Il concetto di “onerosità indiretta” nei contratti pubblici. Le differenze tra il diritto amministrativo e civile, alla luce dei recenti indirizzi giurisprudenziali

Il concetto di “onerosità indiretta” nei contratti pubblici. Le differenze tra il diritto amministrativo e civile, alla luce dei recenti indirizzi giurisprudenziali

Sommario: 1. Una premessa sulla questione problematica – 2. Ipotesi peculiari – 3. L’interpretazione civilistica della questione

 

1. Una premessa sulla questione problematica

In via preliminare, al fine di una più completa comprensione della problematica ivi esposta, occorre disaminare brevemente i principi generali in materia di causa negoziale, per poi osservare come gli stessi si declinino in materia di contrattualistica pubblica. Convenzionalmente nel diritto contrattuale comune si distingue, quanto alla causa, tra negozi a titolo gratuito e a titolo oneroso, a seconda che la prestazione offerta sia corredata, o meno, da un prezzo, quale controprestazione per il bene o il servizio proposto. I concetti di onerosità e gratuità, in realtà, non trovano un preciso riscontro nel codice civile vigente, bensì nel codice del 1865: l’art. 1101 c.c. prev., infatti, qualificava come onerosi quei contratti in cui una parte intenda trarre un vantaggio a titolo di “equivalente”[1], mentre come gratuiti quelli per cui una parte miri a procurare un vantaggio all’altra senza tal equivalente. Questa classificazione, comunque, è confermata indirettamente nel codice attuale dalla disciplina dei singoli contratti giacché insita nella causa o, altrimenti, nello schema-tipo degli stessi (es. la donazione).

Oggi, dunque, l’onerosità consiste nel rapporto che intercorre tra un “sacrificio” e un “vantaggio”, ossia in un atto di temporaneo depauperamento, finalizzato a un contemporaneo o successivo arricchimento: così nel contratto di vendita, per esempio, l’alienante si priva di un bene (depauperamento temporaneo) per un profitto; o, ancora, nel contratto di prestazione d’opera la parte si priva di tempo e sforzi (fisici e/o mentali) in cambio anche qui di un vantaggio successivo. Pertanto, a una diminuzione patrimoniale in senso stretto (la perdita di un bene) o lato sensu (l’impiego di tempo e attività fisiche o intellettuali altrimenti redditizie) consegue un incremento patrimoniale dello stesso soggetto (il prezzo del bene o della propria attività).

Ebbene, alla luce soprattutto della corretta qualificazione di determinati contratti pubblici, la domanda che qui si pone è se l’incremento in tal modo ottenuto debba essere solo “diretto” ovvero anche “indiretto”, ossia conseguito da vantaggi non direttamente raggiunti tramite una controprestazione della controparte: può, in tal senso, un contratto privo di controprestazione – a titolo, quindi, gratuito – essere qualificato come oneroso in presenza di vantaggi indiretti? Tale questione (sulla rilevanza della cd. onerosità indiretta), apparentemente teorica, risulta, in verità, di rilievo strettamente pratico laddove si osservi che solo i contratti a titolo, per l’appunto, oneroso, sono assoggettati al regime di evidenza pubblica – o, comunque, all’obbligo di una gara “informale”[2] – prevista dal d.lgs.n.50 del 2016, in considerazione soprattutto della natura tipicamente onerosa dello stesso appalto[3].

