Il cyberbullismo tra rilevanza penale ed incertezza normativa
Per definire i profili di rilevanza penale del cyberbullismo, è opportuno partire dall’inquadramento giuridico del fenomeno sociale in questione, analizzando pertanto, la disposizione normativa introdotta in materia, ossia la legge 29 Maggio 2017 n.71 recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del cyberbullismo”.
Tale novella legislativa, rappresenta un fondamentale approdo per le strategie di contrasto al cyberbullismo ma, nel contempo, presenta innumerevoli zone d’ombra. A titolo esemplificativo, nell’art. 1 comma 2[1] della legge de qua, traspare l’intento del legislatore di offrire una chiara definizione del fenomeno cibernetico ma che, se posta e letta in una prospettiva sistematica, appare del tutto confusa e disorganica.
Infatti, dall’aspetto contenutistico, la disposizione esaminanda si connota per la presenza di fattispecie criminose già presenti nel panorama normativo, costituenti già oggetto di codificazione[2], nonché da condotte fattuali che sebbene non definite tecnicamente, sono assimilabili in parte a reati esistenti, ed in parte rappresentano il frutto di definizioni sociologiche.
Emerge dunque, una formulazione affetta da molteplici criticità che, considerato tanto lo stato emergenziale del fenomeno in discussione, quanto la rilevanza che assume la presenza di una definizione precisa tale da consentire la predisposizione di contromisure efficaci verso quei comportamenti “antisociali, inevitabilmente inducono il giurista ad interrogarsi sulla bontà dell’operato del legislatore.
Infatti, l’intento di definire siffatto fenomeno sociale, pare dimostrarsi fallace e ciò trova altresì riscontro nelle difficoltà in cui il legislatore sarebbe incorso nel creare una norma penale incriminatrice comprensiva di tutti quei comportamenti che, astrattamente, sarebbero idonei ad essere ricompresi entro l’accezione di cyberbullismo rispettosa del principio di legalità penale cristallizzato dalla nostra Costituzione all’art. 25 comma 2[3].
In particolare, prospettati i difetti della disposizione esaminanda, come la generica indicazione delle condotte vietate, l’assenza di un quadro chiaro comprensivo delle condotte integrabili dagli atti di cyberbullismo, è possibile comprendere come, l’eventuale creazione di una nuova norma penale incriminatrice, disciplinante il fenomeno in esame, darebbe luogo ad una confusione interpretativa lesiva di uno dei corollari che caratterizzano il principio di legalità, ossia il principio di tassatività o di determinatezza della fattispecie penale il quale postula la determinazione chiara e precisa, da parte della legge, delle fattispecie di reato e delle pene cui assoggettare il reo.
Il cyberbullismo dunque, pur non configurandosi quale figura autonoma di reato, apre la strada a diverse fattispecie penalmente perseguibili, come i reati di diffamazione (ex art. 595 c.p.), atti persecutori (ex art. 612 bis c.p.), percosse (ex art. 581 c.p.), istigazione al suicidio (ex art. 580 c.p.), per la cui individuazione, occorrerà attenzionare la condotta criminosa di volta in volta posta in essere dall’agente sì da poter poi – in una prospettiva unitaria, volta al fenomeno cibernetico complessivamente considerato – adeguatamente collocare la stessa nello specifico nomen iuris. Compito che si prospetta tutt’altro che agevole a causa, appunto, del fallace intento legislativo di definire, nitidamente, il fenomeno de quo. Ed allora, se del cyberbullismo sembrerebbe difettare una precisa conoscenza, quale possibilità di adattamento delle molteplici ipotesi criminose, dallo stesso in parte contemplate?
[1] Per cyberbullismo s’intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti online aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo.
[2] Se ne darà conto nel prosieguo dell’elaborato; a titolo esemplificativo: Diffamazione ex art. 595 c.p., Trattamento illecito di dati personali ex art. 167 Codice della privacy, Molestia ex art. 660 c.p. etc.
[3] “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Siffatto principio, colonna portante dell’ordinamento penale, postula una concezione formale del reato che presuppone il divieto di punire un fatto non espressamente previsto dalla legge come reato nel momento in cui viene commesso e con pene dalla stessa non definite.
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Rosalba Taverniti
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