Il contratto di vendita: analisi della vendita sottocosto
Il principio del giusto prezzo si rinviene nel codice civile all’interno del libro quarto dedicato alle obbligazioni e più precisamente nel titolo III, capo I nell’ambito della disciplina del contratto di vendita. Tale tipologia contrattuale viene definita dal legislatore all’articolo 1470 cc come il contratto che ha per oggetto il trasferimento di una cosa o di un altro diritto verso il pagamento di un prezzo, realizzandosi con esso una causa tipica di scambio. Proprio il trasferimento di un bene o di un diritto dietro il pagamento di un prezzo indurrebbe le parti a concludere il contratto al fine di realizzare la causa corrispondente al tipo contrattuale. Sicché, alla base del contratto di compravendita vi sarebbero degli effetti obbligatori caratterizzati da due distinti obblighi reciproci: quello della consegna della cosa da parte del venditore e quello del pagamento del prezzo da parte dell’acquirente. Pertanto, la prestazione alla quale è tenuto l’acquirente in forza del contratto di compravendita è quella del pagamento del prezzo del bene che si intende acquistare. Tuttavia, laddove quest’ultimo non sia stato determinato dalle parti perché il contratto di compravendita ha ad oggetto cose che il compratore vende abitualmente, o perché le stesse parti non hanno convenuto il modo di determinarlo, né lo stesso sia stato fissato per atto della pubblica autorità, si presume che le parti contrattuali abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore, secondo quanto stabilito dall’articolo 1474 c.c.
Secondo parte della dottrina la norma de qua svolgerebbe una funzione integrativa dell’oggetto del contratto e precisamente del suo prezzo e si applicherebbe in via suppletiva nel caso in cui questo non sia stato predeterminato dalle parti o per intervento dell’autorità. In tal modo il criterio suppletivo sarebbe rappresentato dal prezzo normalmente praticato dal venditore, individuato sulla base delle precedenti contrattazioni di quest’ultimo aventi ad oggetto beni dello stesso genere di quello della contrattazione in corso.
Al contrario il comma 2 prevede un altro criterio integrativo utile ad individuare il giusto prezzo del bene: laddove il bene alienato abbia un prezzo ufficiale, il prezzo di esso si ricava dai listini o dalle mercuriali del luogo in cui deve essere eseguita la consegna o da quelli della piazza più vicina.
I primi due commi dell’articolo 1474 cc vanno letti alla luce del terzo comma della disposizione stessa, laddove essi fungono da criteri integrativi di determinazione del giusto prezzo del contratto di compravendita. Ove però ciò non sia possibile, e pertanto neppure i criteri dei commi precedenti siano utili ai fini della determinazione del giusto prezzo, il comma 3 dell’articolo 1474 cc individua un ulteriore meccanismo di individuazione di esso: qualora non sia possibile determinare il prezzo attraverso gli strumenti apprestati dai primi due commi e permanga la mancanza di accordo tra le parti, esse possono ricorrere ad un terzo per la sua determinazione secondo quanto previsto dall’articolo 1473 cc.
Quest’ultima norma prevede che le parti possano nominare tanto all’atto della stipula del contratto di compravendita, quanto in un momento successivo, un terzo con il compito di determinare il prezzo del contratto. Ciò si rende necessario alla luce della normativa generale sul contratto in quanto il prezzo quale elemento essenziale del contratto costituisce l’oggetto del contratto di compravendita, la cui mancanza è sanzionabile a pena di nullità ex articolo 1418 comma 2 cc. Sicché nel caso in cui il terzo non voglia accettare la richiesta delle parti o non si trovi l’accordo sulla sua nomina o sostituzione, potrà essere il presidente del Tribunale a provvedere a ciò. In questo senso si assiste ad un intervento dell’autorità giudiziaria volto non in contrasto con l’autonomia privata, bensì a favorire l’esplicarsi di essa così come è stato osservato dalla migliore dottrina.
