Il conflitto tra autorità pubblica e libertà individuale nella pandemia
Il concetto di Stato di diritto é strettamente correlato con quello di libertà individuale la cui massima garanzia risiede nel principio di legalità in forza del quale nessuno può essere punito per un fatto che non sia previsto come reato da una legge antecedente al fatto stesso.
Tale principio, ben riassunto nel brocardo nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali, oggi consacrato nell’art. 25, co. 2 Cost., ha le sue radici nell’art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, figlia della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo.
Con un semplice tratto di penna, venne fondata una nuova civiltà giuridica che segnava il tramonto dell’Antico Regime e, con esso, dei vari particolarismi in favore di una legge che fosse uguale per tutti ed espressione della volontà generale dei cittadini i quali potevano così concorrere alla formazione della legge stessa attraverso i loro rappresentanti, chiamati ad esercitare le proprie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione.
L’Occidente e, segnatamente, l’Europa hanno fatto all’umanità il dono più grande che ci si potesse aspettare: quello della libertà, riconosciuta nelle sue varie declinazioni (personale, religiosa, sessuale, economica) non come gentile concessione di un sovrano o di un organo collegiale, bensì come prerogativa connaturata alla persona e, dunque, preesistente alla nascita dello Stato e di ogni altra organizzazione collettiva.
D’altra parte, di questi tempi, si è visto come sia difficile un bilanciamento tra principio di autorità e libertà individuale, dato che per contrastare il dilagare del morbo denominato Covid-19 sono state adottate dai governi di tutto il mondo misure di carattere eccezionale che hanno limitato o addirittura soppresso, sia pure temporaneamente, libertà che si sono sempre date per scontate come quella di movimento.
Il confinamento o “lockdown”, attenuato o esteso nel tempo, tenendo conto dell’andamento della curva epidemiologica, induce a sollevare un interrogativo: entro quale misura può essere sacrificata la sfera giuridica individuale per salvaguardare quella pubblica e, con essa, l’intera collettività?
La stessa domanda si pone in ordine all’imminente campagna di vaccinazione che i governi europei, ivi incluso quello italiano, hanno annunciato per il 2021 onde neutralizzare definitivamente la pandemia, atteso che non può escludersi a priori l’obbligatorietà di codesto vaccino, qualora la facoltatività del medesimo non raccogliesse adesioni in numero sufficiente a raggiungere la c.d. “immunità di gregge”.
Lungi dal compiere valutazioni politiche, il giurista, come lo storico, dei fatti deve valutare l’oggettività, non la morale, ragion per cui va individuato il giusto punto di equilibrio tra autorità e libertà.
Certamente, un utile baricentro in questo frangente può essere l’art. 32 Cost. ai sensi del quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Da tale disposizione, anzitutto, può evincersi che la salute é un bene giuridico al contempo individuale e collettivo o a titolarità diffusa, quindi é il terreno ideale di incontro e, se del caso, di conflitto tra potere statuale e libertà del singolo.
In secondo luogo, solo per legge può essere imposto un determinato trattamento terapeutico, ma sempre nel rispetto della persona che lo riceve e della sua dignità: difatti, la l. 219/2017 sul consenso informato ha previsto che, qualora il paziente, previamente reso edotto dal sanitario, dovesse consapevolmente rifiutare una cura, anche salvavita, il sanitario stesso avrebbe il dovere di ottemperare alla sua volontà, non incorrendo per questo in alcuna responsabilità penale o civile, al verificarsi dell’evento lesivo o tanatologico.
Questo é lo spirito che anima altresì la sent. 242/2019 della C. Cost. sul “caso Cappato” a proposito dell’art. 580 c.p. sul reato di aiuto al suicidio: dinanzi ad uno scontro tra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione, anche esercitato con l’ausilio di un estraneo, é il secondo a prevalere, non potendo la vita stessa essere elevata a presidio di valori metagiuridici, evanescenti e che trascendono il singolo.
