Il destino del documento anonimo nel processo italiano

Il destino del documento anonimo nel processo italiano

Sommario: 1. Premessa – 2. Il documento in senso giuridico: profili definitori – 3. Il documento anonimo tra problematiche processuali, divieti ed eccezioni

1. Premessa

La spedizione di scritti anonimi, ossia privi dell’indicazione effettiva dell’autore, è un fenomeno sociale facilmente riscontrabile anche nella pratica giudiziaria in cui frequenti sono i casi di persone che ricorrono all’anonimato per denunciare illeciti realmente accaduti, evitando così i rischi connessi alla deposizione resa davanti alle autorità inquirenti per il timore di possibili rappresaglie da parte dei loro autori. Ciò accade spesso non solo in contesti territoriali dove è molto forte la presenza di organizzazioni criminali mafiose capaci di incutere una condizione di assoggettamento e di omertà tra i consociali, ma anche su tutto il territorio nazionale, specie nel settore dei reati dei pubblici ufficiali contro la p.a. dove le forme degenerative del potere politico-amministrativo sono in grado di incutere nell’utente illecitamente discriminato la paura di esporsi alle ritorsioni degli amministratori pubblici infedeli.

Di fronte all’ampiezza del fenomeno appare doveroso affrontare anche dal punto di vista giuridico la nozione di «anonimo» e stabilire se i principi fondamentali che individuano le coordinate logico giuridiche del momento probatorio, ricavabili dalla Costituzione, dal vigente codice di rito e dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, risultino compatibili con le particolari modalità di conoscenza processuale offerte dagli scritti anonimi.

2. Il documento in senso giuridico: profili definitori

Nella procedura penale, che è il complesso procedimentale regolato dalla legge e diretto all’accertamento della sussistenza del fatto costituente reato e della sua attribuzione alla persona accusata di averlo commesso, uno scritto, tanto se di autore noto quanto se di autore anonimo, assume rilevanza all’interno del procedimento nell’ipotesi in cui esso sia elemento costitutivo di reato, qualora si sostanzi in una circostanza aggravante del reato ed infine qualora appaia significativo per la ricostruzione del fatto di reato per cui si procede. Elencati i casi in cui uno scritto può divenire oggetto di indagine tecnica del grafologo giudiziario è bene analizzare quei prodotti grafici rappresentativi del pensiero umano  che all’interno del diritto penale acquistano particolare rilevanza, cioè i documenti.

La disciplina della prova documentale, prevista agli artt. 234-243 c.p.p., ha visto progressivamente accrescere la propria portata applicativa e, conseguentemente, anche le questioni esegetiche a causa sia dell’evanescenza dei limiti concettuali della nozione stessa di documento sia delle ampie possibilità acquisitive che lo caratterizzano come strumento di arricchimento conoscitivo per il giudice e per le parti.

La definizione di «documento» in senso penalistico e processualpenalistico si ritrova nell’art. 234 comma 1 c.p.p. che ricomprende in tale concetto da un lato alcuni oggetti materiali come «scritti o documenti che rappresentano fatti, cose o persone»[1] e dall’altro, attraverso una elencazione non tassativa, qualsiasi supporto materiale idoneo ad incorporare la rappresentazione della realtà conoscitiva scaturente, di volta in volta, dall’evoluzione delle conoscenze tecnologiche[2]. Si tratta, a ben vedere, di una definizione normativa omnicomprensiva, proiettata nel futuro e nella quale il legislatore ha voluto, altresì, tracciare i requisiti essenziali dell’istituto in esame: la materialità, la capacità rappresentativa, l’uso di tecniche idonee a serbarne la memoria e la riconoscibilità del suo autore[3].

La scrittura, pertanto, deve essere necessariamente realizzata mediante un mezzo idoneo a fissarla (inchiostro, matita, computer, dattilografia ecc.) in modo da essere l’estrinsecazione  materializzata di un pensiero da altri intelligibile almeno per una certa durata di tempo sia per i segni grafici utilizzati (alfabetici, numerici, stenografici ecc.) che per la lingua usata che può indifferentemente essere nazionale, straniera, antica o moderna. Esso può consistere o in un’attestazione di volontà dando origine ai documenti c.d. espositivi ovvero in una dichiarazione di volontà dando origine ai c.d. documenti dichiarativi e deve essere idoneo a dimostrare l’esistenza di tutto ciò che può essere processualmente rilevante[4] ad eccezione però delle «informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel giudizio o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni e dei consulenti tecnici» come tassativamente previsto nel comma 3 dell’art. 234 c.p.p. che vieta l’acquisizione dei documenti recanti tali informazioni poiché non fondate su elementi oggettivi. Ultimo elemento essenziale è la riconoscibilità dell’autore inteso come persona, specificamente individuata, che ha voluto dare origine al contenuto del pensiero che è stato documentato.

L’autore tendenzialmente acquista la paternità dello scritto non solo mediante la sua sottoscrizione, ossia con l’apposizione della firma in calce all’atto che deve essere sempre autografa ma anche attraverso altri elementi di contesto contenuti nella scrittura come timbri, l’intestazione della carta.

Tale elemento è assolutamente necessario perché l’indeterminatezza dell’autore rende intrinsecamente impossibile per il giudice verificarne la genuinità e l’autenticità, così da togliergli anche qualsiasi valenza probatoria in un ordinamento improntato secondo il principio accusatorio enunciato dall’art. 111 Cost. in base al quale «ogni processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice imparziale» che impone la verifica dibattimentale incrociata tra accusa e difesa di ogni fonte di prova.

Appaiono, dunque, assolutamente conformi alla disciplina costituzionale del processo penale accusatorio i divieti di acquisizione e di utilizzazioni delle dichiarazioni anonime e delle denunce anonime contenuti rispettivamente negli artt. 240, comma 1, e 333, comma 3, c.p.p. che precludono « l’ingresso dello scritto anonimo nel processo» e disconoscono «la sua idoneità a costituire prova documentale dei fatti che espone», ed impediscono sia che l’anonimo « possa minimamente influire sulla formazione del convincimento del giudice» sia che il pubblico ministero eserciti l’azione penale sulla sola base di uno o più scritti anonimi per quanto dettagliati nella descrizione dei fatti di reato e della responsabilità del presunto autore.

Al di là delle posizione più integraliste che negano in radice la qualifica di documento a quanto realizzato da uno sconosciuto[5] viene in luce la necessità di definire il concetto di anonimo – associato inscindibilmente ad altri istituti del processo penale quali  documento, denuncia, dichiarazione, notitia criminis –  al fine di verificare la sussistenza di eventuali spazi interpretativi che potrebbero sostanziarsi in elusione dei divieti sopra enunciati.

3. Il documento anonimo tra problematiche processuali, divieti ed eccezioni

La problematica del rapporto tra l’anonimo ed il processo penale è avvertita da sempre. Il basarsi solo sulla struttura astratta dell’istituto processuale del documento e dei suoi elementi costitutivi ha portato all’affermazione di una esplicita tendenza di fondo degli ordinamenti moderni – e di quello italiano in particolare – di “anestetizzare” o meglio “neutralizzare” gli effetti potenzialmente producibili o comunque ipotizzabili in astratto sul piano procedurale da un documento anonimo[6]. E’ stato tuttavia sottolineato che il nocciolo della questione non è tanto quello dell’esatta individuazione della morfologia struttura del documento e della connessa tipizzazione degli elementi generalmente caratterizzabili l’istituto quanto piuttosto quello di ragionare in termini analitici vale a dire sulla configurabilità di una sorta di «capacità di trasferimento conoscitivo probatorio» come caratteristica ontologica del documento anonimo[7]. Punto di partenza di tale indagine  da cui si possono trovare elementi avallanti la chiave di lettura appena tracciata è, come si è ripetuto più volte, un attento esame del concetto di «anonimo».  Con tale aggettivo in ambito procedurale penale si intende tutto ciò che, non costituendo corpo di reato, è ontologicamente in grado (ex se) di produrre stati o momenti di conoscenza rispetto a degli accadimenti storici definiti, prescindendo contestualmente dalla possibile identificazione  dell’autore materiale della relativa fonte di conoscenza[8].

E’ invece controverso se il documento anonimo sia solo quello di cui è impossibile accertare la paternità (c.d. anonimo sostanziale) o anche quello la cui paternità, volutamente celata dal suo autore, sia stata successivamente identificata (c.d. anonimo formale)[9]. La dottrina prevalente ritiene preferibile la prima opzione interpretativa e circoscrive l’operatività del divieto di uso ai soli casi di paternità impossibile da accertare; ne segue, dunque, che se all’esito della perizia grafica viene accertata l’identità dell’autore del documento quest’ultimo cessa di essere anonimo ed il suo contenuto acquista valore probatorio con successiva valutazione della sua attendibilità da parte del giudice[10].

