Unione Europea, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, www.statoechiese.it, novembre 2010.
[58] Cass. 8 marzo 2004 n. 4645, in Vita not. 2004, 431, che ritiene dovuto il pagamento dell’imposta riferito ad un immobile destinate alla gestione di pensionati con il pagamento di rette (attività oggettivamente commerciale). Cfr., M. Miccinesi, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, Relazione tenuta al Convegno di studi sul tema “Diritto della Unione Europea e status delle confessioni religiose” (Roma, Istituto Sturzo, 8-9 ottobre 2010), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (rivista telematica in http://www.statoechiese.it), novembre 2010, 10 ss, secondo cui “l’esistenza di un’impresa commerciale – sia agli effetti dell’ordinamento interno, sia ai fini del sindacato comunitario – non può essere desunta in funzione del carattere corrispettivo dell’attività svolta. Infatti, la tesi dell’automatica commercialità delle attività svolte dietro corrispettivo non ha riscontro nell’assetto dell’ordinamento tributario. Anche in ambito fiscale l’attività è economica in quanto rivolta quantomeno alla integrale copertura dei costi di produzione, ossia quando non è gestita in termini di erogazione delle risorse; all’attività economica corrisponde la nozione giuridica di attività di impresa giacché la idoneità a remunerare fattori produttivi implica la stabile capacità di autodeterminarsi nei rapporti economici e sul mercato. L’economicità viene pertanto a mancare non solo quando l’attività non è corrispettiva ma anche quando è sostenuta in modo decisivo dall’acquisizione gratuita o sostanzialmente non onerosa di tutto o parte dei mezzi occorrenti per l’esercizio dell’attività. Con il corollario che l’idoneità dei ricavi a remunerare le spese in un’ottica di economicità dell’attività non può essere valutata che in relazione al costo normale di tali spese, poiché altrimenti si trasformerebbe in fittizia materia imponibile l’apporto gratuito di risorse, che spesso contraddistingue il settore delle attività rivolte a scopi non lucrativi ed in particolare quelle degli enti religiosi. È indubbio che, così impostata la verifica circa la natura dell’attività, quella svolta da un ente ecclesiastico risulta non economica. Il patrimonio messo a disposizione ed i servizi dei religiosi utilizzati per il perseguimento dello scopo istituzionale (non lucrativo) non ricevono dai corrispettivi eventualmente conseguiti una remunerazione idonea a coprire il valore reale delle risorse impiegate; sicché i corrispettivi stessi risultano di per sé inadeguati ad assicurare la stabilità e la durevolezza dell’attività”.
[59] Espressione utilizzata da R. Botta, Il diritto ecclesiastico “vivente” nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, www.statoechiese.it, marzo 2010.
[60] Cfr. Chiesa Cattolica e imposta ICI. Decaduto il decreto 163/2005 resta in vigore la legge 504/1992, Nota dell’Ufficio Avvocatura della Diocesi di Milano, ottobre 2005, pp. 4-5 consultabile su www. olir.it.
[61] L’art. 6 del decreto legge 17 agosto 2005, n. 163, recita: “L’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e successive modificazioni, si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma commerciale, se connesse a finalità di religione o di culto”. Il riferimento alla mera «connessione», invero, lasciava ampi margini di opinabilità e, comunque, espandeva la portata dell’esenzione anche a situazioni che difficilmente potevano giustificarla sotto il profilo dell’equità sostanziale del sistema. La sua entrata in vigore, inoltre, avrebbe aperto un contenzioso giudiziario infinito, in quanto avrebbe consentito agli enti ecclesiastici di vedersi restituire le somme versate (indebitamente, per la nuova normativa) fino a quel momento.
[62] Prima di esso, l’art. 6 d.l. n. 169 del 2005 aveva sancito l’applicabilità dell’esenzione “anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficienza …. pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto”. Il decreto non fu convertito.
[63] Cfr. l’art. 1, comma 133 della legge n. 266/2005, secondo cui “con riferimento ad eventuali pagamenti effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto non si fa comunque luogo a rimborsi e restituzioni d’imposta”.
[64] Con questa formulazione (anch’essa di carattere interpretativo) il legislatore è tornato, come nella stesura originaria del 1992, a concedere il beneficio a tutti gli enti «non commerciali» ma ha diversamente inciso sul requisito oggettivo pervenendo ad una sorta di compromesso tra la portata per certi versi riduttiva della stesura originaria della norma e la dilatazione eccessiva ed iniqua che avrebbe fatto seguito all’interpretazione adottata dal D.L. n. 163/05. Infatti, il D.L. n. 203/05 ha, da un lato, esteso l’applicabilità dell’esenzione agli immobili anche se destinati allo svolgimento di attività aventi «natura eventualmente commerciale». Dall’altro, ha comunque mantenuto una connessione tra le attività svolte all’interno degli immobili in parola ed il fine istituzionale degli enti interessati.
[65] Decreto Bersani – Visco, entrato in vigore lo stesso 4 luglio 2006 e convertito nella legge 4 agosto 2006 n. 248, in G.U. n. 186, 11 agosto 2006, suppl. ord. n. 183.
[66] A. Guarino, L’ICI e gli immobili religiosi, in Diritto e religioni, 2006, n. 1/2, p. 283 e ss.
[67] P. Mastellone, Religion and Taxation in Italy: The Principle of Laïcité and Compliance with EU Law, in European Taxation, n. 8/2013, pp. 378 e ss.
[68] F. Balsamo, L’esenzione dell’Ici a favore degli enti ecclesiastici tra fiscalità di vantaggio e tutela comunitaria della concorrenza, in Diritto e Religioni, 2011,1, pp. 67-85.
[69] E. De Mita, Il regime tributario, cit., 252, ha rilevato che l’onere probatorio in merito alla sussistenza della prevalenza spetta all’amministrazione comunale.
[70] M. MICCINESI, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, cit., 15, secondo cui “nell’indagine circa le ragioni ispiratrici dell’esenzione ICI, occorre quindi tenere distinti almeno tre profili: quello delle finalità preposte all’ente possessore-gestore dell’immobile, le quali, impresse nella sua ragione costitutiva, ne vincolano la ricchezza al raggiungimento di un determinato scopo socialmente rilevante; quello del carattere sociale dell’attività effettuata, riflesso nell’enumerazione chiusa di cui all’art. 7, lett. i); e, infine, quello delle modalità (commerciali oppure no) con cui l’ente, in ragione delle predette finalità e nello svolgimento delle menzionate attività sociali, impiega l’immobile”. Afferma inoltre che “A riguardo, occorre osservare che l’ordinamento giuridico e tributario italiano non è ostile né insensibile al perseguimento di fini sociali attraverso moduli, oggettivamente, commerciali, anzi tutela istituti ibridi che, proprio sulla commistione degli uni con gli altri, fondano lo sviluppo di economie solidali in un’ottica di sussidiarietà pubblico-privato (si pensi, tra gli altri, all’impresa sociale di cui al d.lgs. n. 155/2006)”.
[71] Cfr. Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 3, 2004, pp. 657-658
[72] La quale afferma che «in tema di imposta comunale sugli immobili (i.c.i.), l’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, spetta a condizione che gli immobili – appartenenti ai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lett. c, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 – siano destinati esclusivamente allo svolgimento di una delle attività contemplate nella norma medesima, tra le quali, nel caso degli enti ecclesiastici, anche quelle indicate nel richiamato art. 16, lett. a), l. 20 maggio 1985 n. 222 (attività di religione o di culto, cioè dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana). Ne consegue che il beneficio dell’esenzione dall’imposta non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico – come pure agli enti di istruzione e beneficenza, ai quali quelli ecclesiastici aventi fine di religione o di culto sono, ai fini tributari, equiparati ex art. 7 l. 25 marzo 1985 n. 121 – che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali (nella fattispecie, gestione di pensionati con pagamento di rette)».
[73] M. Allena, Ici e immobili degli enti non commerciali: a proposito della circolare n. 2/DF 26 gennaio 2009 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in Quad. dir. e pol. eccl., n. 2/2009, 415 ss.
[74] Consistente nel fatto che l’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale alla stregua di quanto sancito all’art. 73 (ex art. 87), comma 1, lettera c) del T.U.I.R. e cioè “enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.”
[75] Consistente nella necessità che l’immobile oggetto dell’esenzione dovrà essere utilizzato esclusivamente per lo svolgimento delle attività tassativamente elencate dall’art 7, comma 1, lett. i) del D. Lgs. n. 504 del 1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, di religione e di culto alla stregua dell’art. 16 lett. a) della L. n. 222 del 1985), e che non abbiano natura esclusivamente commerciale.
[76] La Circolare prosegue affermando che «ciò è particolarmente evidente per le attività svolte in regime concessorio o in convenzionamento e/o accreditamento con l’ente pubblico, in quanto si tratta di attività inserite in maniera completa ed esclusiva nel servizio pubblico gestito direttamente da un’istituzione pubblica. L’esenzione in esame, infatti, trae la sua giustificazione, da un lato nella “meritevolezza” dei soggetti e delle finalità perseguite, e, dall’altro, nella rilevanza sociale delle attività svolte». Va rilevato come, secondo tale Circolare, non deve essere messa in discussione l’organizzazione e la presenza di corrispettivi, ma deve essere considerata con attenzione la presenza di altri requisiti che realizzano il nuovo concetto di attività svolte con modalità non esclusivamente commerciali.
[77] Come del resto ormai affermato dalla giurisprudenza. Cfr. Corte di Cassazione sentenze n. 555 del 1994; n. 14992 del 2000; n. 12749 del 2 settembre 2002; n. 21728 del 17 novembre 2004; n. 7905 del 15 aprile 2005, n. 20776 del 26 ottobre 2005. Assunto che trova fondamento sui principi che regolano l’incidenza dell’onere probatorio stabiliti dall’art. 2697 del codice civile, per cui “spetta al soggetto che fa valere il diritto ad un’agevolazione tributaria, che costituisce deroga al normale regime di imposizione di fornire la prova che ricorrono in concreto le condizioni previste dalla legge per poter godere della esenzione” (Corte di Cassazione sentenza n. 14146 del 24 settembre 2003per la quale spetta al soggetto che fa valere il diritto ad un’agevolazione tributaria, che costituisce deroga al normale regime di imposizione … di fornire la prova che ricorrono in concreto le condizioni previste dalla legge per poter godere della … esenzione).
[78] Dunque, «un ente ecclesiastico può svolgere liberamente, nel rispetto delle leggi dello Stato, anche un’attività di carattere commerciale, ma non per questo si modifica la natura dell’attività stessa, e, soprattutto, le norme applicabili al suo svolgimento rimangono, anche agli effetti tributari, quelle previste per le attività commerciali». Cfr. Diritto e religioni, Anno V, n. 1, 2010, p. 500. Analogamente, Cass. 23 marzo 2005, n. 6316, Cass. 8 marzo 2004, n. 4645, Comm. Trib. Reg. Lazio, sez. 28, 23 giugno 2005 n. 95, nonché la più recente Cass. 2080/2011 ed altresì Cass. n. 24502/2009 .
[79] Allo stesso modo Corte di Cassazione, sentenza n. 16728 del 2010. Un passaggio importante è rappresentato dalla sentenza n. 16728 del 2010 della Corte di Cass. civ., sez. V, che respingeva il ricorso presentato dalla Piccola Fraternità di Santa Elisabetta (Casa religiosa di ospitalità esercente attività ricettiva, condannata dalle Commissioni Tributarie di primo e secondo grado) avverso gli avvisi di accertamento del Comune di Assisi per omessa denuncia ICI. La Commissione Tributaria Regionale, in verità, aveva fondato la propria decisione sulla considerazione che l’attività ricettiva (l’Istituto offriva a pagamento ospitalità ai pellegrini) esercitata da un ente religioso appartiene alle attività di natura commerciale e rientra, quindi, tra quelle di cui all’art. 16 lett. b della L. n. 222 del 1985, per le quali non è prevista l’esenzione ICI, giacché la norma agevolativa è rivolta soltanto alle attività di cui alla lett. a) e non anche a quelle di cui alla lettera b), del citato articolo. L’Istituto religioso aveva proposto ricorso al giudice di legittimità adducendo che l’attività svolta poiché gestita nel rispetto del carattere religioso dell’ospitalità stessa, con accettazione delle connesse regole di comportamento e limitazione di servizio, oltreché col decisivo apporto di mezzi non acquisiti a titolo oneroso ma messi gratuitamente a disposizione dall’ente ecclesiastico, non avrebbe potuto qualificarsi come esclusivamente commerciale. La Cassazione respingendo tali motivi ribadiva quanto affermato dai giudici tributari ritenendo che l’attività esercitata nella «casa di ospitalità» non fosse riconducibile alla «attività di religione», rientrando nelle «attività diverse» a norma dell’art. 16, lett. b) della L. n. 222 del 1985. Il punto saliente della sentenza è nell’ultima parte laddove la Suprema Corte affermava che l’esenzione ICI prevista dal diritto interno qualora fosse concessa agli enti ecclesiastici indipendentemente dalla natura commerciale o meno dell’attività esercitata creerebbe il problema della compatibilità della norma interna con quella comunitaria.
[80] Già la Corte di Cass. con la sentenza n. 26657 del 2009, aveva stabilito che l’uso di un immobile di proprietà di un ente ecclesiastico – istituto religioso – per accogliere la vita di una comunità religiosa non può considerarsi attività ricettiva, in quanto l’uso non costituisce né attività commerciale, né uso meramente strumentale per l’esercizio di attività di religione o di culto, ma costituisce di per sé attività di religione o di culto. Per ciò la Suprema Corte avvalorava il diritto all’esenzione ICI. La sentenza statuisce che: “Il primo ed essenziale scopo di un ordine religioso è la formazione di comunità in cui si esercita la vita associativa quale presupposto per la formazione religiosa, la catechesi, la elevazione spirituale dei membri e la preghiera in comune. Molte comunità ecclesiastiche esauriscono in tali attività le finalità per cui sono state costituite (ad esempio le comunità di meditazione e di clausura) … la destinazione dell’immobile … ad abitazione della comunità religiosa composta dai membri dell’ente, del tutto assimilabile alla adibizione di una unità immobiliare ad abitazione del proprietario e dei suoi familiari, non costituisce attività commerciale”.
[81] Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, è stata riconosciuta l’esenzione de quo: – a un immobile adibito ad attività di assistenza sociale residenziale per anziani svolta da ente ecclesiastico riconosciuto come Onlus (Comm. Trib. Prov. Firenze, 23 marzo 2009); – a una casa per esercizi spirituali, purchè ne venga accertato in concreto l’utilizzo in tal senso (Comm. Trib. Reg. Piemonte, n. 23/2010); – a una casa per ferie gestita da religiosi senza fine di lucro ove si svolga opera di apostolato e formazione cristiana, purchè rivolta a categorie di soggetti specifici e non indeterminati (Comm. Trib. Reg. Lazio, n. 289/2010); – in caso di coesistenza, nell’immobile di attività con corrispettivo ed altre senza (Comm. Trib. Reg. Piemonte, n. 75/2010); – in caso di svolgimento dell’attività commerciale in via sussidiaria (Comm. Trib. Prov. Napoli, n. 147/2010). Non è stata invece riconosciuta: – a una casa per ferie con pagamento di tariffe, se non sia accertato in concreto che l’attività sia svolta in modo da non realizzare reddito (Comm. Trib. Prov. Roma, n. 221/2010); – a una casa per ferie con pagamento di quote, la cui offerta sia rivolta a soggetti non indeterminati (Comm. Trib. Prov. Verbania, n. 42/2010); – in caso di utilizzo dell’immobile per fini istituzionali sia solo in astratto, per destinazione statutaria, ma cessato nel concreto, come nel caso di un istituto religioso femminile che di fatto aveva cessato di fatto di svolgere attività scolastica (Comm. Trib. Prov. Verbania, n. 41/2010).
[82] V. Tenore, V. Messinetti, Tra priviliegi normativi e qualche buonismo giurisprudenziale: brevi questioni di equità con particolare riguardo agli enti ecclesiastici, in Giust. civ., 2012, 02, 81 ss., per i quali “tale orientamento apre uno scenario ben diverso con riferimento alla “zona franca” nella quale situazioni fiscali di questo genere sono state, a vario titolo, confinate e rimanda a un’aspirazione di riordino di tante ipotesi palesemente riconducibili ad attività che difficilmente possono non essere qualificate come “oggettivamente commerciali”, svolte dagli enti ecclesiastici spesso anche in palese violazione delle comuni regole sulla concorrenza. Si pensi ai vari pensionati tatticamente ubicati presso le zone di massima raccolta dei fedeli e adiacenti a vere e proprie strutture ricettive a pieno titolo che, in ragione del regime fiscale di cui (impropriamente) godono magari a fronte della mera ostensione di una sacra effige, offrono il medesimo servizio a prezzi anticoncorrenziali creando un ingiustificato, ma consolidato, disordine nel mercato. Si pensi ancora a campi sportivi parrocchiali fittati a pagamento (senza rilascio di ricevuta alcuna) a terzi, anche estranei alla comunità parrocchiale, a prezzi ovviamente più convenienti rispetto a strutture sportive”.
[83] Sulle quali v. i commenti di G. Di Cosimo, Risorse economiche pubbliche e Chiesa cattolica: due nodi al vaglio dei giudici, in www.statoechiese.it, n. 29/2015, 5 ottobre 2015; M. Croce, Le scuole paritarie fra servizio pubblico e attività commerciale: il caso delle esenzioni I.C.I., in www.forumcostituzionale.it, 24 ottobre 2015.
[84] Tali sentenze hanno dunque statuito l’applicazione dell’ICI, oggi IMU (legge n. 27 del 2012 di conversione con alcune modifiche al decreto legge n. 1 del 2012), con il conseguente pagamento del dovuto, da parte degli Istituti religiosi gestiti entrambi dalle suore, che svolgono attività d’istruzione scolastica parificata.
[85]Art. 7, c. 1, lett. i), d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,“Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”. L’esenzione in parola si riteneva valevole sia per il 2004 sia per le successive annualità e, in particolare, per il 2005 e il 2006 (in base al d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, “Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia di tributaria e finanziaria”) e, infine, quanto al periodo 2007-2009, alla luce di quanto stabilito dal d.l. n. 223 del 2006 (c.d. “decreto Bersani”, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”).
[86]Che riguarda gli «immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive»; d. lgs. n. 504 del 1992, versione precedente alla modifica di cui all’art. 91-bis, comma 1, del c.d. “decreto liberalizzazioni (d.l. n. 1 del 2012). A seguito della nuova numerazione intervenuta per effetto delle modifiche al Testo unico delle imposte sui redditi, il citato articolo 87 è divenuto l’art. 73.
[87] Come previsto dall’art. 16, lett. a) della legge 20 maggio 1985, n. 222, “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”. In dottrina, sulle connessioni tra patrimonio ecclesiastico, anche con riferimento al regime impositivo, si veda il prezioso contributo di G. Dammacco, Sistema concordatario e patrimonio ecclesiastico, Cacucci, Bari, 1996, 67 e, per quel che concerne il suo impatto sull’economia, 72 ss.
[88]Art. 16, lett. b), l. 222 del 1985; Corte di cassazione, 8 marzo 2004, n. 4645. Sul punto si veda A. Roccella, Gli enti ecclesiastici a vent’anni dall’accordo di modificazione del Concordato, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, novembre 2005, reperibile nel sito www.olir.it, 8.
[89]Nella sua ultima versione, l’art. 7, comma 1, lettera i), d. lgs. n. 504 del 1992, conseguente a numerose modifiche (l’ultima delle quali, come si vedrà, quella di cui all’art. 91-bis, d.l. n. 1/2012, convertito in l. n. 62/2012, necessaria per evitare una procedura d’infrazione per aiuti di Stato), dispone che i proprietari degli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché di religione e di culto, siano esentati dal pagamento del tributo.
[90] Modifica, quest’ultima, che non può essa stessa essere giudicata in linea con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato, come testimonia il fatto che la commissione europea sulla concorrenza abbia in proposito aperto un’indagine, per ovviare alla quale e` stato poi approvato l’art. 91-bis del d.l. n. 1 del 2012 (convertito con modificazioni dalla legge n. 62 del 2012).
[91]Corte di cassazione, 20 novembre 2009, n. 24500.
[92]Corte di cassazione, 15 aprile 2010, n. 1430.
[93]Corte di cassazione, 20 marzo 2005, n. 20776.
[94]Art. 10, c. 2, d. lgs. n. 504 del 1992.
[95] Così, «al fine di evitare qualsiasi strumentalizzazione, la sentenza in questione si pone in linea di continuità con il consolidato orientamento della Corte stessa sull’interpretazione prevista dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 e dei relativi limiti (…) la questione è stata oggetto, e la sentenza vi fa esplicito riferimento, di un’indagine comunitaria per sospetti aiuti di stato agli enti della Chiesa, che sembrano potuti derivare da una interpretazione della predetta esenzione non rigorosa e in possibile contraddizione con i principi della concorrenza»
[96] Per la Cassazione la sussistenza del requisito oggettivo – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale (Cass. N. 5485 del 2008; sull’onere della prova gravante sul contribuente v. anche Cass. N. 27165 del 2011)».A chiarire l’intendimento reso dalla Sentenza della Cassazione provvede anche una nota firmata dal Primo Presidente dott. Giorgio Santacroce, il quale si affretta a precisare che «laddove l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle astrattamente previste dalla norma come suscettibili di andare esenti, non sia svolta in concreto con le modalità di un’attività commerciale e l’onere di provare tale ultima circostanza spetta, secondo le regole generali, al contribuente».
[97] Non rileva, a tale riguardo, la circostanza che le dette scuole chiudano o possano chiudere in perdita il proprio bilancio potendo l’imprenditore operare anche in condizioni di sofferenza.
