Il corollario della tassatività in materia penale: genesi storica e nuovi (inammissibili) orizzonti europei
Il diritto penale è caratterizzato, da sempre, dalla contrapposizione dialettica tra legalità formale e legalità sostanziale e tra gli indirizzi formalistico-giuspositivistici e gli indirizzi sostanzialistico-metapositivistici. Quanto ai primi, essi si rifanno ad una concezione formale del reato, per cui è reato solo il fatto previsto dalla legge come tale, obbligando il giudice alla sola interpretazione autentica. Mentre gli indirizzi sostanzialistico-metapositivistici, abbracciando una concezione sostanziale del reato, tendono ad attingere il diritto da fonti materiali ovvero extrapenali. Tra quest’ultimi, merita rilevanza storica l’irrazionalismo o intuitismo che ha trovato accoglimento nei sistemi totalitari nazionalfascista e marxista-stalinista (si pensi alla Scuola di Kiel degli anni ’33-’45) ed ha elevato a fonte autonoma del diritto il sano sentimento del popolo (gesundes Volksempfinden).
Storicamente l’obiettivo formalistico, linguistico e culturale venne raggiunto dall’indirizzo tecnico-giuridico con la prolusione sassarese di Arturo Rocco del 1910. Parallelamente, in territorio tedesco, tale indirizzo (Bilding, Mayer, Beling) portò alla teorizzazione di una teoria generale del diritto (allgmein Reichtslhere) fondata unicamente sul diritto positivo, sui c.d. “dogmi” e, per tale ragione, denominata anche “dommatica”.
Il nostro ordinamento penale accoglie una concezione formale di legalità e, quindi, il principio del nullum crimen, nulla poena sine lege (secondo la formula latina coniata all’inizio del sec. XIX dal criminalista tedesco A. Feuerbach) . Com’è notorio, fondamento di tale principio e dei suoi tre corollari della riserva di legge, della tassatività e della irretroattività, è l’art. 25 Cost. (non solo dunque l’irretroattività, ma anche e soprattutto la riserva di legge e la tassatività, come statuito in diverse pronunce della Corte Cost.: 6/1956, 21/1957, 27 e 29/1961, 54/1968). Mentre la riserva di legge attiene al problema delle fonti del diritto, il principio di tassatività fa riferimento, in sostanza, alle tecniche di formulazione legislativa della fattispecie penale e, considerato nella sua interezza, stabilisce: a) per il legislatore il dovere di enucleare, nella formulazione della norma, fattispecie chiare e ben determinate; b) per il giudice il divieto di applicare le norme oltre i casi ed i limiti predisposti dal legislatore, nel divieto quindi di analogia, stante il principio nullum crimen, nulla poena sine lege poenali scripta et stricta.
Alcuni Autori utilizzano in modo complementare i concetti di “determinatezza” e “tassatività”, adducendo che entrambi imporrebbero il divieto di analogia. Tuttavia tale tesi è storicamente smentita essendo, infatti, previsto in alcuni ordinamenti bensì il principio di tassatività, ma non già quello di analogia. Dunque la tassatività racchiude in sé la determinatezza in quanto soltanto senza la prima si ha una sorta di “analogia anticipata” (cfr. F. Mantovani, Diritto Penale, p.61). Per quanto concerne il moderno concetto di “precisione” esso andrebbe inquadrato nella descrizione intellegibile della fattispecie astratta; mentre la “determinatezza” nella corrispondenza della fattispecie astratta alla fenomenologia della realtà e, quindi, nella possibilità di accertamento giurisprudenziale sulla base delle massime comuni di esperienza e dei risultati scientifici.
Il corollario della tassatività (che trova la sua giustificazione costituzionale negli artt. 13, 24 comma 2, 111 e 112 della Cost.) garantisce nella sua essenza il favor libertatis. Mentre la riserva di legge assicura il monopolio legislativo nella materia penale, il principio di tassatività deve essere ricondotto alla certezza del diritto: tanto più una norma è chiara e determinata, tanto meno è ampia la sfera dell’arbitrarietà e del soggettivismo (ideologico e materiale) concesso al giudice nell’applicazione della norma, con la duplice conseguenza: 1) sul piano sostanziale penale, vengono garantiti i principi di frammentarietà, di uguaglianza giuridica dei cittadini, di colpevolezza, di previsione; 2) sul piano processuale, l’obbligatorietà dell’azione penale, il diritto di difesa, la contestazione e l’impugnazione.
Il principio di tassatività, in particolare, pone in rilievo tre ordini di problemi attinenti: a) l’oggetto; b) il grado di determinatezza; c) le tecniche di formulazione legislativa. Riguardo al punto a), è pacifico che l’oggetto del principio di tassatività ricomprende l’intero ordinamento penale (non solo, o non soltanto, le disposizioni penali, ma anche le scriminanti, le attenuanti e le aggravanti, le clausole generali, ecc.) In merito al punto b), impone che la disposizione abbia un grado di determinatezza sufficientemente determinato, altrimenti lesivo del principio stesso e, dunque, incostituzionale. Sulle tecniche di formulazione legislativa, punto c), esse non si esauriscono nella formulazione per clausole generali o casistica (favorevole ad un’apertura verso quest’ultima, da ultimo, Marinucci-Dolcini), ancorché deve essere considerata più conforme al principio di tassatività una normazione sintetica che enuclei la fattispecie attorno a fondamentali categorie lesive di oggettività giuridica mediante la riconduzione della condotta a modalità causali od omissive, l’utilizzazione di definizione legislative ovvero di elementi concettuali rigidi (univoci nel loro significato), rifuggendosi da elementi elastici o vaghi.
Il ruolo del giudice nell’interpretare la legge è, ad oggi, distante dall’applicazione meccanica (secondo un sillogismo giuridico tanto caro a Beccaria), ma attiene maggiormente a differenti tipologie interpretative: quella dell’interpretazione storica, quella dell’interpretazione letterale (o semantica); quella dell’interpretazione sistematica; quella, infine, dell’interpretazione teleologica (o c.d. “Realismo di Anotlisei”). L’opera di interpretazione del giudicante è legata anche, e soprattutto, ai nuovi criteri (oggettivo, soggettivo, induttivo) elaborati dalla CEDU.
Su tali questioni, in quanto aventi ricadute dirette sui diritti fondamentali del cittadino, bisogna approfondire quanto segue.
Vezio Crisafulli (voce “Disposizione e norma”, in Enc. Dir., XIII, 1964, pp. 195 e ss.) distingue in maniera limpida il concetto di “disposizione” intesa come la fattispecie astratta descritta dal legislatore, da quello di “norma” considerata quale interpretazione “vera” e non meramente ricognitiva del precetto penale. In particolare, la tassatività si riferirebbe alla disposizione, mentre l’interpretazione alla norma. Con riferimento precipuo all’opera interpretativa della disposizione che il giudice è chiamato a compiere in sede di accertamento giurisprudenziale, negandosi in maniera assoluta l’ideale utopico-illuministico di una norma connotata di completezza intrinseca, dobbiamo distinguere un triplice modus operandi: concretizzazione estensiva, analogica, attività creatrice.
Tipico caso di concretizzazione estensiva è quello riguardante l’art. 317 c.p. (concussione) sul concetto di “utilità”. Ad una prima interpretazione restrittiva, tale norma era stata applicata ai soli casi nei quali il concetto di “utilità” fosse riconducibile ad un’utilità patrimoniale. La prassi aveva dubbi interpretativi su tale tesi nelle ipotesi di prestazioni sessuali. In un primo momento, il Manzini (in Trattato di diritto penale italiano, vol. V, Torino, 1950, pp. 168 e ss.) aveva ricondotto le ipotesi di prestazioni sessuali sotto il concetto di utilità limitatamente alle ipotesi in cui il soggetto sottoposto a concussione fosse una prostituta. Opinabile e condannabile l’opinione del Manzini. Le SS.UU. sono intervenute nel 1993 sulla questione risolvendola nel senso, che nel concetto di “utilità” rientrassero tutti i tipi di utilità, patrimoniali e non.
Diversa dalla concretizzazione estensiva (per un approfondimento si veda l’opera del massimo studioso sul tema V.K. Engish, Die Idee der Konkretisierung in Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit) è l’attività analogica. L’analogia, com’è noto, consiste nell’applicazione della norma a casi simili non espressamente previsti dal legislatore (analogia legis) o nell’applicazione di una norma, non desumibile dall’ordinamento, ricorrendo ai principi generali di diritto (analogia iuris). Disciplinata dall’art. 12 disp. prel., l’analogia ha la funzione di colmare le lacune legislative, non essendo immaginabile un legislatore onniveggente ed onniloquente. Tuttavia l’analogia trova un divieto invalicabile in materia penale, giustificato dal principio garantista liberal-democratico della certezza del diritto e del favor libertatis. Ciononostante alcuni Autori ne neghino l’esistenza, si suol distinguere concettualmente l’analogia (che trova il suo esplicito divieto e fondamento agli artt. 14 disp. prel., 1 c.p. e 199 c.p.) dalla forma limitrofa ed estrema dell’interpretazione estensiva. Mentre con l’interpretazione estensiva ci si riferisce ad una operazione logica e razionale che dilata la norma ed, in particolare, il significato dei singoli termini, pur restando all’interno della norma stessa, con il metodo analogico si va a disciplinare, tramite lo strumento della similitudine (“ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio“), quei casi non previsti dal legislatore, ma simili per identità di ratio. Con il triplice limite: dell’eadem ratio della norma scritta; del sufficiente grado di determinatezza; del rispetto del divieto di cui all’art. 14 disp. prel.
A tal riguardo occorre, preliminarmente, distinguere tra norme di diritto regolare e norme di diritto eccezionale.
La dottrina maggioritaria suol definire (riprendendo e trovando un compromesso tra i due diversi criteri qualitativo e quantitativo) legge eccezionale quel complesso di norme che disciplinano un numero minore di casi in maniera opposta e antitetica rispetto a quel complesso di norme che disciplinano il numero di casi maggiore (diritto regolare).
Essendo storicamente inammissibile un’analogia in malam partem, ed essendo possibile, invece, una in bonam partem (già prevista nell’art. 4 disp. prel. del codice del 1865), con i su citati limiti, l’ambito applicativo di quest’ultima resterebbe circoscritto a limitate ipotesi, che sono quelle in materia di scriminanti (si pensi all’art. 52 c.p. e all’art. 54 c.p. e quindi ai casi di legittima difesa anticipata e di stato di necessità anticipato), ovvero in materia di imputabilità degli irresponsabili (classico esempio è il caso dell’uomo-lupo o selvaggio). Mentre non sarebbero estensibili analogicamente i casi di impunibilità (immunità e, a tal proposito, si vedano le sentenze della Corte Costituzionale nn. 29 e 487 dell’89), di estenzione della pena, così, anche, le circostanze attenuanti generiche.
Nella prassi giurisprudenziale, casi emblematici di analogia conclamata sono stati quelli riguardanti le fattispecie dell’art. 437 c.p. (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul, lavoro) dove il concetto di “infortunio” è stato esteso fino a ricomprendere anche la malattia (nonostante la dottrina maggioritaria definisca la stessa in maniera autonoma, quale processo morboso capace di incidere sulla salute fisica e psichica del soggetto); altresì la fattispecie relativa all’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose) che è stato esteso fino a ricomprendere le onde elettromagnetiche, sulla scorta dell’interpretazione estensiva già data al concettocampetto di “beni”, di cui all’art. 624 c.p., ricomprensivo, anche, dell’energia elettrica. Diversamente, caso di attività creatrice giurisprudenziale può essere considerato quello che ha avutofatto ad oggetto glila artt. 434, 2 comma, c.p. e 437, 2 comma, c.p., con la creazione dei giudici della fattispecie del c.d. “disastro innominato doloso” (si veda, particolarmente, la sentenza del Tribunale di Torino del 12 febbraio 2012, il noto caso Eternit), dove, è evidente, si è addirittura anticipata la previsione legislativa sul disastro ambientale, successivamente alla sentenza disciplinata dal legislatore nell’art. 452-quater c.p. con la L.15/68.
Sul tema del principio di tassatività, così delineato nell’ordinamento penale interno, un ruolo preminente sono venuti ad assurgere i principi di accessibilità e di prevedibilità enucleati dalla giurisprudenza europea. L’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo stabilisce, in generale, il principio di irretroattività della legge penale in malam partem, ravvisando due ipotesi di illecito giurisprudenziale: a) illecito giurisprudenziale originario, che consiste nella violazione del principio di tassatività, in quanto una norma non sufficientemente determinata non permette al cittadino di prevedere quale suo comportamento potrà essere punito o meno; b) illecito giurisprudenziale derivato, consistente nell’applicazione analogica della fattispecie penale. Peculiare, inoltre, il fatto, come alcuni Autori hanno sottolineato (Fiandaca), che l’art. 7 non parli di “legge”, ma soltanto di “diritto” e come il par. 2 dell’art.7 rinvii ai “principi generali riconosciuti dalle nazioni civili” estendendo così notevolmente la portata della norma.
