Il concorso esterno in associazione mafiosa dell’avvocato difensore

Il concorso esterno in associazione mafiosa dell’avvocato difensore

La questione giuridica qui in esame attiene alla configurabilità o meno della fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa a carico dell’avvocato difensore. Ma prima occorre fare delle premesse. Il concetto di concorso esterno nei reati associativi è emerso nel XIX secolo ma ha iniziato ad assumere una notevole importanza, ed una certa popolarità, solo recentemente, e ciò soprattutto a seguito delle sempre più diffuse esigenze di politica criminali. Istanze politiche, ovvero, che hanno nel loro complesso dato luogo all’insorgere di una questione giuridica avente ad oggetto l’esonero, o meno, della punibilità ascrivibile alla categoria ricomprendente i cosiddetti “colletti bianchi”, intendendosi per tali i professionisti quali ad esempio gli avvocati, i notai, i commercialisti, gli imprenditori, etc., che non partecipino concretamente ad associazioni per delinquere di stampo mafioso, ma che, tuttavia, pongano in essere condotte e comportamenti vari che finiscono con il fornire occasionali contributi che favoriscono le dette associazioni mafiose.[1]

In relazione al tema del concorso esterno in associazione mafiosa, si deve innanzitutto rilevare che ad oggi il legislatore italiano non ha ancora emanato una norma che all’interno del sistema penale lo preveda espressamente. Infatti, il concorso esterno in associazione mafiosa può dirsi essere stato generato, nel nostro ordinamento, dalla giurisprudenza. Una giurisprudenza, che può definirsi creativa, la quale, realizzando una sorta di connubio tra due norme di stirpe diversa, si è basata sulle disposizioni previste dall’art. 110 cod.pen (norma di parte generale) e dall’art. 416 bis cod.pen. (norma di parte speciale), entrando – così – in azione al fine di colmare la deficienza di criminalizzazione che affliggeva complesse fattispecie penali. Più precisamente, l’art. 110 cod.pen. si occupa di disciplinare il concorso eventuale di persone (il cd. Concursus delinquentium), secondo cui “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questa stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”. Dunque, la norma in oggetto, in altre parole, prevede un reato che è sì astrattamente monosoggettivo ma a manifestazione plurisoggettiva, realizzando in tal modo una sorta di connubio tra due norme di natura diversa, e dando vita ad una norma estremamente indeterminata che favorisce una facile violazione dei principi di determinatezza e tassatività, con una conseguente sua applicazione anche in quei casi non specificamente previsti dal legislatore.[2]

L’art. 416 del cod.pen.  disciplina e punisce l’associazione a delinquere semplice, il quale testualmente sancisce: “l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza dell’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Dalla lettura del testo si percepisce immediatamente una sorta di indeterminatezza della littera legis nell’utilizzo di termini di natura sociologica e non strettamente giuridica quali “omertà” ed “assoggettamento” come parametri definitori delle ipotesi criminose punibili, ciò insieme alla “forza di intimidazione del vincolo associativo” del metodo mafioso. Nel 1982, la cosiddetta Legge Rognoni – La Torre ha ampliato la portata dell’articolo, introducendo l’art. 416 bis al fine di rendere punibili anche altre condotte non riconducibili alle fattispecie tipiche dell’originaria norma.  La ratio sottesa a tali fattispecie incriminatrice è quella di rendere punibili condotte che, pur essendo atipiche rispetto al reato associativo di parte speciale, si palesano meritevoli di sanzione per il loro rilevante disvalore sociale, sebbene tale forma di contiguità all’organizzazione criminale è tale da consentire la sopravvivenza, il consolidamento o il rafforzamento dell’associazione malavitosa. In ultimo, appare significativo ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione richiedano per l’integrazione della fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa il dolo eventuale, configurabile allorché il soggetto, pur rappresentandosi la possibilità che il suo contributo possa sortire l’effetto di aiutare l’intera associazione, agisca ugualmente, accettando il rischio che tale risultato, ancorché non voluto, effettivamente si realizzi.[3]

