Il caso Cappato: diritto di essere lasciati morire e diritto di essere aiutati a morire alla luce della sentenza della Corte Costituzionale

Il caso Cappato: diritto di essere lasciati morire e diritto di essere aiutati a morire alla luce della sentenza della Corte Costituzionale

Sommario: 1. Il fatto in sintesi – 2. Le questioni sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale e l’ordinanza 207/2018 – 3. La sentenza 242/2019 – 3.1 Le premesse della decisione – 3.2 I limiti alla illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. – 4. Le tematiche di rilievo strettamente penalistico: questioni di diritto intertemporale – 5. Conclusioni.

 

1. Il fatto in sintesi

Con la sentenza n. 242 depositata lo scorso 22 novembre 2019 [1], la Corte Costituzionale ha dato seguito al monito pronunciato nel 2018 con l’ordinanza n. 207[2], nell’ambito del tristemente noto “caso Cappato”.

La pronuncia in esame trae origine dalla vicenda di Fabiano Antoniani – per tutti Dj Fabo – il quale, a seguito di un grave incidente stradale nel 2014, era rimasto tetraplegico, affetto da cecità permanente e non più autonomo né nella respirazione, necessitando seppur in modo non continuativo di un respiratore, né nell’alimentazione e nell’evacuazione.

La sua condizione clinica era irreversibile.

Per tali motivi, Dj Fabo aveva maturato il proposito di porre fine alla propria vita e, nonostante i familiari e le persone care avessero tentato in tutti i modi di distoglierlo, il  ragazzo aveva costantemente ribadito la propria scelta, mettendosi anche in contatto con organizzazioni svizzere che si occupavano di assistenza al suicidio, a certe condizioni, consentita dall’ordinamento elvetico.

In questo contesto, si inserisce la figura di Marco Cappato, imputato del procedimento da cui è scaturita la sentenza in esame, per il fatto di aver accompagnato Dj Fabo in autovettura presso la clinica Svizzera in cui il 27 febbraio 2017 avveniva il suicidio dello stesso che, azionando con la propria bocca uno stantuffo, si era iniettato nelle vene un farmaco letale.

Tornato in Italia, Marco Cappato si era autodenunciato alle autorità.

Successivamente, aveva preso avvio il procedimento che ha condotto alla rimessione della questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. da parte della Corte d’Assise di Milano procedente[3] ed alla relativa declaratoria di parziale incostituzionalità della norma in parola.

2. Le questioni sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale e l’ordinanza 207/2018

La questione formulata dal giudice a quo aveva ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.:

a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;

b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

Con l’ordinanza n. 207/2018 la Corte Costituzionale avvalendosi di un strumento decisorio innovativo da taluni definito “giudizio di costituzionalità differita[4] e rilevando che la questione prospettata coinvolgesse valori di primario rilievo il cui bilanciamento necessitasse anzitutto di una eventuale scelta del legislatore nell’ottica di uno “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, aveva rinviato la decisione all’udienza del 24 settembre 2019, consentendo al Parlamento “ogni opportuna riflessione ed iniziativa” volta a colmare un evidente vuoto di tutela di valori costituzionalmente rilevanti[5].

Al Parlamento era stato dunque “concesso” il termine di circa un anno per rimuovere il vulnus costituzionale adottando la necessaria disciplina legislativa[6], monito che, tuttavia, come rilevato dalla stessa Corte, è stato disatteso[7].

3. La sentenza 242/2019

3.1 Le premesse alla decisione

È oggi principio quantomai assodato quello secondo cui rifiutare le cure sia un diritto pienamente riconosciuto dapprima dalla giurisprudenza nei caso Englaro e Welby[8] e successivamente anche in via legislativa con la legge 22 dicembre 2017, n. 2019 recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”[9] e che tale diritto trovi piena garanzia anche a livello costituzionale e sovranazionale; il medesimo principio è altresì pienamente valido quando l’interruzione delle cure porta alla morte del paziente che ne è sottoposto.

È quindi certamente ammesso che il soggetto, tramite l’esercizio di un diritto strumentale – quello di rifiutare le cure – giunga ad un risultato finale che sia la propria morte, ferma restando l’indisponibilità del bene-vita confermata anche dalla perdurante punibilità dell’omicidio del consenziente ai sensi dell’art. 579 c.p.

Purtuttavia, vi sono situazioni, quale quella verificatasi nel caso al vaglio della Corte, in cui l’interruzione delle cure, non determinando la morte imminente, cagionerebbe al paziente inumane sofferenze che lo condurrebbero comunque alla morte ma attraverso un processo lungo e doloroso e certamente non rispettoso di canoni di dignità umana.

Il caso in esame è lo specifico terreno in cui è stata riconosciuta l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’attuale sistema normativo in tema di fine-vita ed in cui l’intervento della Corte si è reso più che necessario, dinanzi all’inerzia del legislatore, al fine di colmare un vuoto di tutela che dimostra una certa arretratezza del nostro ordinamento su tali questioni [10].

Come riconosciuto dalla Corte nel caso in esame, il paziente chiedeva, non tanto di “essere lasciato morire”, quanto piuttosto di “essere aiutato a morire” asserendo che tale aiuto fosse in qualche maniera un connotato di quel rapporto di alleanza terapeutica che lega il medico al paziente nell’ambito della “procedura medicalizzata”, a cui pure la Corte fa esplicito richiamo, disciplinato dalla legge 219/2017.

La Corte rileva infatti che la legislazione vigente non consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti “non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte” ed afferma che “per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.

Ancora, riconoscendo la possibilità, che pure al paziente era stata prospettata, di essere sottoposto a sedazione profonda una volta interrotte le cure di sostegno vitale così da non provare più sensazioni e morire dopo alcuni giorni senza coscienza e volontà, la Corte fa proprio il rifiuto opposto dallo stesso Dj Fabo poiché quella modalità di porre fine alla propria vita non sarebbe stata dignitosa né per lui né per i propri cari che avrebbero dovuto assistere e condividere sul piano emotivo la straziante agonia di un corpo che inconsciamente si spegne.

Se quanto premesso è stato il punto di partenza nel ragionamento della Corte Costituzionale, è possibile  ora ricostruire il vuoto di tutela che deriva (rectius: derivava) dalla punibilità incondizionata dell’aiuto al suicidio nei termini che seguono.

Invero, se un soggetto, stando alla disciplina attuale, ha il diritto di morire rifiutando le cure – avvalendosi quindi di un diritto che, si badi, non è il diritto di morire tout court ma il diritto strumentale della libertà di autodeterminazione in ambito sanitario – non si vede perché lo stesso soggetto, che non morirebbe subito dopo aver interrotto la cura, non abbia diritto ad un trattamento che renda la sua morte, che comunque sopraggiungerebbe, meno dolorosa, più veloce e quindi più dignitosa.

Il paradosso è ancor più evidente se si consideri che l’aiuto al suicidio, anche nel caso in cui “aiutare” è sinonimo di riduzione delle sofferenze nella fase intercorrente tra il rifiuto della cura e l’exitus, ha lo stesso trattamento sanzionatorio di base della fattispecie di determinazione o rafforzo del proposito suicidario altrui.

Infine, balza agli occhi la evidente disparità di trattamento tra chi rifiutando le cure e, essendo totalmente dipendente da queste, morirebbe poco dopo e chi, ugualmente rifiutando il trattamento, ma essendone solo parzialmente vincolato e comunque vivendo in condizioni di assoluta incapacità e dipendenza dalle macchine, sarebbe costretto a subire una morte indignitosa, lenta e sofferta.

3.2 I limiti alla illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.

Tutto quanto premesso è evidentemente stato reputato illegittimo dalla Consulta che, con la pronuncia in esame, ha tratteggiato i confini entro i quali un soggetto, avvalendosi del diritto di rifiutare le cure, possa essere “aiutato a morire” in modo dignitoso, reputando la indiscriminata punibilità sancita dall’art. 580 c.p. in contrasto con gli artt. 2, 13 e 32 co. 2 Cost.

Invero, formulato in termini di assolutezza, il divieto di apportare un aiuto a morire di cui all’art. 580 c.p. conculcherebbe con il principio di dignità sociale riconosciuto ex art. 2 Cost. in capo ad ogni individuo, costituirebbe un oltraggio della libertà personale consacrata dall’art. 13 Cost. e violerebbe l’art. 32 della Carta Fondamentale che al secondo comma prevede che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, oltre che i principi sanciti a livello sovranazionale dalla CEDU, dalla Convenzione di Oviedo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[11].

