Il danno tanatologico: possibilità risarcitorie
Il danno tanatologico, anche detto danno da perdita del diritto alla vita, ha dato luogo a notevoli contrasti in dottrina ed in giurisprudenza, ancora oggi non sopiti.
La questione problematica afferisce alla possibilità che, in caso di lesioni mortali, maturi in capo alla vittima un diritto al risarcimento del danno alla salute trasmissibile iure successionis agli eredi.
Secondo una impostazione minoritaria, infatti, la morte rappresenta la lesione più grave del bene della salute; ciò legittimerebbe la configurabilità di un danno biologico da morte risarcibile iure hereditatis.
L’orientamento giurisprudenziale prevalente sostiene, invece, che il danno tanatologico non sia configurabile come danno biologico perché la morte non costituisce lesione del diritto alla salute, ma incide sul distinto bene della vita.
La trasmissibilità agli eredi del diritto di credito risarcitorio per danno biologico è, pertanto, esclusa quando la morte segua l’evento lesivo a distanza di tempo così ravvicinata che rende non apprezzabile l’incisione del bene salute (assenza dello spatium vivendi).
Il defunto non può acquistare un diritto risarcitorio perché finché è in vita non c’è perdita e quando è morto non è titolare di alcun diritto e non può acquistarne; il diritto al risarcimento, in altri termini, non avrebbe il tempo di maturare nella sfera giuridica della vittima.
Al contrario, ove intercorra un apprezzabile lasso temporale tra le lesioni ed il decesso, è configurabile il danno biologico trasmissibile iure hereditatis e il danno catastrofale, inteso come danno morale, ossia la sofferenza interiore che postula una agonia della vittima, purché consapevole, dell’approssimarsi della fine della propria vita.
La Cassazione, con la decisione n. 1361 di gennaio 2014, discostandosi dall’orientamento maggioritario ha riconosciuto per la prima volta la risarcibilità del danno tanatologico, rilevando come sarebbe altrimenti contraddittorio se il nostro ordinamento tutelasse l’individuo che subisca lesioni anche lievi, mentre non gli riconoscesse alcuna protezione laddove subisca una lesione della vita, che costituisce bene supremo che tutto racchiude.
La Suprema Corte in tale occasione, inoltre, ha posto in rilievo come l’assunto dell’assenza della capacità giuridica della vittima sia inconferente, poiché non considera che la vittima al momento della lesione mortale è ancora in vita ed è in tale momento che acquista il diritto al risarcimento.
Detto altrimenti, il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce istantaneamente al momento della lesione mortale, ed è trasmissibile iure hereditatis.
Gli ermellini, però, sono tornati sulla vexata quaestio della risarcibilità del danno da morte immediata e a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15350 del 22/07/2015, l’hanno esclusa, con ciò confermando l’orientamento tradizionale maggioritario.
La Cassazione ha argomentato tale ultima decisione sul presupposto che nel nostro ordinamento il risarcimento del danno non risponde ad una logica punitiva, bensì compensativa, con la conseguenza che esso non può essere liquidato ad un soggetto che non esiste più sul piano del diritto a causa della ormai intervenuta perdita della capacità giuridica.
Si tratterebbe, a ritenere diversamente, di un diritto adespota, poiché nel momento in cui si concretizza il pregiudizio l’unico legittimo titolare viene a mancare.
Secondo questa pronuncia è ostativa al risarcimento di tale tipo di danno non solo la mancanza del soggetto sul piano giuridico, ma anche l’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie che finirebbero col far conseguire più denaro ai congiunti. Essi, infatti, sono già titolari iure proprio del diritto al risarcimento del danno esistenziale da lesione del rapporto di parentela qualora abbiano intrattenuto delle relazioni familiari giuridicamente apprezzabili con la vittima.
Le Sezioni Unite, al contrario, hanno ribadito con la decisione de qua la risarcibilità del danno da lesione del bene vita in capo al defunto, ma solo qualora la morte si verifichi dopo un apprezzabile lasso di tempo, ed in tal caso sarà liquidato il danno biologico ed il danno morale, definito catastrofale, in quanto sofferenza interiore per la consapevole attesa dell’exitus.
Queste due ultime voci di danno saranno risarcibili iure hereditatis.
In particolare, per danno biologico o terminale si intende il pregiudizio alla salute consistente nei postumi invalidanti che la vittima ha concretamente sofferto tra il momento della lesione e il momento del decesso.
Il danno morale o catastrofale, invece, consiste nella sofferenza spirituale subita dalla vittima di lesioni nell’assistere al consapevole e progressivo decorso della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine della propria vita.
La Corte nomofilattica è giunta a siffatte conclusioni sottolineando il punto di partenza secondo cui la morte contestuale alle lesioni non rappresenta il massimo vulnus del bene giuridico salute, ma incide sul differente bene giuridico vita che, hanno sottolineato gli ermellini, riceve già ampia ed adeguata tutela a livello penale.