2. Ipotesi peculiari

Questo problema si è posto, in particolare, in alcune tipologie di contratto pubblico che, pur non comportando un esborso di denaro per la Pubblica Amministrazione, generano un guadagno indiretto per l’operatore economico; nei contratti cd. di sponsorizzazione, specialmente, l’impresa privata (sponsor) esegue una prestazione, a proprie spese, a favore della P.A. (sponsee), ottenendone in cambio un ritorno pubblicitario: si ritiene, dunque, che tale rapporto da un lato non sia “finanziariamente oneroso” per l’Amministrazione mentre dall’altro generi comunque un interesse economico per l’operatore privato[4]. Tale questione è stata affrontata di recente dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato[5], in merito precipuamente alla natura del contratto di sponsorizzazione, il quale ha stabilito che, in virtù proprio dell’esistenza di un interesse economico attivo per l’impresa sponsor, tale negozio deve essere qualificato comunque a titolo oneroso; la controprestazione, infatti, sarebbe costituita dalla spendita dell’immagine, ossia dalla possibilità concessa all’impresa di accostare il proprio nome all’opera di titolarità pubblica.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, la natura non gratuita di tale rapporto obbliga la P.A. all’indizione di una gara che rispecchi i principi previsti dai Trattati, in materia specialmente di obblighi di trasparenza, pubblicità, imparzialità e non discriminazione tra gli operatori concorrenti, pur non rendendo necessario l’adempimento di una gara formale, tra l’altro escluso dallo stesso art.19 del codice dei contratti pubblici attualmente vigente.

Un ulteriore esempio di tale problematica si è avuto, in passato, per la qualifica del contratto cd. di brokeraggio, ossia lo strumento attraverso il quale la P.A. affida a una società qualificata o a dei professionisti un servizio di consulenza e collaborazione in materia assicurativa. Il problema della qualifica a titolo oneroso o gratuito dello stesso sussisteva, soprattutto nel vigore del codice previgente (d.lgs. 163/2006), a causa dell’assenza di una retribuzione contestuale al servizio di consulenza: laddove, infatti, l’attività di brokeraggio comprenda sia un’attività di assistenza pre-negoziale sia la gestione delle polizze assicurative per conto dell’ente stesso, il pagamento della prestazione del broker rimane a carico della compagnia di assicurazione. Quest’ultima obbligazione, a cui la società è tenuta, corrisponde, difatti, ad una percentuale sui premi assicurativi pagati all’Amministrazione assistita: nella pratica, la suddetta provvigione, pagata dalla compagnia assicuratrice al broker viene poi trasferita, tramite un “caricamento”, sullo stesso premio assicurativo. Il servizio di brokeraggio per la P.A. viene, pertanto, a configurarsi come un contratto a “onerosità indiretta” e non, per contro, gratuito strictu sensu (e ciò a prescindere, tra l’altro, dalle espressioni usate dalle parti nel testo contrattuale).

L’elemento specializzante del negozio, quindi, consiste nel fatto che l’intermediario assicurativo è vincolato con la P.A. appaltante mediante un contratto che ha per oggetto un’attività di consulenza, il cui corrispettivo, tuttavia, è pagato dalle compagnie di assicurazione; tale clausola di “brokeraggio” viene, a tal fine, imposta alle società assicuratrici al momento della stipula del contratto di assicurazione, da parte dello stesso ente pubblico[6]. La giurisprudenza ormai prevalente[7], dunque, qualificando tale negozio come oneroso e, in particolare, inquadrandolo nella categoria delle prestazioni di servizi, ne attribuisce l’assoggettamento alle normali procedure di evidenza pubblica.

Da queste fattispecie è possibile, perciò, trarre delle considerazioni generali che ricalcano, in parte, l’indirizzo giurisprudenziale consolidato: il Consiglio di Stato, infatti, ormai da tempo[8], ha delibato sull’obbligatorietà delle procedure di gara ogniqualvolta che la P.A. attribuisca ad un operatore economico un’opportunità di guadagno rilevante per la logica di mercato; anche di recente, inoltre, lo stesso Giudice ha affermato[9] che « anche un affidamento concernente servizi a titolo gratuito configura un contratto a titolo oneroso, soggetto alla disciplina dei Codice dei contratti pubblici » in quanto « la garanzia di serietà e affidabilità (…) non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo economico (…) ma può avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile ».