[98] Sull’ultimo punto appena evidenziato, le sentenze della V Sezione della Cassazione, intervengono per ricordare, infatti, come «la Commissione Europea sulla concorrenza abbia in proposito aperto un’indagine, per ovviare alla quale è stato poi approvato l’art. 91-bis del d.l.n. 1 del 2012 (convertito con modificazioni dalla legge n. 62 del 2012).
[99] Viene in evidenza, a questo proposito, l’espressione «risorsa statale» di cui all’art. 107, n. 1, T.F.U.E., che integra, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza comunitaria, un “onere” (charge) a carico del bilancio pubblico. Nel caso che ci occupa, la rinuncia al gettito di natura fiscale per la parte corrispondente alla cancellazione dell’imposta viene considerata come «consumo» di risorse statali sotto forma di spese fiscali (cioè un’imposta negativa o una spesa mediante imposta), dunque un “onere per lo Stato”. In tal modo, per il tramite dell’esenzione dal pagamento dell’imposta in favore di soggetti qualificati come imprese lo Stato avrebbe rinunciato ad entrate fiscali che, viceversa, avrebbe ottenuto se non avesse concesso tale favor. Può notarsi, a questo punto, il parallelismo, se non la vera e propria coincidenza, tra i sintagmi «risorsa statale» e «oneri per lo stato», l’uno di matrice comunitaria, l’altro di fonte costituzionale (art. 33, c. 3 Cost.): essi indicano non soltanto le risorse dirette, cioè l’erogazione materiale di danaro da parte di un ente pubblico, ma anche quelle indirette, cioè i benefici che un’impresa ottiene anche sotto forma di rinuncia a crediti o prestazioni, come è appunto il caso dell’esenzione fiscale a carico delle scuole paritarie. Sugli aiuti di Stato sia consentito rinviare a G. Luchena, Aiuti pubblici e vincoli comunitari, Cacucci, Bari, 2006; Giovanni Luchena, S. Prisco (a cura di), Aiuti di Stato tra diritti e mercato, Aracne, Roma, 2007; G. Luchena, Le incentivazioni economiche alle imprese tra politiche statali e decisioni comunitarie, Cacucci, Bari, 2012; G. Luchena, Gli aiuti di Stato e il consolidamento della governance duale nella crisi economica: elementi di innovazione e di continuità, in Studi sull’Integrazione Europea, n. 2, 2015, 227 ss.
[100] Art. 7, c. 2-bis, del d.l. n. 203 del 2005.
[101] L’emendamento pare rivolto a raggiungere una mediazione tra l’esigenza di prevedere un trattamento fiscale adeguato alla natura dei soggetti (non soltanto gli enti ecclesiastici) che svolgono istituzionalmente attività di interesse generale nell’ambito della c.d. «sussidiarietà orizzontale» e la necessità di impedire l’attribuzione di vantaggi fiscali indebiti a soggetti che solo nominalmente si dichiarano orientati a perseguire interessi siffatti ma che, in concreto, realizzano finalità non rientranti nella previsione agevolativa.
[102] Cfr., M. Miccinesi, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, cit., p. 15 e ss., che, durante la vigenza del precedente testo normativo in materia di esenzione ICI aveva affermato che «nel contesto dell’esenzione ICI, il legislatore ha risolutamente valorizzato le caratteristiche precipue del fine (attraverso l’applicazione del beneficio ai soli enti non commerciali) e del tipo di attività (attraverso l’enumerazione esaustiva delle attività beneficiarie dell’esenzione), attribuendo una rilevanza proporzionalmente meno incisiva alle modalità di gestione dell’immobile, le quali possono anche essere prevalentemente di natura commerciale senza che tuttavia ne sia intaccato il beneficio dell’esenzione: gli scopi sociali perseguiti e le attività svolte negli immobili – anch’esse, esclusivamente, di carattere “sociale”29 – sono considerati dal legislatore talmente pregnanti, da giustificare l’esenzione ICI per tutti gli immobili che presentano le specifiche caratteristiche indicate dalla norma. L’esenzione non si atteggia, pertanto, a privilegio concesso in base al possesso del bene da parte di un soggetto qualificato, ma risulta intimamente legata, altresì, allo scopo solidaristico e all’attività filantropica suo tramite esercitata».
[103] L’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale, pubblico o privato, diverso dalle società, di cui all’art. 73 (ex art. 87), primo comma, lettera c) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (recante il Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR), cui rinvia l’art. 7, primo comma, lettera i), D.lgs. n. 504 del 1992. Tra gli enti privati sono ricondotte anche le Associazioni di Promozione Sociale (APS), le ONLUS oltre agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. La Corte costituzionale (ord. 19 dicembre 2006, n. 429, e 26 gennaio 2007, n. 19) ha affermato che l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività elencate nell’art. 7, primo comma, lettera i).
[104] P. Selicato, L’imposta municipale unificata (IMU) e gli enti ecclesiastici: nuove norme per vecchi problemi, in federalismi.it, n. 2/2012 . Cfr. anche Comm. Trib. Reg. Lazio, n. 173 del 2017, che si è mossa dall’evidenza del quadro normativo generale, in essenza riferito a immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali delle attività indicate dalla lettera i) art. 7.
[105] Nell’intervento tenuto il 27 febbraio 2012 dal presidente del consiglio dei ministri in Commissione industria del Senato[105] in occasione della votazione dell’emendamento di cui all’art. 91bis, sopra riportato afferma che: “La presentazione da parte del Governo di un emendamento riguardante l’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili – ora imposta municipale propria – riservata agli enti non commerciali persegue una precisa finalità: chiarire in modo definitivo la compatibilità della normativa tributaria italiana con il diritto comunitario … il Governo considera le attività svolte dagli enti non profit come un valore e una risorsa della società italiana … Ritengo infatti corretto e doveroso riconoscere che proprio le attività non commerciali svolte dalle organizzazioni non profit assumono un ruolo centrale anche in termini di coesione sociale e rispondono direttamente ai principi costituzionali di solidarietà e di sussidiarietà, cardini essenziali dell’ordinamento giuridico italiano… La procedura di infrazione avviata in sede europea può essere infatti ragionevolmente superata se gli enti non commerciali sono individuati attraverso un doppio criterio, soggettivo ed oggettivo: il primo, la natura e il fine non lucrativo perseguito dagli stessi enti; il secondo, lo svolgimento da parte dell’ente di attività al di fuori del regime della libera concorrenza di mercato[105]. Tali criteri possono essere considerati ancora insufficienti in termini di accertamento e verifica… Si introduce conseguentemente l’ulteriore criterio della verifica concreta e non solo astratta, sia del requisito soggettivo sia del requisito oggettivo…”.
[106] Con modalità non commerciali» appena introdotta e la differenza rispetto alla precedente, di cui all’art 39 della legge n. 248 del 2006, che vi ricomprendeva le attività che «non abbiano esclusivamente natura commerciale».
[107] Art. 1, comma 1, lettera p), del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 19 novembre 2012, n. 200.
[108] L’esenzione si applica «in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile quale risulta da apposita dichiarazione» (art. 91-bis, comma 3). La stessa norma stabilisce, altresì, che «le modalità e le procedure relative alla predetta dichiarazione e gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale» saranno stabilite con successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze «da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 17 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Il varo del decreto ministeriale ha però subito un notevole ritardo e la bozza presentata dal Governo è stata bocciata dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. consultiva, parere n. 4180/2012 del 4 ottobre 2012). Il Governo ha così inserito un apposito correttivo nel D.L. 10 ottobre 2012, n. 174 il cui art. 9, comma 6, ha stabilito che al comma 3 dell’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, le parole da: «e gli elementi» fino alla fine, sono sostituite dalle seguenti: «, gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale, nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma 1 dell’articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, come svolte con modalità non commerciali».