Potrebbe trattarsi, a prima vista, di un argomento a sostegno di coloro i quali rifiutano o, più semplicemente, diffidano delle misure di lotta alla pandemia, dalle chiusure degli esercizi commerciali e dei luoghi ricreativi al divieto di assembramenti, fino alla vaccinazione: del resto, se l’autodeterminazione prevale, perché non ritenere configurabile la libertà del singolo di infettarsi?
In verità, nulla quaestio se chi pensa di esercitare codesta libertà, vivesse ancora nello “stato di natura” di cui tanto hanno parlato i filosofi del diritto e nel quale non esiste uno spirito di solidarietà tra gli uomini, ma soltanto un’istinto di reciproca sopraffazione.
D’altro canto, una volta compiuto il passaggio dallo status naturae allo status civilis sulla base di un patto o contratto sociale, da un lato i consociati rinunciano ad una parte della loro libertà illimitata per delegarla allo Stato, chiamato a regolare secondo la Legge i conflitti inter singulos e, dall’altro, nei rapporti tra gli stessi cittadini viene in rilievo un principio generale di derivazione romanistica quale é il neminem laedere.
Originariamente concepito come bastione della tutela aquiliana di beni patrimoniali contro le aggressioni altrui, oggi tale principio ha una portata onnicomprensiva, come del resto il danno non patrimoniale da lesione di diritti della personalità, nel solco dell’art. 4 della già citata Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti”.
Il predetto articolo, a sua volta, affonda le radici in primis nella filosofia greca dei Sette Sapienti uno dei quali, Pittaco, disse per l’appunto: “Non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui” e, in secundis, nella tradizione ebraica biblica: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.
Ne consegue che, sul piano giuridico come su quello umano, non vi é alcuna libertà nel compiere azioni che possono essere dannose per gli altri, dal violare l’obbligo di quarantena al rifiutare un vaccino la cui efficacia sia stata comprovata scientificamente: quindi, é responsabilità precipua di uno Stato democratico attuare misure che si rendessero necessarie per impedire azioni nocive per l’intera comunità.
Non sono mancati nei mesi scorsi, da parte di giovani o giovanissimi, tentativi dissimulati o, talvolta, persino resi “virali” sulle piattaforme on-line, di aggirare con furbizia i divieti di assembramento contro la pandemia e, a tal proposito, riecheggiano le parole dell’art. 7 della Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino del 1795: “Colui che, senza violare le leggi, le elude con astuzia o destrezza, ferisce apertamente gli interessi di tutti”.
Sono proprio i Doveri, troppo spesso dimenticati e non ottemperati, a fare di una persona anche un buon cittadino.
Da ultimo, si potrebbero riportare le parole, davvero attuali, di un grande imperatore romano quale fu Marco Ulpio Traiano, condottiero e legislatore, passato alla storia avvolto nel mito dell’Optimus princeps, custode e simbolo della Giustizia: “Tratto tutti come vorrei che l’Imperatore trattasse me, se fossi un privato cittadino“.
Alla luce di queste parole e nel pieno di una pandemia che, purtroppo, non é ancora stata sconfitta, ognuno di noi dovrebbe chiedersi: “Come ci sentiremmo se qualcuno, in nome di un mal riposto senso di libertà, mettesse in pericolo la nostra vita? Come vorremmo che si comportassero gli altri in un periodo di estrema difficoltà come quello che stiamo vivendo?”.
Al lettore la risposta.
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Jacopo Bracciale
Dopo aver conseguito la maturità classica con una votazione finale di 100/100, mi sono laureato cum laude in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Teramo con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Il problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana". In seguito, ho svolto con esito positivo presso il Tribunale di Teramo il tirocinio formativo teorico - pratico di 18 mesi ex art. 73 D.L. 69/2013 : per un anno nella Sezione Penale e, nei restanti sei mesi, in quella Civile. Parallelamente ho frequentato e, ancora oggi, frequento il corso di Rocco Galli per la preparazione al concorso in magistratura. Dal mese di novembre del 2020 collaboro con la rivista scientifica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo.