Il diritto a conoscere le proprie origini. Nota a Cass. civ., Sez. Un., 25 gennaio 2017, n. 1946
1. I termini della questione
La questione sottesa alla pronuncia in commento consiste nel comprendere quale sia la soluzione da seguire in tutti quei casi in cui, in sede di parto, la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata ma, successivamente, il figlio decida di voler conoscere le proprie origini. Il problema si pone perché la Corte costituzionale[1] ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 28 comma 7 l. 4 maggio 1983 n. 184, come sostituito dall’art. 177 comma 2 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 comma 1 D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396 – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.
In altri termini, se, prima dell’intervento della Consulta, la norma escludeva in via assoluta che il figlio nato da parto anonimo potesse accedere alle informazioni relative alla madre naturale, rendendo di fatto la scelta dell’anonimato irreversibile, in seguito alla declaratoria di incostituzionalità è caduto detto limite. Tuttavia, mancando una norma ad hoc circa il procedimento da seguire, la giurisprudenza era divisa su come procedere in tali ipotesi.
2. Gli orientamenti contrastanti
Secondo una prima lettura – seguita nella vicenda de qua dalla Corte d’appello di Milano – non sarebbe possibile dare seguito alla richiesta del figlio a che il giudice interpelli riservatamente la madre naturale circa la persistenza della sua volontà di non essere nominate, in quanto a tal fine sarebbe necessario l’intervento del legislatore. In particolare, là dove la Corte costituzionale ha parlato di “procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”, essa avrebbe posto una riserva di legge. Pertanto, mancando ad oggi una normativa sul punto, è precluso al giudice creare ex novo un procedimento, poiché altrimenti violerebbe il principio di separazione dei poteri. In definitiva, si è ritenuto che “il punto di equilibrio tra i due diritti in gioco – quello del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre di mantenere l’anonimato – si realizzerebbe proprio attraverso la disciplina del procedimento di interpello”. Sempre ad avviso di questa opinione, sussisterebbero altresì ostacoli di natura processuale, in quanto il pieno contraddittorio che connota anche i procedimenti in camera di consiglio ed il diritto di accedere liberamente a tutte le risultanze istruttorie, confliggerebbe con la necessità della massima riservatezza di questo procedimento.
Di diverso avviso è invece un’altra linea di pensiero che, basandosi sui principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza 25 settembre 2012, causa Godelli c. Italia) e sulla sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, ammette la possibilità di interpello riservato anche senza legge. A sostegno di tale impostazione si osserva che la norma dichiarata incostituzionale non può più essere applicata e quindi il giudice, nell’individuare la regola per il caso concreto, deve ricorrere alla disciplina generale di cui all’art. 28 l. 184/1983 ed a quella relativa ai procedimenti in camera di consiglio e di protezione dei dati personali, al fine di conoscere la volontà attuale della madre se intenda mantenere ferma o meno la scelta originaria per l’anonimato. Infatti, se è vero che il legislatore non si è espresso sul punto, è anche vero che il giudice deve garantire la concreta attuazione al diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, sempre nel rispetto del contrapposto diritto all’anonimato della madre.
3. Le questioni rilevanti
Alla luce di detto contrasto giurisprudenziale, il Procuratore generale nel procedimento de quo ha rilevato l’opportunità di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, le quali sarebbe chiamate a pronunciarsi su due distinte questioni:
in primo luogo, sarebbe opportuno specificare il rapporto sussistente tra il diritto di ciascuno a conoscere le proprie origini ed il diritto all’oblio della donna che ha partorito avvalendosi dell’anonimato e la consequenziale tutela che agli stessi è riconosciuta nell’ordinamento italiano dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 278/2013;
in secondo luogo, bisognerebbe interpretare la pronuncia della Corte costituzionale ed inquadrarla nell’ambito delle diverse tipologie decisorie, al fine di tracciare spazi e limiti di intervento del giudice comune nell’esercizio del suo potere giurisdizionale e nel rispetto delle prerogative del Parlamento.
4. L’intervento delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite[2], dichiarato fondato il ricorso, inquadrano preliminarmente la disciplina a livello sistematico, spiegando come la l. 184/198, all’art. 28 commi 5, 6 e 8, nel testo sostituito dalla l. 149/2001, attribuisce al figlio adottivo che abbia almeno venticinque anni il diritto potestativo di accedere a informazioni sulla sua origine e sull’identità dei suoi genitori biologici, ferma rimanendo l’identità acquistata con la relazione con i genitori adottivi; tale diritto spetta anche prima del raggiungimento del suddetto limite d’età, in caso di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. Infine, il comma 7, quale norma di chiusura del sistema, prevedeva una regola invalicabile per il figlio nato da parto anonimo, escludendo l’accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato, alla nascita, di non volere essere nominata ai sensi dell’art. 30 D.P.R. 396/2000. Tale ultima disposizione andava letta in combinato disposto con l’art. 30 del regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a mente del quale è necessario rispettare l’eventuale volontà della madre di non essere nominata e con l’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, che non permette all’interessato l’accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica contenenti le informazioni identificative della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento della nascita, se non trascorsi cento anni dalla formazione di quei documenti. In questo modo, evidentemente, la scelta compiuta dalla madre al momento del parto era assoluta ed irreversibile: in caso di scelta dell’anonimato, il giudice non avrebbe potuto fornire alcuna informazione identificativa al figlio.
Nel 2005 fu sollevata una prima questione di legittimità, ritenuta infondata dalla Corte costituzionale[3], in quanto l’assolutezza del diritto all’anonimato sarebbe “espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda”, quale garanzia per assicurare che il parto avvenga “in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio”.
Ribaltando la precedente decisione, la Corte costituzionale, con la già citata sentenza n. 278/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 comma 7 l. 184/1983, osservando che, sebbene nel nostro sistema la tutela della vita e della salute costituisca scopo primario, non si può non riconoscere che il diritto del figlio a conoscere le proprie origini sia importante in un sistema costituzionale di tutela della persona. Più nel dettaglio, la disciplina in discorso risultava eccessivamente rigida e l’irreversibilità del segreto contrastava con gli artt. 2 e 3 Cost., essendo irragionevole che la scelta per l’anonimato risulti definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale e dovendosi piuttosto ammettere che la volontà espressa in un dato momento sia sempre, eventualmente, revocabile. Sarebbe pertanto opportuno, osservava la Corte, garantire la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre anonima “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”. A tal fine il legislatore dovrebbe “introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata ed a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo”.
Tra questi due dicta della Corte costituzionale è intervenuta altresì la Corte europea dei diritti dell’uomo[4], la quale ha statuito che la normativa italiana non mantiene un equilibrio tra i diritti e gli interessi in causa, anzi, non predisponendo alcun meccanismo idoneo a bilanciare il diritto del figlio a conoscere le proprie origini ed il diritto della madre a mantenere l’anonimato, dà una preferenza incondizionata a quest’ultimo.
Per quanto concerne, poi, la natura della sentenza n. 278/2013, essa è una pronuncia di accoglimento nonché una sentenza di illegittimità costituzionale, pertanto produttiva degli effetti di cui all’art. 136 Cost. e art. 30 comma 3 l. 87/1953 (la norma dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia e non può avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Dunque, poiché la norma che escludeva l’interpello della madre è stata rimossa dall’ordinamento a partire dalla pubblicazione della sentenza della Corte, il giudice non può negare tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l’anonimato. Diversamente, si continuerebbe a dare applicazione all’art. 28 comma 7 l. 184/1983, operazione non consentita in quanto alla declaratoria di incostituzionalità consegue per legge l’effetto della rimozione della norma giudicata illegittima. Inoltre, si manterrebbe quel vulnus agli artt. 2 e 3 Cost. che la Corte non solo ha accertato, ma ha anche sanato e rimosso, introducendo in via di addizione il principio che il figlio possa chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della sua dichiarazione. Si tratta, dunque, di una sentenza additiva di principio con cui, dichiarata l’illegittimità costituzionale del citato art. 28 comma 7 nella parte in cui non prevede il diritto del figlio a provocare la possibile revoca della scelta dell’anonimato, si è operata un’addizione normativa concernente l’opposto principio, ossia la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca della dichiarazione.
Pertanto la disposizione in commento è rimasta, con l’aggiunta di tale principio, individuando un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato ed i diritti della madre: da un lato, è ora possibile per il giudice interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua volontà attuale qualora il figlio sia interessato a conoscere la sua vera origine, dall’altro, qualora la madre insista nel diniego di svelare la propria identità, la sua scelta troverà prevalenza.