Per comprendere meglio tale indirizzo si può allora, come sopra accennato, trarre delle considerazioni attingendo ai principi di diritto sostanziale: sebbene il Consiglio non lo abbia chiaramente espresso, la gratuità apparente (o onerosità indiretta) di tali contratti si giustifica nel fatto che non tutti i contratti a titolo gratuito costituiscono atti di “liberalità”. Quest’ultimo concetto, infatti, si ricollega a quelle prestazioni che un soggetto compie al solo scopo di trasferire parte della propria ricchezza (in termini ovviamente non solo di denaro) a un altro soggetto, senza alcun beneficio par ricochet, di rimbalzo.

La liberalità, allora, costituisce un quid pluris rispetto alla gratuità, ben potendo da essa conseguirsi comunque un vantaggio per il prestatore, come avviene, per esempio: nella fornitura gratuita di alcuni dispositivi elettronici, con la prospettiva successiva dell’acquisto di materiale necessario per il loro corretto utilizzo; ovvero anche nell’accesso alle reti televisive private che sebbene non finanziariamente onerose per lo spettatore, comportano comunque un profitto per il gestore della rete attraverso le pubblicità. Anche nel diritto civile, tra l’altro, è stata teorizzata una figura affine all’onerosità indiretta, la c.d. gratuità interessata; con questa espressione, infatti, si è voluta far emergere la causa autentica di un negozio, contro quella solo apparente. Si pensi, per esempio, alla remissione del debito di cui all’art. 1236 c.c., che può inserirsi in una più complessa sistemazione patrimoniale[10], tale da renderla essenzialmente onerosa.

Per concludere, integrando i principi giurisprudenziali anzidetti con le considerazioni sopra svolte, si può ritenere obbligatoria, per la P.A., l’indizione di una gara ad evidenza pubblica ogniqualvolta la prestazione dell’operatore, laddove non anche onerosa, si possa qualificare solo in termini di mera gratuità ma non di liberalità. Tenendo in considerazione questo principio, allora, non sembra correttamente posta la questione dapprima indicata: ossia, se un contratto privo di una materiale controprestazione – come la sponsorizzazione – possa qualificarsi come oneroso in presenza di vantaggi solo indiretti. Il problema, difatti, non è se sia possibile convertire concettualmente un contratto gratuito in oneroso – sulla base, tra l’altro, di mere esigenze di operatività degli obblighi di gara – bensì comprendere se nel contratto gratuito in questione l’unica prestazione costituisca anche un atto di liberalità: se così fosse, l’obbligo per l’Amministrazione di indire una gara (formale o informale) dovrà ritenersi escluso.

Più che risolvere, allora, la questione attraverso una trasformazione – quasi forzosa – della causa negoziale di tali contratti pubblici, sarebbe forse più prudente indagare sull’intento dell’operatore economico, verificando che non siano in gioco contro-vantaggi che possano essere apprezzati nell’economia di mercato: ossia ricercando il quid pluris della liberalità.

3. L’interpretazione civilistica della questione

La ricerca di questo intento avviene frequentemente in ambito civilistico allo scopo di individuare, tra i diversi atti a titolo gratuito, quelli caratterizzati dall’animus donandi. L’art. 809, co.1, c.c., difatti, amplia il novero delle donazioni agli “atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c.” ossia a forme di donazione “indiretta”. Questa nozione, per la giurisprudenza, comprende una serie di atti eterogenei con cui il donatario acquista il donatum attraverso l’uso strumentale di negozi giuridici diversi dalla donazione: essi, in particolare, conservano la causa loro propria, relegando l’intento donativo nell’area dei motivi[11]. Infatti in alcuni casi, per l’individuazione – peraltro non facile – delle donazioni indirette, è necessario indagare sul concreto intento delle parti, poiché la gratuità non è sufficiente.

