Il contributo della giustizia riparativa all’efficienza della giurisdizione

Il contributo della giustizia riparativa all’efficienza della giurisdizione

Sommario: 1. Verso una composizione pacifica dei conflitti – 2. Un modello efficiente di giustizia – 3. Modelli pratici di giustizia riparativa in Europa e, in particolare, nel sistema penale italiano.

 

1. Verso una composizione pacifica dei conflitti

Il dibattito sulla funzione della pena ha assunto, già da parecchi anni, un ruolo predominante nella produzione scientifica di studiosi ed esperti del settore impegnati nel ricercare nuove forme di giustizia. Loro tentativo è dare risposta al reato prendendo in considerazione modalità sanzionatorie diverse rispetto a quelle classiche. “Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano”[1]: con queste parole il teologo tedesco Eugen Wiesnet apre un suo noto saggio riflettendo sul quesito ultra millenario circa il significato della pena. La tesi dalla quale parte l’autore mette in luce che le risposte al reato non possono configurarsi come una ritorsione del male posto in essere, ma devono porre al centro il riconoscimento della responsabilità da parte del reo verso se stesso e verso la vittima: sarà solo l’incontro con “il volto dell’altro a chiamarmi alla responsabilità”[2].

La riflessione circa l’utilità di nuove forme di giustizia trae origine dalla crescente insoddisfazione circa gli esiti della giustizia penale[3], sia con riguardo al controllo del crimine, sia con riguardo alle finalità che dovrebbero legittimare le sanzioni e guidarne la determinazione[4].

Spesso, il clamore che i mass-media attribuiscono alla cronaca giudiziaria induce, anche i meno esperti, a esprimere considerazioni avventate e superficiali sul tema delicato della criminalità. La percezione, quasi mai suffragata da riscontri empirici, di un progressivo incremento dei reati e, in particolare, dei tassi di recidiva, come pure la constatazione di un ruolo marginale della vittima all’interno del processo, esprimono efficacemente il disorientamento oggi riscontrabile, non solo in Italia, circa il ruolo svolto dal sistema penale. Rispetto a tale situazione risulterebbe necessario, prima ancora dell’intervento penalistico, un impegno dell’intero ordinamento giuridico inteso a predisporre barriere anti-crimine che rendano sempre più difficoltosa la commissione di un reato, garantendo così un’effettiva tutela della società e delle vittime[5].

In questo contesto entra in gioco il paradigma della giustizia riparativa, che incide soprattutto sul modo di affrontare il crimine già commesso, ma non perde di vista il significato della prevenzione ante delictum.

Essa, infatti, a differenza della giustizia retributiva, si propone di riconciliare anziché di punire, domandandosi quale sia la modalità più idonea per riparare il male cagionato. Simile modalità non dovrebbe esaurirsi nel risarcire il danno prodotto, ma concretizzarsi nel ricercare e mettere in pratica azioni positive che tendano a una graduale responsabilizzazione del reo[6].

Nello specifico, la giustizia riparativa può essere definita come un paradigma di giustizia che coinvolge il reo, la comunità e, ove possibile, la vittima, nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di riparare il danno e agire all’interno della società prestando la propria azione gratuita[7].

Questo nuovo orientamento, che solo da pochi anni si sta affermando nel sistema sociale e giuridico italiano, tende a vedere ogni illecito, non solo come atto da condannare e punire con l’attuale sistema di giustizia esclusivamente in un’ottica di sicurezza e prevenzione, bensì come atto/reato agito da un soggetto portatore di un disagio, capace di rielaborare il conflitto interiore, confrontarsi, riconoscere la propria responsabilità rispetto al danno cagionato e adoperarsi consapevolmente per la riparazione.

Il valore, per così dire, terapeutico che si riconosce all’intervento riparatorio è orientato verso due direzioni: da un lato al soddisfacimento dei bisogni e alla promozione del senso di sicurezza delle vittime, dall’altro all’auto-responsabilizzazione di chi abbia commesso un reato circa le conseguenze del medesimo, ravvisabili nel danno alla vittima e alla comunità sociale[8].

In definitiva, l’accoglimento del paradigma della giustizia riparativa richiede un graduale superamento della concezione del reato come mera violazione di una norma giuridica, così da prendere in esame il rapporto tra l’autore del reato e la vittima, l’isolamento che talora il reo può subire nello stesso ambiente in cui vive, il senso di profonda insicurezza che alcune condotte criminose possono ingenerare nella collettività.