Fatte queste doverose premesse di portata generale, la presente disamina ha come specifico oggetto indagine i rischi eventuali in cui può incorrere un professionista legale nell’esercizio di attività di difesa e di consulenza nei confronti di propri assistiti che siano affiliati a consorterie di stampo mafioso, con un’attenzione particolare alla distinzione tra attività illecite e lecite dell’avvocato in tutti quei casi di concorso esterno o partecipazione ad associazioni di natura mafiosa. Tale tematica, per quanto suggestiva, non può – tuttavia – essere ricompresa nella nuova prassi giurisprudenziale, dato che già precedentemente, in epoca di associazionismo politico – terroristico, vi erano sovente dei dibattiti portati avanti dalla dottrina inerenti alla figura del difensore – complice. Più precisamente, tali discussioni vertevano su quali limiti apporre per definire l’attività “ultra mandatum” del difensore, qualora poi mutasse in attività prestate in qualche modo a favore dell’associazione a delinquere di stampo mafioso, ovvero quando si può configurare la responsabilità penale in capo all’avvocato.[4]

A tal proposito, occorre innanzitutto precisare che occorre rigettare l’idea in base alla quale indistintamente ogni forma di connivenza tra avvocato e suoi assistiti che siano membri di organizzazioni criminali implichi automaticamente una contiguità con gli stessi, dando così luogo a responsabilità perseguibile per legge in capo al difensore. Si tratterebbe, infatti, solo di un “fenomeno” che rischierebbe di dare adito ad una “giurisprudenza di lotta verso atteggiamenti esasperatamente repressivi. Nelle maggior parte delle ipotesi, infatti, gli avvocati espletano il proprio mandato difensivo senza travalicare i limiti imposti dalla deontologia professionale e, di conseguenza, raramente le loro condotte possono configurarsi come contributi penalmente rilevanti ai sensi e per gli effetti degli artt. 110 e 416 bis del cod.pen., in quanto trattasi di attività rientranti nell’ambito del diritto alla difesa tutelato dall’art. 24, co. II, Cost.. Invero, nel bilanciamento tra il dovere di difesa e quello di obbedienza all’ordinamento giuridico, prevale sempre il primo, dato che il rapporto fiduciario tra avvocati ed i loro assistiti postulano una polarizzazione esclusiva dell’attività del difensore sugli interessi del proprio assistito. Sebbene occorra sottolineare che l’acquisizione di informazione sulle attività di indagine che potrebbe, in qualche modo, interessare il cliente di un difensore deve essere svolta sempre e comunque nel rispetto dei limiti di liceità delineati dall’art. 329 cod,proc.pen.. Di conseguenza, dovranno essere ritenute favoreggiatrici o integranti il reato di concorso esterno in associazione mafiosa solo quelle condotte asseritamente difensive che, per le modalità od il momento di attuazione, debbano considerarsi non giustificate dal diritto di difesa. Infatti, in questi casi il ruolo del difensore si snatura e si verifica una sorta di “solidarietà anomala” con l’indagato o imputato.[5]

Nella materia in esame è di fondamentale importanza il rispetto delle norme sia deontologiche sia processuali, richiamandoci al principio dell’indipendenza del difensore da ogni interesse personale, da ogni intrigo e da ogni influenza esterna di ogni cliente per quanto importante, da ogni condizionamento. Nel codice attuale il dovere di indipendenza è previsto all’art. 6, ai sensi del quale “l’avvocato non deve svolgere attività comunque incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense”. E proprio da ciò che derivano molte problematiche inerenti ai rapporti tra difesa tecnica, rischi di natura penale e doveri deontologici del professionista.[6]

Una prima criticità attiene al segreto professionale. Infatti, oltre alle disposizioni contenute nell’art. 622 del cod.pen. e nell’art. 200 del cod.proc.pen., emerge dall’art. 13 del Codice Deontologico Forense un dato essenziale per cui il difensore legale è sempre tenuto, nell’interesse dei propri assistiti, sia ad una rigorosa osservanza del segreto professionale, sia a tenere il massimo riserbo, sebbene con delle dovute eccezioni previste dall’art. 28 co. 4 del CDF., ovvero l’avvocato è legittimato alla divulgazione di quanto appreso nell’esercizio della propria professione se risulta necessario per la prosecuzione dello svolgimento dell’attività di difesa, per impedire la commissione di un reato di particolare gravità, per allegare circostanze di fatto in una eventuale controversia tra difensore e cliente o, infine, nell’ambito di una procedura disciplinare. In tutti i casi, comunque, la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato. È con un’applicazione sistematica delle norme suindicate che si deve cercare la soluzione giusta al fine di evitare una possibile lesione al diritto di difesa, Ciò, in sintesi, significa che laddove l’autorità giurisdizionale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 200, co. 2, del cod.proc.pen., accerti l’infondatezza della dichiarazione resa dal difensore per esimersi dal deporre, l’eventuale risposta di quest’ultimo non potrebbe integrare in nessun modo il delitto di cui all’art. 622 del cod.pen., trattandosi di una precisa disposizione impartita dal giudice per una “giusta causa”, ai sensi della fattispecie incriminatrice de qua; tuttavia, potranno essere applicate delle sanzioni disciplinari previste dagli artt. 13, 28 e 51 del Codice Deontologico Forense.[7]