E’ bene inoltre precisare che l’art. 240, comma 1, c.p.p. non mette al bando tutti i documenti anonimi ma solo quelli indiretti ossia le dichiarazioni; perciò il divieto sancito dalla suddetta norma non vale per i documenti diretti, quali foto o filmati, che possono essere acquisiti anche se incisi da sconosciuti[11]. Ciò in quanto  si riteneva che i primi più che rappresentare un fatto, descriverebbero le sensazioni che esso ha provocato nell’autore del documento mentre i secondi (foto, video, registrazioni sonore ecc.) avrebbero potuto offrire rappresentazioni obiettive[12]. Tale tesi con l’evolversi della tecnologia ha convinto sempre meno in quanto un’immagine o filmato possono essere modificate sulla base di diverse combinazioni che vanno dai filtri alla luce, dal tipo di obiettivo alla selezione dell’oggetto da riprendere fino all’angolo visuale da cui catturare l’immagine. Resta, dunque, la necessità per il giudice di valutare l’attendibilità dell’informazione veicolata dal documento diretto.

In sintesi si può affermare che la distinzione tra documenti dichiarativi anonimi e documenti non dichiarativi anonimi sta nel fatto che per i primi la mancata conoscenza dell’autore preclude radicalmente ex art. 240, comma 1, c.p.p. l’acquisizione e l’utilizzazione mentre per i secondi l’anonimato potrà al più portare ad un giudizio di inaffidabilità[13].

L’espresso principio di esclusione dell’anonimo ricavabile dalla norma appena citata[14] patisce alcune deroghe, ereditate dalla previgente normativa[15], che prevedono un regime d’acquisizione privilegiato della prova: vengono in considerazione i documenti che costituiscono corpo del reato o che provengono dall’imputato.

La prima eccezione costituisce un’applicazione del principio contenuto nell’art.235 c.p.p. che sancisce il dovere per il giudice di acquisire il documento anonimo soltanto quando in quel procedimento penale ove le dichiarazioni in esse contenute costituiscano corpo di reato ossia quando mediante esse o su di esse è stato commesso il reato oppure quando esse ne costituiscono il prodotto, il prezzo o il profitto[16].

In questi casi, si badi, il documento è introdotto nel processo penale non per il suo contenuto rappresentativo bensì per la sua materialità e per la sua stretta compenetrazione con il fatto di reato sicché è del tutto irrilevante verificarne la fonte o l’attendibilità delle dichiarazioni ivi espresse.

La seconda eccezione è espressa dall’art. 237 c.p.p. e consente di utilizzare quella dichiarazione che «provenga comunque» dall’imputato. L’ambiguità del termine provenienza ha suscitato diversi orientamenti interpretativi che implicitamente hanno coinvolto anche la portata della deroga stessa. Senza qui soffermarsi sul pensiero di chi ritiene che esso debba essere concepito come derivazione personale comprendente anche la formazione materiale dello scritto da parte dell’imputato[17], dall’impiego dell’avverbio «comunque» contenuto nell’art. 237 c.p.p. nonché dal favor legislativo verso l’accoglienza nel processo penale di tutto ciò che proviene dall’imputato si può evincere che tale eccezione è rivolta a tutti i documenti di cui l’imputato ha la semplice detenzione[18].

 

 

 

 

 

