Il concorso del terzo nella fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni
Cass. pen., Sez. Un., sent. 16 luglio 2020, n. 29541
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte concerne la vicenda di tre imputati responsabili di concorso in tentata estorsione aggravata, i quali presentavano ricorso lamentando l’erronea qualificazione giuridica dei fatti accertati cui la Corte d’Appello era pervenuta, considerato che uno di essi vantava una pretesa giuridicamente tutelata nei confronti delle persone offese e che le condotte poste in essere erano finalizzate al raggiungimento di tale pretesa. Il ricorso veniva assegnato alla Seconda Sezione penale della Corte la quale, rilevando il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine alla distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui agli artt. 392 c.p. e 393 c.p. e quello di estorsione all’art. 629 c.p., rimetteva le seguenti questioni giuridiche alle Sezioni Unite:
1. se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione si differenziano in relazione all’elemento oggettivo o in relazione all’elemento psicologico, e in tale evenienza, come debba essere accertato tale elemento;
2. se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato comune o come reato proprio;
3. se possa essere configurato il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Le Sezioni Unite evidenziano come la ratio dell’incriminazione di cui agli articoli 392 c.p. e 393 c.p. risiede nel monopolio della funzione giurisdizionale nella risoluzione delle controversie sorte tra i privati evitando che gli stessi si facciano giustizia da sé: l’oggetto della tutela andrebbe ravvisato, dunque, nell’interesse dell’Autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza e minaccia alle persone: nel reato previsto dall’art. 392 c.p. ricorrono quasi sempre gli estremi del danneggiamento mentre in quello previsto dall’art. 393 c.p. gli estremi della violenza privata: il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, però viene punito meno gravemente dei delitti in esso contenuti e la ragione risiede nel fatto che l’agire nella convinzione di esercitare il proprio diritto è meritevole di un’attenuazione del trattamento sanzionatorio. Tale fattispecie, tuttavia, non si pone in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione in quanto trova la sua ragione nella tutela di tale interesse. Pertanto, il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è qualificato dalla Suprema Corte come reato proprio. A tale qualificazione, non osta il fatto che gli articoli in questione fanno riferimento a “chiunque” in quanto l’agente è solo colui che sarebbe legittimato a ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto. “Per confutare l’assunto appare sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente “propri”, il soggetto attivo è normativamente indicato in “chiunque”: si pensi, per tutti, alla falsa testimonianza ed addirittura all’incesto.” [1]
Chiarita la natura di reato proprio della suddetta fattispecie, le Sezioni Unite procedono ad affrontare la questione se si tratti o meno di reati propri esclusivi o di “mano propria”. Secondo l’orientamento dominante nella giurisprudenza, i reati di cui agli articoli 392 c.p. e 393 c.p. rientrano tra i reati propri esclusivi o di mano propria, caratterizzandosi per una condotta tipica posta in essere da un soggetto qualificato, ossia dal presunto creditore. Quanto appena detto troverebbe conferma nella lettera della legge “Chiunque si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo” il che implica che quando la condotta venga posta da un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, non sarebbe integrato il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. A riprova di tale assunto, si sottolinea che l’oggetto giuridico di siffatta fattispecie, posta nell’interesse statuale alla risoluzione delle controversie, non potrebbe tollerare l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisce allo Stato. In posizione contraria si attesta la dottrina secondo cui ” l’espressione “farsi ragione da sé medesimo” significa unicamente realizzare con le proprie forze quella pretesa che l’agente ritiene giusta, dunque farsi giustizia da sé.
La Corte rileva che non avrebbe alcuna efficacia dirimente l’avverbio “arbitrariamente”: sebbene i reati di cui agli articoli 392 c.p. e 393 c.p. siano reati propri, essi non possono tuttavia dirsi esclusivi, ammettendone pertanto l’estensione al terzo concorrente nel reato della disciplina da questi prevista.