2. Un modello efficiente di giustizia

E’ stata più volte evidenziata la necessità di una riforma del diritto penale sostanziale, volta sia a mantenere intatti quei principi costituzionalmente garantiti, sia a tutelare l’imputato nel suo iter processuale. L’obiettivo principale, infatti, è l’efficienza del sistema giurisdizionale che può essere garantita solo puntando sulla creazione di incentivi che, in modo adeguato e coerente con gli obiettivi preposti, consentano di ottimizzare il rapporto tra mezzi e risultati; in quest’ottica, la “negozialità” finisce per rivestire una notevole rilevanza.

In un’epoca, quale è la nostra, in cui si fa sempre più strada la consapevolezza che, nell’amministrazione della giustizia, senza la partecipazione dei privati, il soggetto pubblico non riesce a garantire l’applicazione e l’osservanza delle leggi, il modello di diritto penale come intervento autoritario e unilaterale a difesa dei valori sociali non può che finire per cedere lentamente il posto anche a modelli improntati su logiche collaborative o partecipative.[9]

E’ pur vero, però, che a fronte di questa consapevolezza, la conseguente scelta di fare ricorso a forme di composizione informale o negoziata del rito non necessariamente si è accompagnata ad un mutamento della ideologia del sistema giudiziario che ne sta alla base, rimanendo principalmente legata a ragioni economiche, ossia allo scopo di ridurre i costi, con un risultato: la valenza solo pragmatica di tale scelta può finire per suscitare perplessità, diffidenza o anche pura avversione. La realtà è che non si può pensare che l’introduzione di moduli processuali di matrice consensuale in un sistema chiaramente ispirato al principio di legalità possa essere un’operazione “a costo zero”. Il guadagno ottenuto in termini di efficienza, infatti, ha un prezzo da pagare, ossia la commistione tra le ideologie del processo penale.

Se è vero che alla giustizia consensuale va riconosciuto il merito di consentire un diritto penale minimale[10], pene e misure diversificate, un ridimensionamento del ricorso alla pena carceraria, modi alternativi di soluzione delle liti, proponendosi come la strada privilegiata per ricercare la funzionalità del processo penale attraverso la via della diversificazione, è altrettanto vero che vi è un lato oscuro della negozialità che non può essere trascurato o trattato con leggerezza. Ci si deve, infatti, chiedere, quali sono i costi di questa attività negoziata sul piano delle garanzie e quali i rischi per i soggetti deboli, che non hanno la forza e le risorse per “trattare” come contendenti alla pari; infine, quali sono i pericoli per la libertà individuale, in particolare per quella di autodeterminazione.[11]

La giustizia esige, dunque, prese di posizione ferme a tutela dei diritti fondamentali e necessita di coraggio nell’adattarsi all’evoluzione dei tempi, offrendo soluzioni nuove a vecchie istanze rimaste inevase.

Il legislatore, soprattutto in questi ultimi anni, nel perseguire l’obiettivo di efficienza del sistema, non si è limitato a differenziare le forme del processo: oltre a puntare sull’abbreviazione del rito mediante meccanismi c.d. di diversion processuale (i riti speciali), ha puntato, sia pur timidamente, verso la “deprocessualizzazione”, e ancora sulla diversion più generalmente intesa, cioè su istituti in cui è dato all’imputato il potere di deviare il corso del processo verso un epilogo anomalo, rispetto agli schemi consueti in materia penale, prima della pronuncia sull’imputazione[12].

Alla base vi è l’idea che lo Stato può rinunciare alla pretesa punitiva allorché lo scopo del processo è raggiunto seguendo una strada diversa da quella che conduce alla punizione del colpevole, mediante l’applicazione di una sanzione penale.

Nella ricerca di soluzioni alla crisi del sistema penale, dunque, uno sguardo va in particolare al paradigma riparativo-conciliativo, che viene sempre più spesso indicato come una delle possibili soluzioni per restituire credibilità, per un verso, alla sanzione penale, per l’altro, al sistema processuale[13]. Il malcontento dovuto alla ineffettività della sanzione e la profonda insoddisfazione per gli esiti della giustizia penale, sia per quanto riguarda il controllo del crimine, sia per quanto attiene all’adeguatezza della pena rispetto agli scopi che la legittimano e che dovrebbero limitarla nella fase commisurativa, hanno portato ad interrogarsi sull’opportunità/utilità di ricercare modelli alternativi di risposta alla violazione della legge penale, diversi da quelli incentrati sul paradigma  punitivo o riabilitativo.