Ebbene, cogliendo tutte le premesse argomentazioni,  la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

È quindi indiscutibile che la Corte non abbia riconosciuto un indiscriminato diritto di essere aiutati a morire: invero, il bene-vita è e resta (anche dopo la pronuncia in esame), intangibile ed indisponibile e a nessun individuo viene riconosciuto il diritto di pretendere, nemmeno da un medico – “alleato terapeutico”, che qualcuno permetta la sua morte.

Ebbene, la pronuncia de qua enumera innanzitutto i limiti entro i quali opera la declaratoria di parziale l’illegittimità costituzionale del 580 c.p.

In particolare, il paziente deve: a) essere un soggetto che soffra di una malattia che sia oggettivamente e clinicamente irreversibile secondo i canoni della scienza medica e che sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche; b) essere una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale senza i quali morirebbe all’esito di un processo di dolorose sofferenze; c) essersi determinato liberamente ed autonomamente rispetto al proposito suicidario; d) essere capace di intendere e volere.

A tali condizioni, poi, si affiancano quelle specifiche procedurali relative al fatto che l’esecuzione di tali trattamenti avvenga in una struttura del SSN che verifichi la sussistenza dei suddetti requisiti, previo parere del comitato etico competente per territorio.

Ebbene, al di fuori dei limiti segnati dalla Corte, l’aiuto al suicidio resta certamente un reato tipico antigiuridico e colpevole, punito con la sanzione ivi descritta.

Vale quindi la pena interrogarsi sulla ratio della scelta legislativa che, sino alla pronuncia in commento, puniva incondizionatamente l’aiuto al suicidio.

Sul punto, si può constatare, come anche riconosciuto dalla Consulta, che la ratio di tale norma affondi le sue radici nell’esigenza di tutelare i soggetti maggiormente vulnerabili da una scelta, quella di morire, che, seppur consapevole, scevra da condizionamenti ed autonoma, un ordinamento informato a principi di solidarietà sociale non può e non potrà mai avallare senza riserve.

Stante quanto premesso la Corte affronta apertamente l’obiezione formulata nei termini che seguono: se il divieto di cui all’art. 580 c.p. si pone a tutela di soggetti deboli e vulnerabili, è maggiormente vero che, soprattutto i malati irreversibili e sottoposti a grandi sofferenze psicologiche e fisiche siano soggetti bisognosi di protezione. Come si giustificherebbe, allora, la parziale incostituzionalità della norma in esame proprio con riferimento alla categoria di soggetti che per via delle loro condizioni più di tutti necessiterebbero di una tutela così pregnante?

Ebbene, la Corte supera il premesso rilievo ritenendo che, in siffatti casi quale anche quello della odierna pronuncia, si possa agevolmente osservare che “se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri[12].

Sotto questo profilo, sarebbe quindi inaccettabile la conclusione cui si addiverrebbe dinanzi alla punizione indiscriminata dell’aiuto al suicidio e relativa al fatto che un essere umano, che si trovi nelle condizioni di cui sopra e che decida di morire, abbia, in ultima analisi, un unico modo di porre fine alla propria vita, quello della morte lenta, dolorosa, sofferta e patita anche dalla persone care, senza poter accedere alla procedura medicalizzata.

4. Le tematiche di rilievo strettamente penalistico: questioni di diritto intertemporale

La declaratoria di parziale incostituzionalità, avente efficacia per il solo avvenire, è tuttavia, stando agli specifici principi elaborati in materia di diritto penale sostanziale, applicabile per il passato in quanto in bonam partem e, nello specifico, è applicabile, come poi è avvenuto nel giudizio di merito, proprio al caso Cappato dai cui fatti è scaturita la pronuncia de qua.

La Corte Costituzionale infatti ha stabilito che, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza in esame in Gazzetta Ufficiale, rispetto ai principi enucleati nella stessa e in attesa dell’intervento del legislatore, “le condizioni procedimentali in questione non possono essere richieste tal quali […]. Rispetto alle vicende pregresse, infatti, le condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte”.

Dal punto di vista intertemporale, dunque, rispetto ai fatti anteriori, “la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”.

La Corte ha altresì indicato che “occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”, devolvendo quindi al giudice la verifica della sussistenza di tali requisiti nel caso concreto[13].