Un’altra problematica riguarda, altresì, l’attività di consulenza svolta dal difensore “ante factum”, ossia precedentemente alla formale iscrizione a ruolo di un procedimento penale. In tali casi, infatti, l’associazione e la complessa rete di relazioni tipiche delle associazioni a delinquere di stampo mafioso possono finire per diventare una pericolosa ragnatela atta a “risucchiare” i protagonisti con i quali entra in contatto. [8]

Se si parla di concorso esterno, l’interesse degli avvocati penalisti si è focalizzato, di recente soprattutto sulla sentenza n. 66655/13 emessa il 14 aprile del 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo avente ad oggetto il “caso Contrada”. Secondo i giudici europei, Bruno Contrada non avrebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa in quanto all’epoca dei fatti contestati (risalenti agli decorrenti dal 1979 al 1988), la fattispecie criminosa a detta della Corte “non era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”.[9]

È, dunque, pare chiaro che è quando gli avvocati si trovino ad assistere clienti accusati di reati mafiosi che rischino di essere perseguiti per ogni loro comportamento, il quale può essere qualificato come un contributo passibile di sanzione per concorso esterno.

È necessario, allora, una fondamentale fissazione dei minimali termini, in osservanza del principio di portata generale della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, sulla punibilità della condotta posta in essere dall’avvocato. Al riguardo, occorre innanzitutto far riferimento ad una prima decisione della Corte di Cassazione, risalente al 2014, la quale ha previsto come “indice” per valutare una eventuale responsabilità penale dell’avvocato il “grado di coinvolgimento” nelle attività che sono proprie del suo cliente. Nello specifico, quindi, potrà essere considerata illecita quell’attività secondo i giudici in cui “l’avvocato si lasci coinvolgere in prima persona nelle attività del suo assistito, appiattendosi in una logica di asservimento degli interessi di quest’ultimo, abdicando così al proprio ruolo e diventando un socio in quella attività”. È così che l’avvocato, da professionista legale e consigliere finisce per diventare “consigliori”, termine mutuato dal gergo italo – americano, ovvero un consigliere di fiducia delle associazioni mafiose, il quale essendo esperto di leggi e norme varie, ha lo specifico compito di suggerire ai propri clienti quali sistemi e modalità di elusione fraudolenti porre meglio in essere per svolgere la propria attività criminosa. Così facendo, però, la sua condotta integra il reato di concorso che poi, a seconda dei casi, potrà essere interno (vero e proprio) o esterno in associazione mafiosa, sempre che ci si sia accertati che abbia abdicato al suo ruolo contribuendo con la sua attività alla conservazione, rafforzamento e realizzazione del programma criminoso dell’associazione mafiosa, oppure perché lasciandosi coinvolgere dai propri assistiti sia, a tutti gli effetti diventato un loro socio anche fornendo consigli, pareri ed assistenza contra legem. Più recentemente, vi è stata un’altra pronuncia della Cassazione, la sentenza n. 32373 del 4 giugno 2019, con la quale è stato affermato dalla Suprema Corte che “integra la condotta di concorso esterno l’attività del professionista che, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici dell’associazione mafiosa, assicuri il suo concreto impegno nell’irregolare gestione di un procedimento giudiziario, posto che il sodalizio si  rafforza comunque per effetto di quel contributo, non essendo necessario che i propositi delittuosi siano stati concretamente realizzati”. Nel caso di specie, un avvocato era stato accusato per aver svolto le sue funzioni in violazione dei doveri professionali, mettendo a disposizione ed in modo stabile la propria attività in favore degli affiliati ad un locale gestito dalla ‘ndrangheta. In tale ipotesi, la Cassazione ha, dunque, ritenuto essere integrata pienamente la sussistenza del reato de quo in quanto il difensore, sprovvisto di mandato difensivo o procedendo nell’attività cosiddetta ultra mandatum, aveva posto in essere tutta una serie di condotte illecite volte ad eludere le investigazioni e ad influenzare gli esiti dei procedimenti penali. Mentre in un’altra sentenza della Cassazione, la n. 3374  del 2005, si è rilevato un chiaro rinvio al concetto di “causalità” pre Legge Mannino bis, ovvero quando si afferma che “Non è affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante- sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si rilevi per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo”. Vengono, così, scardinati, tutti quei principi di matrice garantista sanciti dalle Sezioni Unite della Corte Suprema, con una conseguente valorizzazione, forse anche eccessiva, dell’impegno che ogni legale deve assicurare nel momento in cui accetta un mandato difensivo.[10]