La giustizia riparativa permette di prestare una maggiore attenzione alla vittima del reato, tradizionalmente tenuta al margine dei sistemi processuali di tipo accusatorio, incentrati esclusivamente sul reo. Al contempo, consente di dare spazio alla convinzione che gli strumenti ufficiali di decisione costituiscano uno spreco di risorse e un eccesso di difesa, soprattutto nei confronti dei reati minori, laddove, nel loro operare concreto, gli organi della giurisdizione finiscono, a causa di un sovraccarico di lavoro difficilmente gestibile in tempi ragionevoli, con il delegittimare il sistema soprattutto sul piano dell’effettività e dell’efficacia della sanzione. Risulta chiaro, oramai, che ci stiamo avviando verso una pluralità di modi di regolazione giuridica, corrispondenti ad una nuova economia delle relazioni entro le norme sociali e legali, segno che è in atto un mutamento strutturale del sistema democratico[14]. La tendenza è verso l’affermazione di un “diritto orizzontale”[15], in cui la dinamica del conflitto non è impostata sulla separazione fra due mondi diversi, ma sulla ricerca di un accordo tra autore e vittima, alla stregua di un modello che non è contenzioso, ma consensuale-consociativo.[16]

La risposta alla commissione di un reato passa ad essere da una modalità “conflittuale e sanzionatoria” ad una modalità “consensuale e riparativa”[17]. Con la giustizia riparativa il reato non è più considerato soltanto come un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che incrina l’ordine costituito e che richiede una pena da espiare, bensì come condotta intrinsecamente dannosa ed offensiva che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolori e che richiede da parte del reo forme di attivazione e di riparazione del danno.

Il pregiudizio provocato diviene il punto di partenza per la costruzione di risposte in cui il rapporto tra afflizione e riparazione può essere rovesciato. Questioni fondamentali non sono più “chi merita di essere punito” e “con quali sanzioni”, ma “cosa può essere fatto per riparare il danno”.

In sostanza, mentre i modelli punitivi e trattamentali si focalizzano sull’azione criminale, escludono la partecipazione della vittima al processo penale e richiedono semplicemente la partecipazione passiva dell’autore del reato, la restorative justice si focalizza sugli effetti dannosi del comportamento illecito e coinvolge attivamente vittima e reo in un processo di riparazione e la riparazione non si identifica col mero risarcimento del danno cagionato dal reato[18], né costituisce una sanzione alternativa; soprattutto, la riparazione non va letta nella prospettiva della retribuzione. La restorative justice, infatti, va oltre, rappresentando una sorta di evoluzione del modello restitutivo. Essa, appunto, definisce il crimine come un conflitto tra persone e mira a raggiungere la composizione del conflitto cagionato dal reato.

Il rapporto autore-vittima viene posto al centro di tale sistema[19]. Il reato perde la sua dimensione “unilaterale” e acquista una valenza “relazionale”, configurandosi come una rottura del legame di coesistenza umana e sociale[20]. Il fine è riparare la frattura inferta dalla violazione delle regole di civile convivenza, ricomponendo il dissidio, riparando il torto cagionato dal reato, sollecitando il confronto tra le ragioni del reo e quelle della vittima; dando voce ai protagonisti perché manifestino i propri disagi e così indurli, se non a riappacificarsi, a riconoscersi come membri della medesima comunità.

Dalla mancanza del bisogno di punizione, quando si può percorrere la via del dialogo con successo, discende la rinuncia al processo; ecco perché i meccanismi della giustizia riparativa generalmente danno luogo a ipotesi di diversion. L’idea è che in questi casi l’interesse pubblico all’instaurazione di un processo davanti al giudice penale vada a scemare. Vale a dire che la riparazione dei danni e soprattutto la riparazione del fatto, in seguito alla riconciliazione tra vittima e reo, possa giustificare la rinuncia alla prosecuzione del processo anteriormente alla pronuncia sull’imputazione o, ancor prima, all’esercizio dell’azione penale.[21]

3. Modelli pratici di giustizia riparativa in Europa e, in particolare, nel sistema penale italiano

L’articolo 2, comma 1, lett. d) della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, definisce espressamente la “giustizia riparativa” (nell’espressione inglese restorative justice) come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».[22]

La stessa direttiva individua i principali modelli di giustizia riparativa nel sistema penale europeo. Infatti, a titolo esemplificativo, vengono menzionati: la mediazione penale, ossia un confronto tra l’autore del reato e la vittima in presenza di un mediatore; il family group conferencing (o semplicemente conferencing), che si sostanzia in una sorta di mediazione “allargata” ai gruppi parentali ed a persone di supporto; nonché il circle sentencing, in cui l’autore di reato, la vittima, le loro famiglie e alcuni membri rappresentativi della comunità, insieme ai tecnici del diritto, cercano tutti assieme una soluzione al conflitto-reato.