[109] Tale norma è stata introdotta dopo che il Consiglio di Stato ha formulato parere parzialmente negativo (n. 7658/2012) in merito allo schema del suddetto regolamento da emettersi da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze; in particolare, ha evidenziato come esso, oltre a stabilire le modalità e le procedure relative alla dichiarazione richiesta in caso di utilizzazione mista e gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale, si fosse spinto oltre i confini tracciati dalla legge delega, arrivando a definire, tra gli altri, “i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attività come svolte con modalità non commerciali”.
[110] Sul tema, cfr. L. Simonelli, P. Clementi, L’Imu e gli enti non profit, in Enti non profit, 05, 2012, p. 77 e ss. per i quali «sembra quindi che la principale espressione della modalità non commerciale di svolgimento dell’attività sia da individuare nella non lucratività della stessa; infatti, ai fini della possibilità di fruire dell’esenzione, assume rilievo la natura e il fine non lucrativo degli enti e sono inoltre richieste garanzie tali da preservare senza alcun dubbio la finalità non lucrativa dell’attività nel senso che eventuali avanzi di gestione non rappresentino profitto, ma siano destinati a sostenere l’attività alla quale è riconosciuto un rilevante valore sociale. Il requisito della non lucratività del soggetto e dell’organizzazione (cioè della modalità concreta di svolgimento dell’attività) comporta che l’agevolazione sia riservata solo a quelle modalità di svolgimento delle attività che garantiscono un significativo beneficio per la collettività, beneficio assicurato anche attraverso la previsione, con riferimento all’esercizio di molte delle attività in questione, di sempre maggiori ed essenziali vincoli operativi e strutturali imposti per legge o in via amministrativa. Al fine di identificare gli immobili che meritano l’esenzione, il concetto di non lucratività si rivela quindi il criterio cardine, assolutamente necessario; ad esso deve però accompagnarsi lo strumento degli accertamenti e delle verifiche da prevedere in modo da rendere effettiva la garanzia di tutela per gli enti non profit e pienamente efficace il controllo rispetto ad eventuali abusi o violazioni; per questo motivo si introduce l’ulteriore criterio della verifica concreta e non solo astratta, sia del requisito soggettivo, sia del requisito oggettivo». Così, come sottolinea G. Casuscelli (a cura di), Nozioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 309 «si dovrà dunque procedere con un accertamento in concreto, verificando che i costi di gestione non siano coperti con i corrispettivi (non rilevando che ciò avvenga per effetto della beneficenza o di contributi pubblici a fondo perduto)».
[111] Nel parere si chiarisce che «in via generale, il diritto dell’Unione europea ha da tempo affrontato la questione dei presupposti necessari per escludere la natura commerciale di una attività, non tanto facendo riferimento al concetto dell’assenza dello scopo di lucro, ritenuto non determinante (Corte Giust. UE, 1 luglio 2008, C-49/07, punti 27 e 28, con riferimento alla nozione di impresa), ma piuttosto richiamando il carattere non economico che deve qualificare l’attività non commerciale. Costituisce principio ormai pacifico quello secondo cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita una attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (fin da Corte Giust. UE, 23 aprile 1991, C-41/90, Hofner; 17 febbraio 1993, C-159-160/91, Poucet; principi ribaditi anche di recente da Corte Giust., 3 marzo 2011, C-437/09 e 12 luglio 2012, C-138/11). Per chiarire la distinzione tra attività economiche e non economiche, la giurisprudenza ha costantemente affermato che qualsiasi attività consistente nell’offrire beni e servizi in un mercato costituisce attività economica (Corte Giust. UE, 16 giugno 1987, C-118/85, punto 7; 18 giugno 1998,C-35/96, punto 36; 12 settembre 2000, C-180-184/98, punto 75). Rileva, dunque, la nozione di attività economica, in quanto, anche nei settori presi in considerazione dall’art. 4 dello schema di regolamento (attività assistenziale, sanitaria, didattica, ricettiva, culturale, ricreativa e sportiva), soggetti in apparenza “non commerciali” possono, in taluni casi, trovarsi a svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici. In sostanza, anche gli enti non commerciali possono svolgere attività commerciali, che sono necessariamente di natura economica ai sensi del diritto dell’Unione europea e gli immobili destinati a tali attività sono soggetti al pagamento dell’IMU, e non possono beneficare dell’esenzione (ciò pro quota, in ipotesi di utilizzazione mista)».
[112] Per completezza, si rileva che, con le successive risoluzioni n. 3/DF e n. 4/DF del 4 marzo 2013, il Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento delle finanze, ha fornito importanti chiarimenti in merito alla corretta applicazione sia del Regolamento di cui al D.M. 200/2012, che di fatto hanno allargato il regime di esenzione. In particolare, la ris. n. 3/ DF ha fatto luce sulla disposizione finale del comma 1 dell’art. 7 del Regolamento, concernente il termine per l’adeguamento dell’atto costitutivo o dello statuto dell’ente non commerciale, mentre la ris. n. 4/DF ha fornito un importante contributo interpretativo sulla corretta applicazione dell’esenzione IMU nel caso in cui un ente non commerciale conceda un proprio immobile in comodato a un altro ente non commerciale per lo svolgimento di una delle attività meritevoli di agevolazione; in caso di beni immobili concessi in comodato, trattandosi di un’utilizzazione di beni essenzialmente gratuita per l’ente non commerciale detentore (comodatario), è stato quindi ritenuto che al soggetto passivo (ente non commerciale comodante) si applichi l’esenzione IMU.
[113] Il comma 639 stabilisce infatti: «È istituita l’imposta unica comunale (IUC). Essa si basa su due presupposti impositivi, uno costituito dal possesso di immobili e collegato alla loro natura e valore e l’altro collegato all’erogazione e alla fruizione di servizi comunali. La IUC si compone dell’imposta municipale propria (IMU), di natura patrimoniale, dovuta dal possessore di immobili, escluse le abitazioni principali, e di una componente riferita ai servizi, che si articola nel tributo per i servizi indivisibili (TASI), a carico sia del possessore che dell’utilizzatore dell’immobile, e nella tassa sui rifiuti (TARI), destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore».
[114] Il divieto colpisce ogni misura che, tramite l’impiego di risorse statali e indipendentemente dalle forme adottate, accorda a imprese o produzioni determinate, e quindi selettivamente, un vantaggio economico idoneo a falsare o a minacciare di falsare la concorrenza sugli scambi comunitari. Esso si abbatte, quindi, non solo sui finanziamenti concessi in forma diretta, ma anche su aiuti negativi, quali quelli fiscali, caratterizzati dalla rinuncia da parte dello Stato alla riscossione di imposte od oneri (attraverso esenzioni, riduzioni dell’aliquota o benefici di effetto equivalente), che, derogando al sistema tributario generale, avvantaggiano alcuni soggetti economici a scapito di altri per ragioni non comprensibili alle logiche di mercato. Si deve inoltre notare che la circostanza che una misura sia finanziata con la fiscalità di enti substatali non ne esclude la qualificabilità come aiuto di stato. In proposito, sono numerose le pronunce della Corte di Giustizia che censurano, proprio sotto il profilo degli aiuti di stato, la legittimità di misure agevolative rese per il tramite di tributi locali. Da ultimo, si segnala Corte di Giustizia, sentenza 17 novembre 2009, causa C-169/08, Regione Sardegna, con cui è stata sancita l’incompatibilità con il divieto di aiuti di stato dell’imposta sugli scali turistici degli aeromobili e delle unità da diporto, introdotta dall’art. 4 della L. Regione Sardegna dell’11 maggio 2006, n. 4, così come modificata dalla L.R. 29 maggio 2007, n. 2, in Rass. trib., 2010, con commento di A. Carinci, L’imposta sugli scali della Regione Sardegna: ulteriori indicazioni dalla Corte di Giustizia sui limiti comunitari all’autonomia tributaria regionale .