Sicuramente è molto interessante rilevare che tutte le questioni esaminate, le quali partono dall’esatta individuazione dei margini di liceità nell’attività svolta dagli avvocati nell’espletamento del proprio incarico difensivo, benché non si esauriscono in ciò, finiscono sovente per essere assorbite dalla spirale della vasta casistica giurisprudenziale, nella quale si rinvengono più fatti diversi a causa dell’elevato potenziale punitivo di repressione delle strutture malavitose da parte dell’art. 416 bis del cod.proc.pen. Tuttavia, nel cercare di espandere la punibilità a più fattispecie possibili, occorre far attenzione a non ricomprendervi anche tutti quei comportamenti che per quanto siano da un punto di vista deontologico, o solo morale, scorretti, quali possono – ad esempio – essere quelle condotte di compiacenza o mera vicinanza, poi non assumono alcuna rilevanza penalistica in nessun grado di giudizio. Al riguardo sarebbe opportuno prevedere per questi ultimi comportamenti detti delle alternative misure sanzionatorie, al fine di arginare il frequente fenomeno che vede un’indiscriminata applicazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, situazione questa che potrebbe sollevare i giudici dall’onere di compiere gravi scelte selettive dall’area del penalmente rilevante e che non siano fondate su precise indicazioni normative.[11]

 

 

 

 

 


Bibliografia
 
VV., a cura di Gaetano Insolera e Lorenzo Zitelli, Il rischio penale del difensore, Giuffré Editore, Milano, 2009;
Antonio Giangrande, La mafia dell’antimafia- Prima parte, Selfpublishing, Roma, 2020;
Antonio Giangrande, Mafiopoli – Seconda parte, Selfpublishing, Roma, 2020;
Antonio Giangrande, Anno 2020, La Giustizia Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021;
Antonio Giangrande, Giustiziopoli, Seconda parte: L’Italia dell’Ingiustizia, Selfpublishing,Roma, 2021;
Antonio Giangrande, La Sicilia. Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021;
Antonio Giangrande, Roma ed il Lazio. Quello che non si osa dire, Selfpublishing, Roma,2021;
Antonio Giangrande, Gli Statisti. Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021;
Antonio Giangrande, La mafia dell’antimafia. Seconda parte, Selfpublishing, Roma, 2021;
C. Hazard – Antonio Dondi, Etiche della professione legale, Il Mulino, Bologna, 2005;
Domenico Notaro, In Foro Illicito Versari. L’abuso del processo fra dimensione etica e risposta penale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015

[1] AA.VV., a cura di Gaetano Insolera e Lorenzo Zitelli, Il rischio penale del difensore, Giuffré Editore, Milano, 2009, pp. 91-101.
[2] Antonio Giangrande, La mafia dell’antimafia- Prima parte, Selfpublishing, Roma, 2020, pp. 116 -128.
[3] G.C. Hazard – Antonio Dondi, Etiche della professione legale, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 27-39.
[4] Antonio Giangrande, Mafiopoli – Seconda parte, Selfpublishing, Roma, 2020, pp. 38-44.
[5] Antonio Giangrande, Anno 2020, La Giustizia Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021, pp. 499-505.
[6] Antonio Giangrande, Giustiziopoli, Seconda parte: L’Italia dell’Ingiustizia, Selfpublishing,Roma, 2021,  pp. 186-199.
[7] Domenico Notaro, In Foro Illicito Versari. L’abuso del processo fra dimensione etica e risposta penale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015, pp. 69-70.
[8] Antonio Giangrande, La Sicilia. Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021, pp. 348-349.
[9] Antonio Giangrande, Roma ed il Lazio. Quello che non si osa dire, Selfpublishing, Roma,2021, p. 39.
[10] Antonio Giangrande, Gli Statisti. Seconda Parte, Selfpublishing, Roma, 2021, pp. 254 -263.
[11] Antonio Giangrande, La mafia dell’antimafia. Seconda parte, Selfpublishing, Roma, 2021, pp. 501-510.

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