La Cassazione, ad agosto 2015, è tornata sulla questione e sembra aver riconosciuto, prima facie, la risarcibilità del danno tanatologico occupandosi della morte di una paziente intervenuta a seguito di una omessa diagnosi.
In realtà, il caso in questione riguardava la responsabilità medica ed il pregiudizio derivante ai congiunti a seguito del decesso della paziente, la cui malattia non era stata diagnosticata dal sanitario.
La Corte, accogliendo il ricorso degli eredi, ha rinviato alla Corte d’Appello competente affinché riconoscesse il risarcimento del danno morale terminale ad essi dovuto a seguito della morte della congiunta.
E’ evidente che nel caso di specie non ricorreva un danno tanatologico propriamente inteso come danno da morte contestuale alle lesioni, bensì il danno catastrofale quale sofferenza patita dalla vittima prima di morire, durante l’agonia consapevole e l’attesa dell’ineluttabile approssimarsi della propria fine.
Da ultimo, la Cassazione con sentenza n. 22451 del 27/09/2017, Sez. III, si è allineata al dictum delle Sezioni Unite confermando che all’erede della vittima di un incidente stradale deceduto sul colpo non spetta il risarcimento del danno tanatologico.
Ciò in quanto non vi è stato un lasso di tempo sufficiente affinché il credito risarcitorio fosse acquisito nel patrimonio del defunto.
Alla luce di tali considerazioni e degli orientamenti giurisprudenziali maggioritari consolidatesi con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 15350 di luglio 2015, può concludersi che qualora la morte intervenga contestualmente alle lesioni non possa liquidarsi il danno tanatologico quale autonoma posta risarcitoria.
In tali ipotesi non potrà configurarsi un danno biologico in quanto la compromissione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. non si concretizza poiché è immediato l’evento morte; né potrà liquidarsi un danno morale, inteso come catastrofale, poiché la contestualità cronologica porta con sé la conseguenza che la vittima non sia interessata da una agonia consapevole.
Ciò non senza registrare voci dissenzienti che fanno leva sul dato per cui la morte immediata in senso rigoroso non esiste, atteso che è sempre presente un brevissimo intervallo temporale intercorrente tra la lesione e la morte cerebrale. Ed inoltre, merita doveroso pregio la sentenza nomofilattica n. 1361/2014 nella parte in cui ha auspicato una risarcibilità ex se per la perdita del bene vita in quanto oggetto di un diritto inviolabile, assoluto e, pertanto, da considerarsi risarcibile nella sua oggettività.
La morte intervenuta immediatamente dopo la lesione, invece, alla stregua delle più recenti statuizioni della Suprema Corte, consente di dire risarcibile esclusivamente il danno esistenziale, inteso come pregiudizio derivante dalla perdita del rapporto parentale.
Tale voce di danno ha natura non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ed in base ad una lettura costituzionalmente orientata di tale norma, è ristorabile ove vengano compromessi interessi di rango costituzionale.
Il danno non patrimoniale costituisce categoria unitaria, nel senso che non è suscettibile di suddivisioni in sottocategorie e le differenziazioni in danno biologico, danno morale e danno esistenziale assumono valenza puramente descrittiva.
Anche la Cassazione in numerose pronunce, da ultimo sentenza n. 9320 del 2015, ha sancito il principio della unitarietà del danno non patrimoniale, in base al quale il relativo risarcimento deve essere liquidato in una somma omnicomprensiva, atteso che le singole voci (danno esistenziale, danno biologico, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili.
Ciò anche al fine di evitare duplicazioni risarcitorie.
La Suprema Corte ha avuto modo di precisare, altresì, che una liquidazione separata delle varie forme del pregiudizio non patrimoniale è possibile solo ove ricorrano circostanze anomale ed eccezionali che rendano il danno in concreto più grave procedendo, in tal modo, il giudice ad una personalizzazione del risarcimento.
Infine, in ordine al risarcimento del danno patrimoniale da morte del congiunto fatto valere dai genitori per la perdita degli emolumenti che il figlio avrebbe loro verosimilmente elargito, la Cassazione ha precisato che non è sufficiente dimostrare la convivenza tra vittima ed aventi diritto, né la titolarità di un reddito da parte della prima, ma è necessario dimostrare o che la vittima contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che questi in futuro avrebbero verosimilmente avuto bisogno delle sovvenzioni del figlio.
Ciò alla luce delle circostanze del caso concreto, attribuendo rilievo alla condizione economica dei genitori sopravvissuti, alla loro età, alla entità concreta o prevedibile del reddito del defunto.
La Suprema Corte, in tal modo, richiamando il danno da aspettativa, ne ha subordinato il risarcimento ad un rigoroso onere probatorio a carico degli attori i quali devono dimostrare, da un lato, che il de cuius aveva o avrebbe avuto una capacità economica tale da sostenere i propri congiunti e dall’altro, che i superstiti avrebbero avuto bisogno delle sue sovvenzioni e ne avrebbero plausibilmente usufruito.
Avv. Gemma Mariano
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