5. Conclusioni

La questione affrontata dalla Corte, con le aperture che ne sono derivate, porta con sé un’ineludibile domanda: quale futuro si prospetta in tema di questioni di fine-vita?

Ippocrate di Coo definiva la medicina quale l’arte di “liberare i malati dalla sofferenza, contenere la violenza della malattia e non curare chi ormai è sopraffatto dal male, sapendo che questo non può farlo la medicina”[16].

La portata quasi profetica dell’asserto premesso è lampante, così come è chiaro il richiamo al concetto etico-filosofico di eutanasia (la dolce morte) sconosciuto al mondo giuridico nonché privo, allo stato, di un esplicito riconoscimento legislativo.

Né il legislatore, né i giudici infatti parlano mai di eutanasia o di un qualche diritto ad essa collegata, quale il diritto “di morire” o di “essere aiutato a morire” comunque declinati.

Tuttavia, le pronunce Welby, Englaro e la recentissima sul caso Cappato hanno messo in luce la necessità di superare una ingiustificata chiusura, soprattutto legislativa, nei confronti di temi legati al fine-vita, chiusura che ha reso necessario l’intervento, in chiave del tutto innovativa, da parte della Corte Costituzionale.

Diritto di vivere e diritto di morire sono evidentemente legati da quella dignità che deve sempre e comunque connotarli e questo sembra essere il punto di partenza del ragionamento della Corte Costituzionale nella sentenza annotata.

Ammettere un soggetto, che si trovi in specifiche condizioni di salute, ad essere agevolato nel percorso che lo condurrebbe alla morte non significa, certamente, l’aver reso lecito l’aiuto al suicidio che resta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non ne è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale.

Invero, il bene-vita resta un bene primario ed indisponibile per definizione, come testimoniato dalla persistenza dell’art. 579 c.p. non toccato dalla pronuncia di incostituzionalità in esame. Come sottolineato già da attenta dottrina, infatti, si tratta di una decisione “non contro la vita umana”, bensì “che riconosce la finitezza della vita umana e delle forze dell’essere umano in sua difesa”[17].

L’apertura generata dall’intervento della Corte Costituzionale, è invece relativo alla disponibilità del diritto all’autodeterminazione in ambito sanitario e terapeutico quand’anche da tale disponibilità derivi la morte della persona a cui tale diritto fa capo.

La condotta di chi agevola un cammino nel sentiero che conduce alla morte consapevole, che comunque sarebbe percorso anche se a passo più lento e sofferto, non può che essere qualificata quale ausilio, umanamente comprensibile, volto a velocizzarlo alla stregua del principio fondamentale di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 della Carta Fondamentale.

Invero, lasciare le tematiche di fine-vita in un limbo di oscurità ed incertezza tale da richiedere un’intercessione “regolatrice” del caso concreto da parte della Corte Costituzionale che sino all’ultimo aveva lasciato spazio ad un intervento del Parlamento, manifesta, probabilmente, un approccio incauto rispetto a questioni che, più di altre, necessiterebbero di un puntuale intervento del legislatore in un ambito in cui disquisire di categorie dogmatico-sostanziali appare forse connotato da mancanza di sensibilità ma che, evidentemente, non può essere differito al prossimo “caso Cappato”.

 

 