La contrapposizione dialettica e pratica tra i sistemi di civil law (e del c.d. “law in the books“) e sistemi di common law (e del c.d. “law in the action“), sembra essere mitigata dalla giurisprudenza europea, che pare accogliere una posizione mediana e, dunque, anche una concezione sostanziale della legalità. In un primo momento, in un caso di violazione dell’art. 7 della Convenzione, risalente al 1970 Sunday Times c. Regno Unito ed altri, la Corte si è orientata per l’applicazione di un criterio oggettivo per determinare la prevedibilità e l’accessibilità della fattispecie penale. Successivamente, nelle famose sentenze gemelle S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito del 1995, la Corte ritenne applicabile un criterio evolutivo, richiamandosi alla precedente pronuncia sul caso Kokkanakis c. Grecia del 1993. Ancora un criterio soggettivo è stato adoperato nella sentenza Radio c. Svizzera del 1990 e, altresì, nella sentenza Soros c. Francia del 2011.
Monito emblematico, in tema di legalità europea nell’applicazione retroattiva del mutamento giurisprudenziale sfavorevole al reo, è stato sancito dalla Corte Europea all’Italia nella storica sentenza del 14 aprile 2015, ricorso 66655/13, nel caso Contrada. Bruno Contrada, che era stato Questore della polizia di Palermo, Alto Commissario per il coordinamento della lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nonché Vicedirettore del SISDE, era stato condannato dal Tribunale di Palermo, con il capo di accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa”, per aver rivelato informazioni segrete, riguardanti le indagini di polizia, alla associazione criminale nota come “Cosa Nostra”. Assolto in appello, e a seguito di un secondo rinvio della Cassazione ad altra sezione della Corte e definitivamente condannato (visto anche il rifiuto di un accoglimento di una revisione europea ex art. 630 c.p.p.), Contrada si rivolse alla CEDU adducendo la violazione dell’art. 7 della Convenzione, in quanto la condanna sarebbe stata il prodotto di un’evoluzione giurisprudenziale sorta posteriormente ai fatti oggetto di imputazione (commessi tra il 1979 e il 1988). Chiamata a pronunciarsi sul punto, la Corte Europea osservando, che l’incertezza giurisprudenziale sull’applicazione del combinato disposto degli artt. 416-bis e 110 c.p. si fosse arrestata soltanto con la presa di posizione delle SS. UU. nella sentenza Demitry del 5 ottobre 1994, ha accolto il ricorso di Contrada, in quanto il mutamento giurisprudenziale sfavorevole non era, al momento dei fatti, prevedibile. Nelle motivazioni la Corte richiama, anche, un altro caso risolto dalla stessa sul criterio del “precedente qualificato” e, precisamente, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 2012.
La sentenza Contrada ha, senza ombra di dubbio, avuto delle significative incidenze e delle forti ripercussioni nell’ordinamento penale italiano. Non è un caso che, nella cause successive degli imputati Ciancio e Dell’Utri (i c.d. “fratelli minori” di Bruno Contrada), i difensori degli imputati abbiano chiesto ai giudici nazionali l’applicazione della sentenza Contrada a favore dei propri assistiti sulla base dell’art. 46 CEDU. Sulla questione è intervenuta, da ultimo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 49 del 2015, che ha sancito la non applicabilità della sentenza della Corte Europea sul caso Contrada, in quanto non considerabile “sentenza pilota”.
Le perplessità sollevate da voci Autorevoli della dottrina sono giustificate dal fatto che il principio di legalità soffre per diverse ragioni, innanzitutto, sotto il profilo della riserva di legge assoluta in materia penale. Inoltre, sotto il profilo della tassatività, poiché la normativa e la giurisprudenza comunitaria, esercitando una notevole incidenza sugli elementi normativi e descrittivi delle fattispecie penali interne integrate, sostanzialmente, da norme extrapenali, assumono un ruolo decisivo nella descrizione del precetto, violando, così, una prerogativa riservata dalla Costituzione all’organo legislativo.
In conclusione, tanto l’influenza disapplicatrice, tanto quella interpretativa evidenziano una tendenza del sistema interno e sovranazionale, da più parti avvertita, allo svuotamento della potestà legislativa in materia penale, a vantaggio del potere giudiziario, che è capace di produrre un’inaccettabile modifica degli assetti tra i poteri, che, se anche ipotizzabile, non potrebbe comunque venire ad esistenza neanche con un procedimento ordinario di revisione costituzionale, rappresentando la sovranità popolare un principio fondamentale del nostro ordinamento, in quanto tale immodificabile ed ineluttabile.
FONTI:
F. MANTOVANI, Diritto Penale, 2017.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Enrico Sericola
Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.
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