Tra quelle elencate, le tipologie maggiormente utilizzate in Europa sono il conferencing e la mediazione penale.

La sopracitata direttiva menziona il “Servizio di giustizia riparativa” che, in taluni casi, può essere rappresentato da una sezione specializzata della polizia e in altri, invece, da un ufficio appositamente predisposto. Questo servizio entra in contatto con l’autore e la vittima, previa decisione dell’autorità giudiziaria; l’ufficio si occupa di curare gli incontri tra le parti, una volta accertata la possibilità concreta di intraprendere un percorso di giustizia riparativa.

Alla base degli incontri, vi è la comunicazione tra le parti e un aspetto peculiare è rappresentato dalla possibilità, per l’autore del reato, di comunicare anche con una vittima indiretta, surrogata o aspecifica. Nel primo caso, l’autore si rapporterà a coloro che subiscono indirettamente le conseguenze dell’offesa (ad es. i genitori o i figli della vittima deceduta a causa del reato), nel secondo, invece, la comunicazione avverrà tra l’autore e la vittima di analogo reato, ma realizzato da un soggetto diverso.

La comunicazione tra l’autore e la vittima del reato avviene attraverso la narrazione a-tecnica delle reali motivazioni che hanno spinto il soggetto a delinquere, dei danni subiti in concreto e delle conseguenze del reato, nonché delle aspettative riparative; ove possibile, si tracciano le linee di possibili accordi, finalizzati a riparare le conseguenze del reato.[23]

L’esito positivo del percorso di restorative justice può avere risvolti positivi sulla risposta dell’ordinamento al reato e al suo autore. Durante la fase pre-processuale, infatti, esso potrà legittimare un’archiviazione del procedimento o l’instaurazione di altre forme di diversion; in sede di cognizione, il buon esito riparativo può costituire il presupposto di una sentenza di proscioglimento, nel caso di reati di non elevata gravità o, comunque, può essere oggetto di valutazione in sede di commisurazione della pena; durante la fase esecutiva, invece, il programma riparativo può essere valutato ai fini della concessione di benefici al condannato.

Tuttavia, un esito negativo del percorso, ovvero la sua interruzione, non ha risvolti nel prosieguo dell’iter penalistico, nel senso che l’Autorità Giudiziaria non dovrà tenerne conto.

Questo iter, ormai contemplato da diversi paesi europei, che ne hanno disciplinato i potenziali effetti, gli strumenti tecnici ed alcuni casi di reati ostativi all’applicazione, rappresenta il principale modus operandi delle prassi di giustizia riparativa. Prassi che, tuttavia, in Italia non ha ancora trovato la propria dimensione, se non fosse per il rito minorile, unico settore nel quale è stato riservato spazio ad una incerta sperimentazione della giustizia riparativa[24].

Per quanto riguarda, invece, i reati commessi da soggetti adulti, le uniche norme che contengono riferimenti alla mediazione penale sono quelle che disciplinano il rito dinanzi al Giudice di Pace[25], ma tali norme non trovano, sostanzialmente, una significativa applicazione.

Tuttavia, anche nei paesi in cui la restorative justice ha trovato pieno riconoscimento normativo, l’applicazione della stessa resta piuttosto marginale, essendo sostanzialmente limitata alla giustizia minorile e, nei casi in cui essa sia estesa agli adulti, a reati di basso e medio disvalore penale.

Ciò a significare come la diffusione di questa forma di giustizia risulti ancora moderata, sebbene non la si possa considerare un fenomeno trascurabile nelle attuali politiche penali[26], in primis perché esistono paesi extraeuropei in cui la giustizia riparativa è perfettamente integrata, costituendo, quindi, dei modelli di riferimento, in secundis perché il tema è di elevato valore teorico.

Non meno importante, infine, è il riconoscimento che la restorative justice ha riscontrato nel sistema normativo europeo, al quale i legislatori nazionali dovrebbero adeguarsi, individuando lo spazio ed il peso da attribuire all’interno del proprio sistema penale.

