Il blocco dei licenziamenti individuali per Covid-19 non si applica al dirigente
Tribunale di Roma, Sez. I Lavoro, sent. 19 aprile 2021, n. 3605
La Sezione Lavoro del Tribunale di Roma ha stabilito che il blocco dei licenziamenti previsto dall’art. 46 del D.L. “Cura Italia” n. 18 del 2020 con le sue successive modifiche in proroga per il dato letterale della disposizione in questione, in una alla filosofia che la sorregge, non si applica alla figura del dirigente.
In forza, infatti, di tale normativa speciale e del tutto eccezionale, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei suoi dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 ma tale disposizione pacificamente non si applica ai dirigenti sia per espressa previsione normativa di cui al successivo art. 10, che per consolidato principio giurisprudenziale.[1]
Con questa significativa pronuncia la Prima Sezione Lavoro del Tribunale di Roma puntualizza un aspetto purtroppo molto rilevante, e decisamente doloroso, dell’attuale situazione pandemica che stiamo ancora vivendo poiché va ad escludere dal novero delle categorie dei lavoratori beneficiari del noto blocco dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo quella dei dirigenti.
Non si tratta di decisione di poco conto poiché è evidente come tale categoria, sia pure contraddistinta da prerogative di funzione e di retribuzione del tutto particolari ed atipiche per la loro indiscussa vantaggiosità, raggruppi comunque dei lavoratori, anche di una certa esperienza e di marcata professionalità, che in questo particolare frangente non sono sempre di facile ricollocazione sul mercato del lavoro.
Le motivazioni, tuttavia, addotte dai Giudici romani, sebbene si tratti pur sempre di una sentenza di merito che oltretutto succede ad altro provvedimento dello stesso Tribunale di Roma di parere diametralmente opposto[2], risultano conformi al dettato normativo e soprattutto allo spirito solidaristico che il legislatore ha inteso porre a base della normativa speciale ed eccezionale di lotta alla pandemia, dal momento che il blocco in questione intanto è legittimo in quanto si accompagni sempre ad una pressoché generalizzata possibilità per le aziende, anche quelle piccole, di ricorrere agli ammortizzatori sociali, con la conseguenza che la cassa integrazione, estesa come detto a tutte le aziende, consente a queste ultime di tamponare le perdite attraverso una riduzione del costo del lavoro, permettendo nel contempo la tutela occupazionale dei lavoratori.
Secondo il Tribunale, pertanto, vi è nello spirito della legge tuttora vigente una evidente simmetria tra il blocco dei licenziamenti ed il soccorso che viene prestato dalla collettività generale mediante l’utilizzo generalizzato degli ammortizzatori sociali, resa ancora più evidente dalla speciale previsione del comma 1-bis dell’art. 46 D.L. n. 18 del 2020 del decreto Cura Italia (comma 1-bis introdotto dal successivo decreto “Rilancio” del maggio 2020), secondo la quale anche i licenziamenti per motivo oggettivo ex art. 3 L. n. 604 del 1966, già intimati prima del blocco, possono essere revocati dal datore di lavoro purché contestualmente quest’ultimo faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale.
La pacifica, perché come detto normativamente stabilita, non applicabilità, dunque, di tali ammortizzatori sociali ai dirigenti legittima il datore di lavoro, in presenza delle condizioni di legge, a poterne intimare il licenziamento poiché se così non fosse si arriverebbe all’assurdo di dover imporre all’impresa di farsi carico per detti lavoratori dei costi aggiuntivi relativi alla tutela del loro reddito e della loro occupazione senza oltretutto poter contare in alcun modo sui benefici sociali che lo stesso legislatore ha previsto a copertura di tali esborsi.