La norma de qua ha una ratio evidente che va ricavata da una lettura in combinato disposto con l’articolo 1349 del codice civile sulla determinazione dell’oggetto del contratto: anche la norma de qua richiama un equo apprezzamento dell’oggetto da parte del terzo, e tuttavia se manca la determinazione del terzo, oppure essa è iniqua o erronea, subentrerà nella determinazione il giudice. Tale disposizione rapportata al giusto prezzo di cui all’articolo 1474 comma 3 cc è volta ad assicurare che il prezzo non sia iniquo e che pertanto vi sia una proporzione tra le due controprestazioni: il prezzo del bene non deve essere sproporzionato rispetto al valore di esso. Il principio del giusto prezzo assolverebbe pertanto ad una funzione di riconduzione ad equità delle controprestazioni delle parti del contratto di compravendita, preservando altresì l’equilibrio sinallagmatico. Proprio l’importanza di tale equilibrio spiegherebbe finanche il ricorso all’autorità giudiziaria. Secondo parte della giurisprudenza questo meccanismo opererebbe a garanzia di gran parte dei contratti a prestazioni corrispettive, ove il giusto prezzo sarebbe lo strumento per garantire l’equilibrio contrattuale, evitando situazioni d’abuso: ciò risulta particolarmente evidente nella determinazione del prezzo del contratto di somministrazione ex articolo 1561 cc. E’ noto che il contratto de quo ex articolo 1559 cc si sostanzia come il contratto con il quale una parte definita somministrante si obbliga ad eseguire prestazioni periodiche o continuative di cose a favore del somministrato, la cui controprestazione è costituita dal pagamento del prezzo. Ora, laddove il prezzo delle singole prestazioni non sia determinato, esso sarà determinato attraverso i canoni dell’articolo 1474 cc, volti ad assicurare il giusto prezzo e l’equilibrio tra le prestazioni contrattuali.
Tuttavia, se questa è una delle funzioni deducibili dall’interpretazione dell’articolo 1474 cc come norma richiamata dai contratti a prestazioni corrispettive, il principio del giusto prezzo in essa contenuto assolve ad un’ulteriore funzione, anche con riferimento al contratto di compravendita, ovverossia quella di evitare comportamenti anticoncorrenziali attraverso la stipulazione di contratti sottocosto.
Nello specifico l’articolo 1474 cc non è preordinato soltanto a consentire la ricerca del giusto prezzo in modo da evitare abusi di una parte contrattuale quale è il venditore, garantendo così l’acquirente quale parte più debole del rapporto contrattuale, ma è rivolto anche a garantire il giusto rispetto delle regole sulla concorrenza secondo quanto espresso dall’articolo 101 TFUE, e in special modo dall’articolo 102 comma 1 lettera a) che vieta pratiche abusive volte ad imporre direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto, di vendita o altre condizioni di transazione non eque, suscettibili di falsare la libera concorrenza nel mercato unico europeo.
Proprio per evitare ciò il legislatore ha voluto disciplinare il fenomeno delle vendite sottocosto con l’articolo 15 comma 7 del D. lgs. N. 115/1998. La norma de qua definisce la vendita sottocosto come la vendita al pubblico di uno o più prodotti effettuata ad un prezzo inferiore a quello risultante dalle fatture di acquisto maggiorato dell’IVA e di ogni altra imposta o tassa connessa alla natura del prodotto e diminuito degli eventuali sconti o contribuzioni riconducibili al prodotto medesimo purché documentati. Tale tipologia di vendita viene disciplinata dal combinato disposto della norma de qua unitamente al regolamento del 2001 sulla vendita sottocosto contenuta nel D.P.R. del 6 aprile 2001 n. 218: quest’ultimo in particolare vieta tale tipologia di vendita nell’articolo 1 commi 2 e 3 al fine di prevenire il fenomeno del dumping e conseguentemente di concorrenza sleale.
