Il delitto di atti persecutori e la violazione del principio di tassatività – determinatezza

Il delitto di atti persecutori e la violazione del principio di tassatività – determinatezza

L’introduzione dell’art. 612 bis c.p. rubricato “Atti persecutori” (più comunemente noto, mutuando un’espressione del mondo americano, come “stalking”) ad opera dell’art. 7, D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, ha rappresentato la risposta – invero un po’ maldestra – da parte del Legislatore italiano alle spinte mediatiche in atto in quel periodo nel nostro Paese, per cui non vi erano testate giornalistiche che non reclamassero a gran voce forti misure per contrastare l’odioso fenomeno dello stalking, spesso accompagnato ad episodi di violenza nei confronti delle donne.

La risposta approntata dal Legislatore, dunque, è quella consistita nell’introduzione, nel codice penale, del citato art. 612 bis c.p., il quale ha punito con pene ancor più severe fattispecie che erano ricondotte ora nell’alveo del delitto di cui all’art. 612 c.p. (“Minaccia”), ora in quello della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (“Molestia o disturbo alla persone”), o che, invece, non costituivano reato.

L’art. 612 bis c.p. cit., dunque, nella sua attuale formulazione, punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni[1]“chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Come si evince dalla lettura del richiamato testo, per il perfezionamento del delitto in parola si richiede una condotta abituale di minacce o molestie che produca, alternativamente, un perdurante e grave stato di ansia o paura, ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, ovvero il cambiamento delle proprie abitudini di vita.

In dottrina, sin da subito, è stata evidenziata, in relazione alla norma in commento, una palese violazione del principio di tassatività – determinatezza, che, com’è noto, postula il dovere del Legislatore, all’atto della creazione della norma, di procedere ad una precisa determinazione della fattispecie legale, “affinchè risulti tassativamente stabilito ciò che è e ciò che non è penalmente vietato”[2].

Necessario si è rivelato, infatti, fin da subito, l’intervento della giurisprudenza di legittimità, chiamata a riempire di significato, nel corso del tempo, la littera legis: così, ad esempio, è stato affermato il principio per il quale non è necessario che la persona offesa descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (in questi termini: Cass. pen., sent. n. 57704/2017); o, ancora, è stato affermato che, per la consumazione del reato in parola, non è richiesto l’accertamento di uno stato patologico della vittima, essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della persona offesa (così: Cass. pen., sent. n. 16864/2011); inoltre, è stato configurato il reato de quonella condotta di colui il quale sorvegli, o si faccia comunque notare, anche in maniera saltuaria, nei luoghi di abituale frequentazione della persona offesa, indipendentemente dal fatto che la stessa si trovi presente o assista a tali comportamenti (in tal senso: Cass. pen., sent. n. 1629/2016).

A differenza di gran parte delle altre fattispecie incriminatrici – codicistiche o extracodicistiche – la norma in commento presta il fianco, come già rilevato, a numerose critiche in punto di rispetto del principio di tassatività e determinatezza: non sfugge certamente ai più la circostanza che un’esauriente classificazione dommatica di tutte le condotte atte ad integrare la norma in parola non sia possibile, stante l’alto numero di condotte astrattamente ipotizzabili, ma una formulazione tecnicamente più idonea ed articolata sarebbe stata indubbiamente apprezzabile al fine di eliminare l’aurea di indeterminatezza che aleggia sulla norma in parola.

Non può tacersi, pertanto, che, nella prassi, è rimesso esclusivamente al vaglio del giudice stabilire se una data condotta sia sussumibile o meno nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.: ciò, spesso, si risolve, quasi esclusivamente, nel vaglio dell’attendibilità intrinseca (più che estrinseca) delle dichiarazioni rese dalla persona offesa durante l’esame dibattimentale.

Pertanto, se dal punto di vista della vittima è sufficiente provare il cambiamento delle proprie abitudini di vita o il perdurante e grave stato d’ansia ingenerato dalla condotta posta in essere dall’agente, dal punto di vista dell’imputato, invece, fornire la prova di non aver commesso il fatto o che il fatto non sussiste si risolve, spesso, in una vera e propria probatio diabolica,atteso che, come testè sottolineato, non occorre l’accertamento clinico di uno stato patologico della persona offesa. In altri termini, se la norma in parola ben si presta, giustamente, alla tutela della vittima (tanto di sesso femminile, tanto di sesso maschile) in tutte le ipotesi in cui questa sia “ossessionata” dalle condotte del proprio stalker, l’estrema genericità della formulazione dell’art. 612 bis c.p. cit. consegna, in capo all’imputato, delle armi spuntate per poter provare la sua estraneità ai fatti o l’insussistenza del fatto addebitatogli, essendo rimesso all’abilità del difensore il compito, in sede di controesame, di far emergere le contraddizioni nelle versioni rese dalla persona offesa.

Un intervento del Parlamento che modifichi la condotta descritta dall’art. 612 bis c.p., mediante una riformulazione più aderente al principio di tassatività – determinatezza, è indubbiamente necessaria, sia nell’ottica dell’imputato, il quale conoscerebbe con esattezza ciò che è lecito e ciò che non lo è, sia in quella della persona offesa, che potrà fornire prove più pregnanti di quanto subìto e denunciato, non basate quasi esclusivamente sulla valutazione, rimessa al giudice, delle dichiarazioni rese in sede dibattimentale.


[1] Pena aumentata nel massimo edittale da quattro a cinque anni per mezzo dell’art. 1 bis del D.L. 1 luglio 2013, n. 78, conv. con mod. nella L. 9 agosto 2013, n. 94.
[2] In questi termini: F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, 2009, p. 59.

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