[1] Antonio Grevi nello specifico rileva che nel codice penale i documenti in senso stretto sono gli scritti formati fuori l’ambito processuale nel quale devono essere introdotti affinché possano acquisire rilevanza probatoria; mentre gli atti sono gli scritti formati all’interno del procedimento e rappresentativi di quanto accaduto come ad esempio i verbali.  Cf. A. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1995, pagg. 382 ss.
[2] Sebbene all’epoca in cui il codice fu redatto fossero a mala pena conosciuti ricadono nel campo applicativo dell’art. 234 c.p.p. anche i documenti informatici il cui tratto saliente è la loro estrema fragilità, nel senso che è molto facile alterarli; un dato questo di cui il legislatore ha tenuto conto in varie disposizioni come gli artt. 244, comma 2, 247 comma 1 bis, 254 bis , 354 comma 2 c.p.p nonché nell’art. 20, comma 1, del c.a.d.. Al riguardo anche la suprema Corte in molteplici sentenze ha affermato che « poiché i documenti informatici sono per loro natura violabili e le informazioni in esse contenute suscettibili di continue trasformazioni in caso di disconoscimento della conformità dei fatti in esso rappresentati nulla impedisce al giudice di accertarne l’autenticità attraverso mezzi di prova o presunzioni» Cf. Cass. Pen. Sent. n. 3122/2015.  Per approfondimenti sul valore probatorio del documento informatico si rimanda a G. BUONOMO, Il valore giuridico e probatorio del documento informatico, Roma, 2016.
[3] Alcuni studiosi sostengono che i documenti si caratterizzino inoltre per l’intenzionalità della rappresentazione che li distinguerebbe dai meri segni, quali il foro sul muro lasciato da una pallottola. Si tratta, tuttavia, di un requisito che contraddistingue la prova documentale solo da un punto di vista statico e non ontologico la cui mancanza non escluderebbe che quello scritto venga classificato come documento.
[4]  Appare esaustiva la definizione di documento data da Antonio Cristiani come «prova storica reale potenziale». Cf. A. CRISTIANI, Falsità in atti, in Noviss. Dig. It., VII, Torino, 1961, pag.3.
[5] Pongono l’accento sulla decisività dell’opzione legislativa P. TONINI, Diritto processuale Penale, Milano, 2023; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto Penale. Parte speciale, Milano, 2008.
[6] Sotto questo profilo va segnalata una sostanziale inversione di tendenza rispetto ad un passato «tutt’altro che remoto dove si riconosceva un particolare rilievo alle delazioni senza paternità che, anzi, venivano incoraggiate perché si riteneva che potessero facilitare la scoperta di reati» Cf. R. CANTONE, Denunce anonime e poteri investigativi del pubblico ministero, in Cass. Pen., 1996, pag.2981.
[7] Cf. D. DE ROSA, Le “fonti anonime” di conoscenza ed il processo penale in Arch. Pen., 2017, pag.8
[8] Ivi, pag. 4
[9] Le due tipologie di anonimo vengono ricondotte a due differenti matrici: l’anonimo formale è legato ad una matrice “etica” molto sentita quando fu varato il codice del 1930 perché era strettamente legata alla mitologia fascista dell’uomo forte tant’è che coloro che scrivevano in anonimato erano considerati «ignobili e vili»; l’anonimo sostanziale è invece legato ad una matrice “laica” alla quale interessa solo che l’anonimato mette in crisi il principio del contraddittorio e il diritto di difesa. Cf. A. CAMMON, Fondamenti di procedura penale, Milano, 2023, pag.355.
[10] Tra i tanti autori cf.  F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2012, p. 807; E. D’AMBROSIO, Scritti anonimi e loro utilizzazione come corpo del reato, in Foro it., 2001, pag. 490; C. SQUASSONI, l’ art. 240, in M. CHIAVARIO, Commento al codice di procedura penale, Torino,1990, p.665.
[11] Cf. Cass. Pen. Sez. I, sent. n. 42130/2012
[12] Si avverte qui l’eco di Carnelutti il quale riteneva che «immagini o suoni meccanicamente riprodotti […] sono puri fenomeni: non esistono menzogne meccaniche» Cf. F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1960, pag. 222.
[13] Cf. P. FELICIONI, Il regime giuridico dei documenti anonimi alla luce del principio del necessario controllo sulle fonti di conoscenza, in Proc. Pen. e giustizia, n. 4/2022, pag. 1030.
[14] Dal momento che la relativa nozione è incentrata semplicemente sull’attitudine rappresentativa, la categoria della prova documentale è molto ampia e si presta ad essere adoperata per raggirare le regole fissate da altri strumenti di convincimento. Per scongiurare questo rischio vengono diagnosticati divieti impliciti per determinati documenti come quelli narrativi, la relazione del curatore fallimentare ecc. Cf. . A. CAMMON, Fondamenti di procedura penale, Milano, 2023, pag. 356.
[15] Per approfondimenti circa la disciplina degli scritti anonimi sino al codice di procedura penale del 1989 cf. A. GUSTAPANE, La disciplina in Italia degli scritti anonimi nel diritto penale e processualpenale in R. TRAVAGLINI (a cura di), Lettere anonime. Risvolti peritali, giuridici, psicologici, criminologici e grafologici, Brindisi, 2011, pagg. 179 e ss.
[16] Cf. P. FELICIONI, Il regime giuridico dei documenti anonimi alla luce del principio del necessario controllo sulle fonti di conoscenza, in Proc. Pen. e giustizia, n. 4/2022, pag. 1031
[17] Cf. G. UMBERTIS, Prove in Sistema di procedura penale, Milano, 2020, pagg. 280 e ss; P.ZACCHE’,  La prova documentale in G. Umbertis – P. Voena, Trattato di procedura penale, Milano, 2012, pagg. 51 ss.
[18] Cf. N. ROMBI, Le prove, in P. Ferrua – G. Spangher,  La prova penale, Torino, 2013, pag. 602.

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