 

 


[1] E. Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, (trad. it. a cura di L. Eusebi), Milano, 1987, p. 15.
[2] Z. Bauman, Una nuova condizione umana, Milano, 2003, p. 12.
[3] G. Johnston, Restorative justice: ideas, practices, debates, Devon, 2002, p. 25 ss.
[4] A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in AA. VV., Studi in ricordo di G. D. Pisapia, vol. III, Milano, 2000, p. 730 ss.
[5] F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, p. 19 ss.
[6] M. Bouchard, G. Mierolo, Offesa e riparazione, Milano, 2005, p. 191-200.
[7] M. Cafiero e P. Trecci, F. Angeli, Riparazione e Giustizia Riparativa. Il Servizio Sociale nel sistema penale e penitenziario, Morineau 2000,  p. 119.
[8]F. Occhetta, Le radici morali della giustizia riparativa, in La Civiltà Cattolica, 2008, p. 444-457.
[9] T. Fulkens, Una giustizia negoziata?, p. 631.
[10] M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, in Questione Giustizia, n.3-4, 1992, p. 761 e ss.
[11] M. Caianiello, Poteri dei privati nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2003, p. 84.
[12] La definizione di diversion, quanto meno nel significato attribuito a quaest’ultima dalle Risoluzioni del XIII Congresso Internazionale di diritto penale sul tema ”Diversion e Mediazione”, in Cass. Pen. 1985, p. 533, comprende pertanto «le attività svolte dagli organi pubblici cui sono attribuite funzioni di controllo sociale, al di fuori del sistema penale».
[13] V. Patanè, Note a margine della Raccomandazione N.R. (99) 19 nella prospettiva della ‘Mediazione’ nella giustizia penale italiana, in Annali della Facoltà dell’Università di Catania, 1999, p. 3.
[14] M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, in Questione Giustizia, n.3-4, p. 761.
[15] C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto, nota n. 58, Giappichelli, 2006, p. 58.
[16] C.E. Paliero, L’autunno del patriarca, in RIDPP, 1994, p. 1230.
[17] J.P. Bonafè-Schimitt, Una, tante mediazioni dei conflitti, in G. Pisapia, D. Antonucci, La sfida della mediazione, p. 25.
[18] G. Mannozzi, La giustizia senza spada, p. 100.
[19]C.E. Paliero, La mediazione penale tra finalità riconciliative ed esigenze di giustizia, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, p. 112.
[20] M. Gialuz, Mediazione e conciliazione, in F. Peroni, M. Gialuz, La giustizia penale consensuale. Concordati, mediazione e conciliazione, Torino, Utet, 2004, p. 107.
[21] A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Giappichelli Editore, Torino, 2010, p. 50.
[22] F. Parisi, I confini della restorative justice nella più recente normativa europea sulla tutela della vittima: ragionevole attuazione di una victim-centred justice o inevitabile condanna al destino di Sisifo?, in Sistema penale e tutela delle vittime tra diritto e giustizia, a cura di Maria Francesca Cortesi, Emanuele La Rosa, Lucia Parlato, Nicola Selvaggi DIPLAP Editor, 2015, p. 123.
[23] F. Parisi, I confini della restorative justice nella più recente normativa europea sulla tutela della vittima: ragionevole attuazione di una victim-centred justice o inevitabile condanna al destino di Sisifo?, in Sistema penale e tutela delle vittime tra diritto e giustizia, a cura di Maria Francesca Cortesi, Emanuele La Rosa, Lucia Parlato, Nicola Selvaggi DIPLAP Editor, 2015, p. 124.
[24] G. UBERTIS, Riconciliazione, processo e mediazione in ambito penale, in Riv. it. dir. proc. pen, 2005, 1321ss.
[25] L’art. 29, comma 4, del D. Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 prevede che “il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l’udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio”.
[26] G. MANNOZZI – G.A. LODIGIANI, Formare al diritto e alla giustizia: per una autonomia scientifico-didattica della giustizia riparativa in ambito universitario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 133 ss.

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Giovanna Russo

Giovanna Russo è nata a Nola (NA) il 20 dicembre 1990. Consegue la maturità classica presso il Liceo Classico "Giosuè Carducci" di Nola ed intraprende la facoltà di Giurisprudenza, presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Conseguita la laurea nel luglio del 2015, discutendo una tesi in legislazione penale minorile, dal titolo "La mediazione penale e la giustizia riparativa nel processo penale minorile", intraprende la pratica forense in ambito penalistico. Nel corso della pratica, ha modo di approfondire i reati contro la persona e quelli contro il patrimonio, soffermandosi, in particolare, sull'ambito della criminalità organizzata. Nel 2017 si abilitata all’insegnamento per la cattedra di diritto ed economia. Conseguita l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato nel 2018, si iscrive all'albo degli Avvocati di Nola a gennaio del 2019. E' tutor di diritto processuale penale , per il “Corso di Preparazione all’esame di Stato per Avvocati”, organizzato dalla “La Scuola Bruniana – Fondazione Forense di Nola” presso il Tribunale di Nola.

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