Quanto al rapporto intercorrente tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la Corte evidenzia un contrasto giurisprudenziale. Secondo un primo orientamento, il criterio differenziale consiste nell’elemento intenzionale, in quanto nell’estorsione l’agente vuole procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, invece, il reo agisce perché vuole conseguire un’utilità che ritiene gli spetti senza adire l’Autorità giudiziaria, pur potendosene avvalere. In particolare, l’elemento discretivo risiede nell’aspetto psicologico: nel reato di cui all’art. 629 c.p. l’gente vuole conseguire un profitto nella consapevolezza che questo non gli spetta, mentre nei reati di cui agli articoli 392 c.p. e 393 c.p., agisce nella convinzione, anche se infondata, di esercitare un preteso diritto. Un secondo orientamento, invece, ha rilevato l’elemento discretivo nella materialità del fatto: nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa ma risulta funzionale all’esercizio di un preteso diritto rispetto al quale si pone come strumentale non potendo manifestarsi in modo sproporzionato e mediante attacchi gratuiti. Diversamente, qualora la violenza e la minaccia si estrinsechi in forme che eccedono rispetto all’intenzione di far valere un preteso diritto si configura il delitto di estorsione in quanto la coercizione della volontà è finalizzata a perseguire un profitto che assume i caratteri dell’ingiustizia.
Le Sezioni Unite ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano in base all’elemento psicologico. Nel delitto di cui all’art. 393 c.p. l’agente persegue un profitto nella ragionevole convinzione di esercitare un preteso diritto e, dunque, di soddisfare una pretesa che avrebbe potuto essere oggetto di azione giudiziaria mentre nel delitto ex art. 629 c.p. l’agente vuole conseguire un profitto nell’assoluta consapevolezza della sua ingiustizia: “all’uopo occorre (…) che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno. Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato.” [2]
Per potersi configurare il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni deve sussistere una pretesa non sfornita di una possibile base, poiché l’agente deve agire nella ragionevole convinzione della legittimità della pretesa, suscettibile di formare oggetto di contestazione giudiziale. Dunque, “ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente.” [3] Decisivo rilievo, ai fini della distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione è dato dall’esistenza o meno di una pretesa tutelata giudizialmente: ” nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, perché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli”.[4]
Pertanto, non risulterebbe possibile un concorso formale tra le due fattispecie in questione risultando le stesse alternative sotto il profilo psicologico. La condotta violenta e minacciosa infatti, appare elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie ma, mentre ai fini dell’integrazione del delitto di estorsione è richiesta, oltre alla costrizione della vittima, anche il conseguimento da parte dell’agente di una prestazione non dovuta da cui lo stesso ne trae profitto con il conseguente ingiusto danno in capo alla persona offesa, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la violenza e la minaccia sono vote ad ottenere la prestazione dovuta, giudizialmente esigibile.
La Cassazione ritiene che l’elemento psicologico del reato debba essere accertato secondo le ordinarie regole probatorie, infatti la prova del dolo “in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente”. [5] Si configura il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente esercita una pretesa mediante violenza o minaccia nei confronti di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio “ dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (…) poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale.” [6]
Le Sezioni Unite, con riguardo alla questione se possa configurarsi il concorso dell’extraneus nel reato proprio di esercizio arbitrario delle proprie ragioni commesso con violenza o minaccia, affermano che a risultare determinante è la circostanza che il terzo abbia o meno perseguito un interesse proprio: in questa evenienza risponderà di concorso in 629 c.p. poiché vi è l’elemento psicologico di voler realizzare un ingiusto profitto. Nel caso in cui, invece, il concorrente nel reato abbia perseguito soltanto l’interesse del creditore risponderà di concorso nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Per citare le parole della Corte “ se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno in concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.[7]
Per rispondere ai quesiti posti dalla Sezione rimettente, le Sezioni Unite affermano che:
1) la differenza tra il delitto di estorsione e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni risiede nell’elemento psicologico;
2) il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è un reato proprio;
3) affinché sia configurabile il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è necessario che il terzo si limiti a contribuire a realizzare la pretesa dell’agente senza perseguire alcun interesse proprio.
[1] Cass. Pen. Sez. Unite n. 29541 depositata il 23 Ottobre 2020
[2] Cass. Pen. Sez. Unite, cit.
[3] Cass. Pen. Sez. Unite, cit.
[4] Cass. Pen. Sez. Unite, cit.
[5] Cass. Pen. Sez. Unite, cit., si veda altresì anche Sez. 1, n. 39293 del 23.09.2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 11928 del 29.11.2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012
[6] Cass. Pen. Sez. Unite, cit., si veda in tal senso anche Sez. 2, n. 16658 del 16.01.2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28.10.2015, Immordino, Rv. 264967, Sez. 2, n. 33870 del 6.05.2014, Cacciola, Rv. 260344.
[7] Cass. Pen. Sez. Unite, cit.
Sitografia
Sezioni Unite sulla natura dell’ esercizio arbitrario delle proprie ragioni (diritto.it)
S. Bernardi, Le SSUU su esercizio arbitrario ed estorsione: una pronuncia risolutiva? | Sistema Penale | SP
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.