Certamente, il punto di merito della sentenza in questione è quello di aver giustamente dato puntuale applicazione ad un dato normativo, quello contenuto nell’art. 10 della Legge n. 604 del 1966 in tema di ammortizzatori sociali, che indiscutibilmente ha escluso i dirigenti da tali benefici, senza dunque addentrarsi in considerazioni e riflessioni di carattere meta-giuridico come quelle che abbiamo invece riscontrato nella precedente ordinanza dello stesso Tribunale del 26 febbraio scorso.
In quest’ultimo provvedimento, infatti, i Giudici sono pervenuti alla revoca del licenziamento intimato al dirigente con una motivazione che dai più è stata già ritenuta “sorprendente”, poiché fondata su quel criterio e concetto di solidarietà sociale che sicuramente sono ravvisabili nelle norme speciali di lotta alla pandemia ma che impropriamente sono stati poi ritenuti comuni alla figura del dirigente, addirittura esplorando questioni di presunta irragionevolezza ed iniquità dell’eventuale mancata applicazione del blocco perché assertivamente in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Ora, se è vero che da una parte la problematica in questione forse meriterà un ulteriore approfondimento anche in sedi giurisdizionali diverse da quelle del merito nelle quali essa è stata sin qui trattata, è altrettanto vero che quella stretta connessione, dal Tribunale di Roma oggi definita non a caso “simmetria” a testimonianza di una equazione quasi matematica della correlazione sussistente, tra il blocco dei licenziamenti ed il soccorso generalizzato della collettività tramite gli ammortizzatori sociali non può mai trovare applicazione per la figura del dirigente, senza con ciò scomodare fuorvianti richiami ad un dettato costituzionale che, se correttamente interpretato in tutte le sue sfaccettature, non può prescindere in questi casi da altri ed ugualmente rilevanti diritti.
Vogliamo con ciò, più esattamente, riferirci al principio di libertà ed iniziativa economica giustamente tutelato dalla Carta Costituzionale all’art. 41 ed alla intuibile sua pericolosa compromissione nel caso in cui si dovesse imporre all’impresa, soggetto economico che fa della redditività e del profitto le sue ragioni di vita produttiva, l’obbligo di conservare delle postazioni di lavoro lautamente retribuite non più confacenti alla propria organizzazione per un periodo indeterminato di tempo senza alcuna soluzione sostitutiva come invece prevista, proprio da una legge dello Stato, per tutti gli altri lavoratori.
Peraltro vi è da dire anche che proprio la Corte Costituzionale ha ritenuto, da tempo ormai, ragionevole e compatibile la debolezza della tutela legale offerta alla figura del dirigente rispetto a quella di un qualunque altro lavoratore, sul presupposto, non trascurabile, che esso dirigente sia identificabile quale alter ego dell’imprenditore nonché sull’ulteriore dato della particolare intensità del vincolo fiduciario sussistente e della peculiarità del suo trattamento economico e retributivo[3], per cui il richiamo ad una asserita contrarietà del mancato blocco alla Carta Costituzionale risulta ancora di più di difficile comprensione.
Occorre, infatti, sempre considerare, come giustamente rilevato anche dai Giudici romani, che il licenziamento individuale del dirigente intanto è prospettabile in quanto sia stato intimato nel rispetto delle condizioni normative a tal fine già espressamente previste per la tutela di questo, per cui la pronuncia in commento si segnala alla nostra attenzione anche per lo scrupolo con il quale gli stessi Giudici hanno affrontato e risolto altre tematiche connesse a quella principale, con particolare riguardo alle regole ed ai principi che sottendono alla nozione del giustificato motivo oggettivo ed all’obbligo del repechage in materia di rapporto di lavoro subordinato.
Il Tribunale, invero, ha in proposito sottolineato come questi istituti non siano applicabili alla posizione dirigenziale del lavoratore in quanto “assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro (per tutte, Cass. 05.04.2019 n. 9665 e Cass. 11.2.2013, n. 3175)”[4] ed ha altresì opportunamente evidenziato come in questi casi l’unico potere-dovere del Giudicante sia semmai quello di verificare se l’interruzione del rapporto di lavoro sia stata determinata da scelte solo discriminatorie o contrarie a buona fede dell’azienda, non potendo egli entrare nel merito delle decisioni di riorganizzazione eventualmente assunte dall’imprenditore[5].
Vi è anche da dire che oltretutto nel caso considerato, dalla lettura della sentenza e segnatamente dell’intimazione del licenziamento nella stessa pronuncia riportata testualmente si evince un atteggiamento responsabile dell’azienda resistente nei confronti del proprio dirigente ed una scelta consapevole e probabilmente anche sofferta di recesso dal rapporto di lavoro, cui è seguito un serio processo riorganizzativo finalizzato ad ottimizzare le strutture operative della compagine anche nell’ottica di un contenimento dei costi con la soppressione, da una parte, della posizione lavorativa del dirigente, ma, dall’altra, con la contestuale ridistribuzione delle funzioni facenti capo alla posizione soppressa in favore di figure aziendali già presenti[6] che ha trovato puntuale conferma nella attenta ricostruzione di tali dinamiche scaturita dall’istruzione della causa.
In definitiva, dunque, nella valutazione complessiva di tutti gli argomenti esaminati la pronuncia in commento appare, almeno a nostro parere, difficilmente confutabile sotto un profilo di stretta applicazione normativa e certamente corretta e condivisibile anche de iure condendo relativamente a quelli che sono i fondamenti ed i presupposti di base che contraddistinguono il rapporto di lavoro del dirigente, a partire dalla insopprimibile rilevanza dell’elemento fiduciario fino alla già ricordata prerogativa della “libera recedibilità” che viene pacificamente accreditata in capo all’imprenditore.
Non ci sfugga comunque mai l’aspetto umano della vicenda trattata e della fattispecie giuridica esaminata, non a caso anche da noi richiamato nella primissima parte della presente nota di commento, talmente rilevante nella drammaticità del contesto in cui viviamo da aver spinto già taluni ad invocare apertamente un “intervento dello Stato” a tutela di quella che è stata definita “di fatto l’unica categoria sociale abbandonata a sé stessa in questo momento”[7] per cui è facile pensare, salvo che questa situazione pandemica non si risolva in tempi brevi, come il dibattito sul tema non sia certamente destinato a concludersi qui.
[1] per tutte, Cass. 2.10.2018, n. 23894 e Cass. 26.10.2018, n. 27199.
[2] Vedi Trib. Roma, ordinanza 26.02.2021
[3] Vedi Corte Cost., sentenza n. 121, 06 luglio 1972
[4] Vedi anche Cass. Civ. sentenza n. 14193, 12 luglio 2016 e Corte di Appello Roma, sentenza n. 4073/2018
[5] Vedi Cass. Civ. Sez. Lav. sentenza n. 13918, 03 giugno 2013 e, conformi, nel senso della legittimità dell’assegnazione delle funzioni del dirigente licenziato ad altro dirigente anche in aggiunta alle mansioni dallo stesso già svolte, Cass. Civ. Sez. Lav. sentenza n. 20856, 26 novembre 2012 e Cass. Civ. Sez. Lav. sentenza n. 21748, 22 ottobre 2010
[6] sulla legittimità del licenziamento per esigenze di contenimento di costi con assegnazione della posizione lavorativa a dipendente neoassunto con retribuzione e grado di esperienza inferiori, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost. vedi Cass. Civ. Sez. Lav. sentenza n. 13719, 14 giugno 2006
[7] M. Carugi, “Per i dirigenti il blocco dei licenziamenti non vale più. Ora serve l’intervento dello Stato”, aprile 2021, disponibile qui https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/04/22/per-i-dirigenti-il-blocco-dei-licenziamenti-non-vale-piu-ora-serve-lintervento-dello-stato/6173259/serv
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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento.
All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento.
Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo.
Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.
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