Una volta spiegato il meccanismo di funzionamento delle pronunce additive, le Sezioni Unite hanno affrontato e superato una serie di limiti che la teoria “restrittiva” aveva opposto all’ammissibilità del procedimento di interpello.
Innanzitutto, la circostanza per cui la Corte costituzionale abbia sottolineato la necessità di un procedimento stabilito per legge e di un intervento legislativo, non esonera i giudici, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio né implica un divieto di individuare nel sistema regole idonee per la decisione dei casi concreti. Invero, la giurisprudenza costituzionale in tema di sentenze additive a dispositivo generico[5] è costante nel ritenere che l’autorità giudiziaria sia legittimata, pur nel silenzio del legislatore, ad applicare i principi sanciti dalla Corte costituzionale. Le sentenze additive di principio sono pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione, giacché, da un lato, orientano il legislatore nella necessaria attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale, dall’altro, guidano il giudice nell’individuare soluzioni applicative utilizzabili medio tempore, estraendo da quel principio e dal quadro normativo generale esistente la regola per il caso concreto.
In secondo luogo, non costituisce ostacolo neppure l’impossibilità per il giudice di trovare nel sistema un meccanismo idoneo a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale. Il procedimento utilizzabile è infatti quello base, di volontaria giurisdizione, di cui all’art. 2 commi 5 e 6 l. 184/1983, ossia un procedimento che si svolge, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. Esso, posti gli adattamenti necessari ad assicurare la riservatezza della madre, ben può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora fermo l’anonimato. Quanto alle modalità, vi sono alcune norme di riferimento, cioè l’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali che, consentendo in ogni tempo la comunicabilità delle informazioni non identificative ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica purché siano rispettate le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile, detta un criterio utile per il giudice nell’interpello della madre, nonché il comma 6 dell’art. 28, per cui l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e l’identità dei genitori biologici deve avvenire con modalità tali da evitare un turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente.
Le Sezioni Unite, poi, ritengono che la soluzione adottata sia altresì coerente con la tutela dei diritti di matrice convenzionale, cosa fondamentale in quanto il diritto interno deve essere interpretato in senso conforme alla CEDU per come interpretata dalla Corte di Strasburgo (c.d. interpretazione convenzionalmente conforme). E sul tema, come detto, si è pronunciata proprio la Corte EDU con la sentenza Godelli, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione.
La Corte afferma inoltre di condividere i diversi protocolli seguiti da quei Tribunali per i minorenni che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 278/2013, hanno ammesso l’istanza del figlio di interpello della madre naturale per un’eventuale revoca della scelta di rimanere anonima fatta al momento del parto. Ciò dimostrerebbe che, sebbene manchi una disposizione di legge, è ugualmente possibile garantire i diritti del figlio senza ledere quelli, di pari rango, della madre.
Vengono poi richiamate alcune pronunce in cui la Cassazione[6] si è occupata del caso in cui la genitrice biologica che aveva scelto il segreto sia poi morta, ipotesi in cui è stato riconosciuto il diritto del figlio di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica. Ciò in quanto si determinerebbe la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto e l’affievolimento, se non la scomparsa, delle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.
Tanto premesso, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”.
[1] Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278.
[2] Cass. civ., Sez. Un., 25 gennaio 2017, n. 1946.
[3] Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425.
[4] Corte europea dei diritti dell’uomo, causa Godelli c. Italia, ricorso n. 33783/09, sentenza 25 settembre 2012. Nella specie, la signora G., nata da parto anonimo, aveva chiesto di accedere alle proprie origini personali, ma i giudici italiani avevano opposto un rifiuto assoluto e definitivo, in applicazione dell’art. 28 comma 7 l. 184/1983. La Corte di Strasburgo ha ricordato che nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della CEDU rientra anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano, essendo protetto dalla Convenzione “l’interesse vitale…ad ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori”.
[5] Ex multis Corte cost. 295/1991 e 74/1996 per cui “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa mentre lascia al legislatore, riconoscendone l’innegabile competenza, di introdurre e di disciplinare anche tale meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto”.
[6] Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024 e Cass. civ., sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838.
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