[1] Corte Cost., 25 settembre 2019 (dep. 22 novembre 2019) n. 242.
[2] Corte Cost., 16 novembre 2018, n. 207.
[3] La questione veniva rimessa alla Corte Costituzionale da parte della Corte d’Assise di Milano con l’ordinanza del 14 febbraio 2018.
[4] M. Bignami, “Il caso Cappato alla Corte Costituzionale: un’ordinanza di costituzionalità differita” in Questione giustizia, 19 novembre 2018.
[5] Sul punto, cfr. C. Cupelli, “Il caso cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte” in Dir. pen. cont., 3 dicembre 2018. L’A. sottolinea quanto posto in luce dalla Corte, già a partire dall’ordinanza in esame: “come la tesi dell’illegittimità costituzionale, sostenuta dalla Corte d’Assise di Milano, non possa essere condivisa “nella sua assolutezza” (§ 4); l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è pertanto ritenuta di per sé incompatibile con la Costituzione, trovando essa anzi una perdurante giustificazione (anche nell’ipotesi di chi ne agevoli «in qualsiasi modo» l’esecuzione”) nella finalità di “proteggere il soggetto da decisioni in suo danno”, creando intorno al soggetto ‘debole’ una sorta di “«cintura protettiva», inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui” (§ 4).”
[6] Rispetto a tale “tecnica” decisoria, cfr. par. 2.5 della sentenza che si annota. La Corte riferisce che tale modalità di decisione sia l’estrinsecazione di “propri poteri di gestione del processo costituzionale […]. In questo modo si è lasciato al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità, ma si è evitato che, nel frattempo, la  norma potesse trovare applicazione. Il giudizio a quo è rimasto, infatti, sospeso.
[7] La Corte Costituzionale, al par. 3, prende infatti atto dello stallo legislativo relativo alle criticità prospettate nell’ordinanza del 2018: “Deve però ora prendersi atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Né, d’altra parte, l’intervento del legislatore risulta imminente. I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di vario taglio, sono rimasti, infatti, tutti senza seguito. Il relativo esame – iniziato presso la Camera dei deputati, quanto alle proposte di legge A.C. 1586 e abbinate – si è, infatti, arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza che sia stato possibile addivenire neppure all’adozione di un testo unificato.
[8] Il riferimento è alla sentenza della Cassazione del 2007 relativa alla vicenda Englaro con cui la Corte aveva autorizzato la sospensione di nutrizione e idratazione artificiale della paziente incapace (Cass. Sez. I civile, 4 ottobre 2007, in Guida dir., n. 43/2007, p. 29 ss.) e a quella con cui il GUP presso il Tribunale di Roma aveva prosciolto l’infermiere dall’imputazione (coatta) di omicidio del consenziente (GUP presso il Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007, n. 2049, in Cass. pen., 2008, p. 1791 ss.). Per una più ampia disamina dei due provvedimenti cfr.  C. Cupelli, “Diritti del paziente e doveri del medico nelle “scelte di fine vita”, in Crit. dir., 2011, p. 274 ss.
[9] Per un’attenta disamina immediatamente successiva alla legge de qua cfr. C. Cupelli, “Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: i risvolti penalistici” in Dir. pen. cont. Fasc. 12/2017, 123 ss.
[10] Tale assunto argomentativo, era già stato individuato nell’ordinanza 207/2018 al par. 9: “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari […], non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. Nella sentenza in commento, il riferimento è al par. 2.3 nella parte in diritto.
[11] Per alcuni interessanti rilievi critici sull’art. 580 c.p. cfr. M Donini “La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale”, in  Riv. it. med. leg. (e del dir. in campo sanitario) 2016, 555 ss.
[12] Parr. 2.3 e 5.
[13] Cfr. par. 7.
[14] Si fa specifico riferimento, in primis, alle note sentenze SS.UU, 11.9.2002 n° 30328, Franzese e SS.UU. 24.4.2014 (dep. 18.9.2014) n. 38343 relativa al caso TyssenKrupp.
[15] Nel senso dell’inquadramento nell’ambito del paradigma della responsabilità omissiva (art. 40 co. 2 c.p.) della condotta del medico che stacca il respiratore cfr. F. Viganò, “Esiste un diritto di essere lasciati morire in pace? Considerazioni in margine al caso Welby”, in Dir. pen. e proc., 2007, 7; C. Cupelli, “Il diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico (di non perseverare). Un tentativo di lettura giuridica del caso Welby”, in Cass. pen, 2008, 1825. Diversamente, per un inquadramento delle predette condotte in senso naturalisticamente e giuridicamente attive si veda, inter alia, M. Donini, “Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno “spazio libero dal diritto”, in Cass. pen. 2007, 909 ss.; D. Pulitanò, “Doveri del medico, dignità di morire, diritto penale”, in Riv. it. med. leg., 2007, 1217 ss.; A. Taruffo, “Rifiuto di cure e doveri del medico” in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 467; A.  Vallini, “Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico”, in Dir. pen. e proc. 2008, 71 ss.
[16] Ci si riferisce all’opera Epidemie, I,12,5.
[17] F. Viganò, “Riflessioni sul caso di Eluana Englaro”, in Dir. pen. e proc. 2008, 8, 1035.

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