Invero, il comma 2 della norma de qua vieta la vendita sottocosto effettuata da un esercizio commerciale che da solo o congiuntamente a quelli dello stesso gruppo di cui fa parte e che detiene una quota superiore al cinquanta percento della vendita esistente sul territorio della provincia dove ha sede l’esercizio: ciò con l’evidente logica di evitare il fenomeno del cartello che sfocerebbe in un’ipotesi di imposizione del prezzo ed in comportamenti di dumping di per sé elusivi delle norme poste a tutela della libera concorrenza tra le imprese. La norma de qua ha una ratio evidente: quella di evitare la supremazia di un’impresa o di gruppi controllati da essa, che possono così eliminare la concorrenza generando fenomeni di monopolio e di abuso di posizione dominante sul mercato. Ciò si arguisce in particolar modo dalla chiave ermeneutica di interpretazione fornita dal comma terzo dell’articolo 1 del regolamento de quo. Infatti, tale previsione normativa chiarisce che per gruppo di cui al comma 2 debba intendersi una pluralità d’imprese commerciali controllate da una società o collegate ex articolo 2359 cc, ovvero imprese nelle quali vi sia la possibilità di condurre politiche comuni di prezzo.
E’ evidente che laddove vi fossero imprese appartenenti allo stesso gruppo ed operanti sul medesimo mercato in grado di fissare prezzi anche più bassi, ciò consentirebbe loro di agire in maniera monopolistica, riuscendo così ad appropriarsi della clientela delle altre imprese che, nel medio termine resterebbero fuori dalla concorrenza. La normativa in questione è pertanto volta ad evitare tali fenomeni di dumping idonei ad eludere le norme a tutela del giusto prezzo, ed al contempo è finalizzata ad evitare che un’impresa possa abusare della propria posizione dominante generando fenomeni di concorrenza sleale.
Ne deriva che le norme relative alla vendita sottocosto previste dal regolamento n. 281/2001 sono strumentali al rispetto della libera concorrenza ex articolo 101 del TFUE, per il quale sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese e tutte le pratiche concordate, quali la libera imposizione dei prezzi nei contratti di compravendita che possono impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno europeo. Ed invero la lettera a) del comma 1 dell’articolo 101 TFUE si riferisce alla fissazione dei prezzi d’acquisto.
Orbene, dal combinato disposto dell’articolo 1474 cc 3 comma che vuole assicurare la fissazione nei contratti di compravendita del giusto prezzo dei beni e dalle norme in tema di vendita sottocosto del d. lgs. N. 218/2001, lette alla luce del diritto dei Trattati, si arguisce come il principio del giusto prezzo sia volto ad evitare la stipula di contratti sottocosto, come quello di compravendita, di per sé non vietato ma che lo diviene allorquando possa minare i principi di libera concorrenza nel mercato unico europeo, generando fenomeni di concorrenza sleale.
La vendita sottocosto quale fenomeno di mancato rispetto del principio di giusto prezzo di cui all’articolo 1474 comma 3 cc è stata di recente al vaglio della giurisprudenza di legittimità quale presupposto idoneo ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta di cui all’articolo 216 del R.D. n. 267/1942. La Suprema Corte ha affermato che, anche laddove i beni di un’impresa siano venduti anni prima dalla dichiarazione di fallimento, laddove risulti evidente che la sistematica vendita sottocosto dei beni aziendali non sia dettata da un errore di valutazione di cui all’articolo 217 comma 1 n. 3), bensì da un tentativo di alienazione fraudolento dei beni volto a distrarre i beni dell’impresa al fine di sottrarli al fallimento, pregiudicando i creditori, in tal caso si sia in presenza della fattispecie della bancarotta fraudolenta, così come previsto dall’articolo 216 comma 1 n. 1) della legge fallimentare.
In tal modo, si comprende l’importanza della disciplina delineata dal legislatore in tema di contratti sottocosto, volta ad evitare il consolidarsi di fenomeni di concorrenza sleale, nonché fenomeni che potrebbero facilitare comportamenti fraudolenti in danno ai creditori di una procedura fallimentare. Sicché il legislatore ha elaborato il criterio del giusto prezzo quale soglia valutativa e canone ermeneutico che si offre agli operatori del diritto al fine di evitare tali fenomeni potenzialmente lesivi della concorrenza in un caso e nell’altro della massa dei creditori della procedura fallimentare.
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Sharon Serena Felaco
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