[115] G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, CEDAM, Padova, 2010, p. 5.
[116] Tra le prime Corte di Giustizia sent. 23 febbraio 1963, causa C-30/59, De Gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg.
[117] G. Tesauro, Diritto comunitario, V, CEDAM, Padova, 2008, pp. 816 e ss.
[118] Marco Miccinesi, L’incidenza del diritto comunitario sulla fiscalità degli enti e delle confessioni religiose, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, novembre 2010, www.statoechiese.it.
[119] Per quanto attiene la soglia “de minimis”, essa attiene gli aiuti concessi su un periodo di tre anni che non superino la soglia dei 200.000 euro. Il periodo di tre anni da prendere in considerazione corrisponde oramai a tre esercizi finanziari. Tali aiuti non incidono sugli scambi tra gli Stati membri e non falsano o minacciano di falsare la concorrenza. Cfr. Comunicato stampa della Corte di Giustizia n. 71/17 del 27 giugno ultimo scorso, e la sentenza in pari data emessa dalla Grande Sezione nella causa C-74/16.
[120] Cfr. F. Fiore, Ici, Imu ed aiuti di Stato tra vecchie e nuove regole. Un’analisi sulla tassazione degli enti ecclesiastici, in Dir. Rel., 2012; M. Miccinesi, Brevi note sulla rilevanza tributaria del patrimonio immobiliare degli enti non commerciali nell’ambito della neointrodotta imposta municipale unica, in Quad. dir. pol. eccl., n. 2/2012, p. 425 ss; A. Perrone, Enti non profit e diritto dell’Unione Europea” in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), febbraio 2011; A. Licastro, A. Ruggieri, Diritto concordatario versus diritto eurounitario: a chi spetta la primauté? (a margine della pronunzia della Corte di Giustizia del 27 giugno 2017, C-74/16, in tema di agevolazioni fiscali per le “attività economiche” della Chiesa), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., n. 26 del 2017; R. Palladino, L’operatività del divieto di aiuti di stato in ipotesi di esenzioni fiscali a beneficio degli enti ecclesiastici: la sentenza della Corte di Giustizia Congregación de Escuelas pías provincia Betania c. Ayuntamiento de Getafe, in Eurojus.it, Rivista telematica (www.rivista.eurojus.it), 2017; G. D’Angelo, Il favor fiscale dell’ente ecclesiastico-religioso “imprenditore sociale” nella prospettiva del divieto europeo di aiuti di Stato: conferme problematiche dalla recente giurisprudenza UE in tema di esenzione ICI/IMU, in Quad. dir. pol. eccl., 2016, 3, p. 661 ss.; L. Amoretti, Esenzione IMU enti ecclesiastici: privilegio o diritto accordato per un fine di particolare rilevanza sociale?, in Il tributario (all’URL iltributario.it/articoli) settembre 2017; M. Allena, Imu, enti ecclesiastici e aiuti di Stato: riflessioni a margine delle sentenze del Tribunale UE di primo grado, in attesa della decisione della Corte di Giustizia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, marzo 2017.
[121] Su tale vicenda, si vedano tra gli altri L. Castaldi, Riflessioni sparse sull’esenzione ICI di cui all’art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. n. 504/1992 e la Corte di cassazione, in Rassegna tributaria, n. 3/2009, pp. 794 ss.; P. Tarigo, L’esenzione IMU-TASI degli enti non commerciali, Rivista di diritto tributario, 2014, I, pp. 1093 e ss.; M. Scuffi, Gli sviluppi della giurisprudenza nazionale in materia di aiuti di Stato, in L’applicazione delle regole di concorrenza in Italia e nell’Unione europea, a cura di G.A. Benacchio, M. Carpagnano, Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, 2014, pp. 119-151, e G. Tesauro (a cura di), Concorrenza ed effettività della tutela giurisdizionale tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamento italiano, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013; F. Gallo, Giustizia sociale e giustizia fiscale nell’Unione europea. Fra integrazione e unificazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015.
[122] Con lettera 2010C(2010) n. 6960 indirizzata al Ministro degli Esteri italiano il 12 ottobre 2010.
[123] Cause T-192/10, Ferracci/Commissione (GU C 179 del 3.7.2010 pag. 45) e T 193/10 Scuola Elementare Maria Montessori/Commissione (GU C 179 del 3.7.2010 pag. 46).
[124] In tema di aiuti fiscali concessi ad un soggetto che, prescindere dallo status giuridico, dall’assenza dello scopo di lucro soggettivo o dalle valutazioni relative alla meritevolezza delle finalità perseguite, eserciti un’attività economica finalizzata alla produzione e/o allo scambio di beni o di servizi in un determinato mercato cfr. A. Marotta, Aiuti di Stato e aiuti fiscali, in M. Ingrosso, G. Tesauro (a cura di), Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Napoli, 2009, p. 129, nonché il contributo di C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Giappichelli, Torino, 2012
[125] L’art. 17 del TFUE prevede tre paragrafi: 1. L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtu del diritto nazionale. 2. L’Unione europea rispetta ugualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali. 3. Riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese ed organizzazioni.
[126] Del resto, non poteva che apparire forzato il richiamo all’art. 107, paragrafo 3, lett. b) del TFUE, secondo il quale la Commissione può considerare compatibili con il mercato interno “gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo.
[127] (CGUE, causa C-118/85, Commissione c/Repubblica Italiana, Racc. 1987, pag. 2599, punto 7; causa C-35/96, Commissione c/Repubblica italiana, Racc. 1998, pag. I-3851, punto 36; cause riunite C-180/98 a C-184/98, Pavlov e altri, punto 75). Cfr. Cause riunite C-180/98 a C-184/98, Pavlov e altri, Racc. 2000, pag. I-6451). Sempre secondo la Corte, la classificazione di un determinato soggetto come impresa dipende pertanto interamente dalla natura delle sue attività (cfr. sul punto Commissione UE, Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale, 2012/C 8/02, in GUUE C/8 del 11/01/2012).
[128] Alla base di tale esito vi è l’osservazione che il TFUE guarda agli aiuti di Stato non nella forma, ma negli effetti. Così, non si pongono problemi a classificare alcuni enti ecclesiastici che svolgono attività prettamente commerciale come imprese, ossia come soggetti che esercitano attività in tutto e per tutto commerciali. In tal senso, il divieto di destinazione dei proventi di tali attività è un dato che risulta totalmente superfluo ai fini dell’accertamento di una lesione del mercato e della concorrenza. Così anche Corte di Giustizia della Comunità Europea con la sentenza 10 gennaio 2006, C-222/04. Cfr. C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Giappichelli, Torino, 2012.
[129] Cfr. Mario Tedeschi, Note in tema di nazionalità degli enti ecclesiastici, in Archivio Giuridico, 1976, 191, p. 3 e ss.
[130] In estrema sintesi, secondo la Commissione, le attività economiche svolte dagli enti non profit italiani sarebbero in tutto parificabili a quelle svolte dalle imprese e, pertanto, le stesse potrebbero avere un reale impatto sul mercato.
[131] DECISIONE DELLA COMMISSIONE del 19 dicembre 2012 relativa all’aiuto di Stato SA.20829 (C 26/2010, ex NN 43/2010 (ex CP 71/2006)) Regime riguardante l’esenzione dall’ICI per gli immobili utilizzati da enti non commerciali per fini specifici cui l’Italia ha dato esecuzione.
[132] Preme rilevare che, per la prima volta nella storia degli interventi sul tema degli aiuti di Stato, la Commissione non ha chiesto il recupero delle somme pregresse, dato “in questo caso specifico” ciò “sarebbe assolutamente impossibile”; le autorità italiane hanno dimostrato che è oggettivamente impossibile determinare quale porzione dell’immobile di proprietà dell’ente non commerciale sia stata utilizzata esclusivamente per attività non commerciali, risultando quindi legittimamente esentata dal versamento dell’imposta, e quale sia stata la porzione utilizzata per attività ritenute “di natura non esclusivamente commerciale”, la cui esenzione dal versamento dell’ICI avrebbe comportato la presenza di un aiuto di Stato ai sensi delle norme dell’UE in materia. Inoltre, va rilevato riconoscimento che Bruxelles dà alle attività non profit per l'”importante ruolo sociale” che esse svolgono, come ha commentato il Commissario Ue alla Concorrenza, Joaquin Almunia, una volta accertato che “quando operano sullo stesso mercato degli attori commerciali non beneficino di aiuti non dovuti”.
[133] In tale contesto merita nuovamente di essere rammentata l’entrata in vigore dell’art. 91-bis del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27 che, regolamentando l’IMU per gli enti non commerciali, ha stabilito i requisiti, le modalità e tutte le procedure per l’applicazione anche proporzionale, dell’esenzione IMU per le unità immobiliari destinate allo svolgimento delle attività istituzionali con modalità non commerciali. Come si è visto, La norma, infatti, recita testualmente: «Al comma 1, lettera i), dell’articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, dopo le parole: “allo svolgimento” sono inserite le seguenti: “con modalità non commerciali”». Il legislatore, pertanto è andato oltre il mero riferimento al requisito soggettivo di ente «non commerciale» di cui all’art. 73, co. 1, lett. c), TUIR aggiungendo al preesistente richiamo alla natura «non commerciale» degli enti possessori degli immobili un quid pluris riferibile alle modalità della gestione dell’attività che essi vi svolgono. La nuova norma, infatti, fa riferimento, da un lato, alle caratteristiche oggettive dell’attività svolta all’interno degli immobili (che, anche stando alla nuova formulazione, non è escluso che abbia connotazioni commerciali); dall’altro, all’impronta che viene data nel suo concreto svolgimento in virtù dei requisiti soggettivi dell’ente che la svolge (natura giuridica e fine non lucrativo)Lo scopo della norma, del resto, è stato proprio quello di dare soluzione ai dubbi sollevati dalla Commissione. Non a caso, nella relazione del Governo che accompagna la proposta di emendamento si afferma, infatti, che esso persegue la precisa finalità di «chiarire in modo definitivo la compatibilità della normativa tributaria italiana con il diritto comunitario». D’altra parte, già prima della conversione in legge la Commissione aveva definito l’emendamento “un progresso importante” ed era apparsa favorevole alla chiusura della procedura di infrazione aperta a carico dell’Italia. È in questa prospettiva che il Governo ha predisposto l’emendamento contenente la norma in questione. Si cerca d’introdurre misure rivolte a consentire, da un lato, che la valutazione della natura commerciale delle attività economiche svolte da enti non profit possa essere compiuta in modo da tener conto dell’impatto che dette attività sono idonee a produrre sul mercato e, dall’altro, che l’esenzione dall’imposta immobiliare sia applicabile soltanto nei casi in cui le attività svolte negli immobili stessi non siano in grado di falsare la concorrenza, in quanto svolte con modalità tali da non entrare in competizione con quelle degli altri operatori economici. Per raggiungere l’obiettivo suindicato, l’art. 91-bis, ha inserito un ulteriore elemento tra i requisiti che devono sussistere affinché si possa ottenere il riconoscimento dell’esenzione. La norma, infatti, al comma 1, lettera i), dell’articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, dopo le parole: “allo svolgimento” ha inserito: “con modalità non commerciali”. Essa fa riferimento da un lato, alle caratteristiche oggettive dell’attività svolta all’interno degli immobili; dall’altro, all’impronta che viene data nel suo concreto svolgimento in virtù dei requisiti soggettivi dell’ente che la svolge, ovvero, natura giuridica e fine non lucrativo. In sostanza si è, dunque, stabilito che sono esenti da IMU gli enti che svolgono la propria attività secondo modalità concretamente ed effettivamente “non commerciali” (Si tratta, quindi, di prestare attenzione a cosa possa intendersi per «modalità non commerciali» della gestione. Lo stesso Governo ha precisato nella sua Relazione che le modalità in questione sussistono quando: 1) Il servizio prestato è assimilabile a quello pubblico, sotto il profilo dei programmi di studio e della rilevanza sociale, dell’accoglienza di alunni con disabilità, dell’applicazione della contrattazione collettiva del personale docente e non docente; 2) Il servizio stesso è aperto a tutti i cittadini alle stesse condizioni e la modalità di eventuale selezione all’ingresso ovvero di successiva esclusione, correlata al rendimento scolastico, sono articolate secondo norme non discriminatorie; 3) L’organizzazione dell’ente – con riferimento ai contributi chiesti alle famiglie, alla pubblicità del bilancio, alle caratteristiche delle strutture – è tale da preservare la finalità non lucrativa e gli eventuali avanzi sono esclusivamente destinati all’attività didattica. Come è agevole constatare, la relazione del Governo si riferisce in modo esplicito alle attività didattiche ma i criteri ai quali essa si richiama possono agevolmente trovare applicazione ad altri settori.). Si è voluto, in altri termini, assicurare che soltanto gli enti che possiedono realmente i requisiti richiesti possano usufruire delle agevolazioni fiscali del caso. In sostanza, la nuova normativa tende ad assicurare un terzo criterio che è quello della verifica in concreto (e non solo in astratto) sia del requisito soggettivo sia del requisito oggettivo. Si è così voluto riconoscere l’esonero solo agli immobili destinati ad attività in cui «siano assenti gli elementi tipici dell’economia di mercato (quali il lucro soggettivo e la libera concorrenza) ma siano presenti le finalità di solidarietà sociale sottese alla norma di esenzione». Queste caratteristiche, a ben vedere, erano state già individuate in via interpretativa dal Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze con Circ. n. 2/DF del 26 gennaio 2009 e la norma in esame ha semplicemente dato loro rilievo normativo.
Ciò rende spiegabile il motivo per il quale, in conformità ad un consolidato orientamento, si ritiene che l’onere della prova circa la sussistenza dei requisiti sopra descritti sia a carico del contribuente che intende ottenere il riconoscimento dell’esenzione (In questo senso cfr. Cass. Civ., sez. trib., sent. 17 settembre 2012, n. 19372). Del resto, anche in materia di ICI la Cassazione era orientata a ritenere che fosse necessario avere esclusivo riguardo alla destinazione concreta dell’immobile, a prescindere da qualunque dato formale e che, pertanto, “la situazione di fatto prevale rispetto all’accatastamento del bene”.