Un esempio di questo tipo concerne l’adempimento del terzo di cui all’art. 1180 c.c., che la giurisprudenza a lungo qualificava sulla base del rapporto – oneroso o gratuito – tra creditore e debitore; solo successivamente le Sezioni Unite[12] hanno collocato il parametro di riferimento, per la natura dell’adempimento, sul diverso rapporto tra il terzo e il debitore, ossia verificando l’esistenza di una controprestazione a favore dello stesso solvens. Indagare, allora, sul concreto intento di questi può essere utile al fine di verificare la possibile sussistenza di una donazione indiretta; qualora il terzo non sia vincolato, di fatto, da un accordo col debitore potrebbe adempiere anche animo donandi, e non solo solvendi[13]. Per altri, ai fini della qualificazione in termini di donazione, il terzo dovrebbe rinunciare a esercitare l’azione di surrogazione nei confronti del debitore[14].

Un altro atto, intrinsecamente gratuito ma solo eventualmente connesso a un intento liberale, è la rinunzia c.d. abdicativa, con la quale il titolare dismette un proprio diritto reale o di credito senza un contestuale effetto traslativo. In particolare, si è posto in dottrina il problema di qualificare questo atto in termini di donazione indiretta, laddove sussista un individuo che, in soggezione rispetto al rinunziante, si avvantaggi di tale abdicazione; si pensi, per esempio, al rapporto tra i fondi dominante e servente e alla rinunzia del primo alla servitù sul secondo. La dottrina[15], allora, ha evidenziato che, qualora l’intento sia quello di arricchire il beneficiario attraverso il proprio impoverimento, l’atto potrà qualificarsi effettivamente come donazione indiretta.

Concludendo, dunque, appare utile beneficiare dei dibattiti e delle soluzioni maturate anche in ambito civilistico così da tentarne “l’importazione” in materia di contrattualistica pubblica. Alla luce di questo confronto non sembra allora sufficiente verificare se il contratto stipulato con la p.a. sia oneroso o gratuito, quanto piuttosto è necessario discernere, in seno alla gratuità, l’eventuale intento liberale dell’impresa contraente. Solo in presenza di questo fattore, potrà essere esclusa l’obbligatorietà di una procedura di evidenza pubblica.

 

 


[1] Il termine «equivalente» è utilizzato dall’art. 1101 del cod. del 1865
[2] Si indica con il termine “gara formale” la procedura ad evidenza pubblica stabilita dal nuovo codice dei contratti pubblici mentre con l’espressione “gara informale” la diversa procedura di selezione, ispirata ai principi trasparenza e non discriminazione, prevista per gli altri contratti esclusi dallo stesso codice.
[3] V. art. 3 d.lgs n. 50/2016
[4] R.Chieppa, R.Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, 2018, pag. 752
[5] Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017 n. 4614
[6] V. Viti, Di necessità, virtù: esigenze pubbliche e contratti atipici della pubblica amministrazione, maggio 2017, in https://www.italiappalti.it/leggiarticolo.php?id=3447#_ftn72
[7] Si veda da ultimo: Consiglio di Stato, sez. V, 12 ottobre 2016, n. 4226
[8] Consiglio di Stato, sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 30
[9] Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017 n. 4614
[10] Bocchini-Quadri, Diritto privato, Giappichelli, 2018, pag.713
[11] Cass. n. 526/1979
[12] Cass., Sez. Un., n.6538/2010
[13] D’Ettore-Ermini, Donazioni indirette in “Le successioni e le donazioni”, a cura di N. Lipari e P. Rescigno, Giuffrè, p.471
[14] Carnevali, Le donazioni, in “Tratt. di diritto privato”, a cura di P. Rescigno, Torino, 2000, p. 448
[15] Palazzo, Le donazioni indirette, Torino, 2001, p.675

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Avvocato Amministrativista. Già tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tar Lazio, sede di Roma. Laureato in Giurisprudenza presso l'università La Sapienza di Roma, ove ha conseguito anche il diploma di specializzazione per le professioni legali.

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