[134] L’aiuto di Stato accordato sotto forma di esenzione dall’ICI, concesso a enti non commerciali che svolgevano negli immobili esclusivamente le attività elencate all’articolo 7, primo comma, lettera i), del decreto legislativo n. 504/92, illecitamente posto in essere dall’Italia in violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, del trattato, è incompatibile con il mercato interno. L’esenzione dall’IMU, concessa ad enti non commerciali che svolgono negli immobili esclusivamente le attività elencate all’articolo 7, primo comma, lettera i), del decreto legislativo n. 504/92, non costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, del trattato.
[135] Decisione 2013/284/UE della Commissione, del 19 dicembre 2012, relativa all’aiuto di Stato S.A. 20829 [C 26/2010, ex NN 43/2010 (ex CP 71/2006)] Regime riguardante l’esenzione dall’[imposta comunale sugli immobili] per gli immobili utilizzati da enti non commerciali per fini specifici cui l’Italia ha dato esecuzione (GU 2013, L 166, pag. 24).
[136] L’articolo 263 TFUE, quarto comma, dispone che «qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre‚ alle condizioni previste al primo e secondo comma, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione».
[137] Sentenze del Tribunale del 15 settembre 2016, Scuola Elementare Maria Montessori / Commissione (T-220/13), e Ferracci / Commissione (T-219/13).
[138] Con l’impugnazione presentata nella causa C-622/16 P, la Scuola Elementare Maria Montessori chiede che la Corte voglia: – annullare la sentenza del Tribunale del 15 settembre 2016, Scuola Elementare Maria Montessori/Commissione (T-220/13, non pubblicata, EU:T:2016:484), e, per l’effetto, annullare la decisione controversa nella parte in cui la Commissione ha ritenuto che non doveva essere disposto il recupero dell’aiuto accordato sotto forma di esenzione dall’ICI nonché nella parte in cui ha reputato che le misure relative all’esenzione dall’IMU non rientrassero nell’ambito di applicazione dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE; – in ogni caso, annullare detta sentenza nelle parti relative a quei motivi dell’atto di impugnazione che la Corte riterrà fondati e meritevoli di accoglimento, e – condannare la Commissione al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio. 15 La Commissione, sostenuta dalla Repubblica italiana, chiede che la Corte voglia: – respingere integralmente l’impugnazione e – condannare la ricorrente sia alle spese del presente giudizio sia a quelle del giudizio di primo grado. 16 Con le sue impugnazioni nelle cause C-623/16 P e C-624/16 P, la Commissione, sostenuta dalla Repubblica italiana, chiede che la Corte voglia: – annullare le sentenze impugnate nella misura in cui, con le medesime, il Tribunale ha dichiarato ricevibili i ricorsi di primo grado ai sensi dell’articolo 263, quarto comma, terza parte di frase, TFUE; – dichiarare i ricorsi di primo grado irricevibili ai sensi dell’articolo 263, quarto comma, seconda e terza parte di frase, TFUE e, di conseguenza, respingerli integralmente, e – condannare il sig. F. e la Scuola Elementare Maria Montessori alle spese sostenute dalla Commissione tanto nel procedimento dinanzi al Tribunale quanto nell’ambito del presente procedimento. La Scuola Elementare Maria Montessori chiede che la Corte voglia: – respingere l’impugnazione proposta dalla Commissione nella causa C-623/16 P e confermare la sentenza del 15 settembre 2016, Scuola Elementare Maria Montessori/Commissione (T-220/13, non pubblicata, EU:T:2016:484), nella parte in cui, con tale sentenza, il Tribunale ha dichiarato ricevibile il ricorso che essa aveva proposto contro la decisione controversa, e condannare la Commissione alle spese nella presente causa. Con decisione del presidente della Corte dell’11 aprile 2017, le cause da C-622/16 P e C-624/16 P sono state riunite ai fini della fase orale e della sentenza. Sulle impugnazioni della Commissione nelle cause C-623/16 P e C-624/16 P, a sostegno delle sue impugnazioni nelle cause C-623/16 P e C-624/16 P, la Commissione, sostenuta dalla Repubblica italiana, deduce un unico motivo, suddiviso in tre capi, con cui lamenta che il Tribunale ha interpretato ed applicato erroneamente ciascuno dei tre requisiti cumulativi di cui all’articolo 263, quarto comma, terza parte di frase, TFUE.
[139] Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 6 novembre 2018, cause riunite da C-622/16 P a C-624/16 P
[140] l’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento n. 659/1999 obbliga la Commissione, come regola generale, a adottare un ordine di recupero di un aiuto illegale e le consente solo in via eccezionale di rinunciarvi […]”. Dunque, concludono i giudici europei, “spettava alla Commissione dimostrare, nella decisione controversa, che le condizioni che l’autorizzavano ad astenersi dall’adottare un siffatto ordine erano soddisfatte, mentre non era onere della Scuola Elementare Maria Montessori provare dinanzi al Tribunale l’esistenza di modalità alternative che consentissero il recupero, anche solo parziale, degli aiuti di cui trattasi”.
[141] Infatti, dal momento che l’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento n. 659/1999 obbliga la Commissione, come regola generale, a adottare un ordine di recupero di un aiuto illegale e le consente solo in via eccezionale di rinunciarvi, spettava alla Commissione dimostrare, nella decisione controversa, che le condizioni che l’autorizzavano ad astenersi dall’adottare una siffatto ordine erano soddisfatte, mentre non era onere della Scuola Elementare Maria Montessori provare dinanzi al Tribunale l’esistenza di modalità alternative che consentissero il recupero, anche solo parziale, degli aiuti di cui trattasi. In tali circostanze, il Tribunale non poteva limitarsi ad affermare che, dinanzi ad esso, la Scuola Elementare Maria Montessori non era riuscita a dimostrare l’esistenza di tali modalità alternative.
[142] Sentenza della Corte del 27 giugno 2017, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania (C-74/16; v. anche comunicato stampa n. 71/17)
[143] Come ha opportunamente sottolineato Rita Pianese “l’ordinamento europeo riconosce la sovranità anche fiscale degli Stati membri dell’Unione Europea, disinteressandosi, però , del trattamento tributario degli enti ecclesiastici, il quale, specie in merito ai trattamenti fiscali di favore, può dar vita ad abusi, assumendo una rilevanza critica per il diritto comunitario esclusivamente a fronte di squilibri competitivi, deformando le condizioni di concorrenza, avvantaggiando alcuni soggetti economici a scapito di altri per ragioni non compatibili con le logiche e i principi che disciplinano il funzionamento del Mercato Unico”. Cfr. R. Pianese, Esenzioni fiscali concesse alla Chiesa, in Innovazione e Diritto, 2010, 6, 177-198.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
Avv. Alessandro Palma
Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali.
E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino.
I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali.
E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.
Latest posts by Avv. Alessandro Palma (see all)
- Gli effetti sul giudizio di divorzio della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9004 del 31 marzo 2021 - 4 April 2021
- Il diritto di libertà religiosa al tempo dell’emergenza Sars – Covid 19 - 2 April 2021
- Libertà religiosa, edilizia di culto e pianificazione urbanistica. La Corte Costituzionale censura ancora alcune disposizioni della legislazione lombarda - 6 February 2020