Il “diritto a non nascere se non sani”: la Cassazione ne esclude la configurabilità
Ponendo fine ad un acceso contrasto giurisprudenziale, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 25767/2015, ha escluso la configurabilità del c.d. “diritto a non nascere se non sani”. La questione – ampiamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza nell’ultimo decennio – attiene al riconoscimento del diritto, in capo al nascituro, ad una autonoma pretesa risarcitoria nei confronti dell’équipe medica e della struttura sanitaria, ove lo stesso sia affetto da anomalie o gravi malformazioni congenite idonee a comprometterne la qualità della vita al momento della nascita, e delle quali la madre non era stata previamente informata.
Tale concezione muove dall’assunto per cui l’omessa comunicazione da parte del medico della presenza di anomalie genetiche del concepito, priverebbe la madre del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza previsto ai sensi degli art. 4, 6 e 7 della l. 194/1978; di talché, la prosecuzione della gravidanza e la successiva nascita configurerebbero un danno risarcibile in capo alla madre (per la lesione del suo diritto di autodeterminazione), e di riflesso in capo al neonato, condannandolo ad una esistenza “infelice e non dignitosa”. In sintesi, il diritto a non nascere se non sano postulerebbe il diritto del nascituro a vivere una vita sana, in mancanza della quale sarebbe preferibile il “non nascere affatto”.
Il caso. Nel caso in esame, i genitori ricorrenti imputavano al medico l’omissione colposa di ulteriori approfondimenti sullo stato di salute del feto, dopo che gli esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, volti ad accertare la possibile presenza di malformazioni genetiche del nascituro, avevano evidenziato valori anomali. Nel pronunciarsi sulla questione, giudici di merito avevano escluso la legittimazione attiva della figlia minore alla richiesta di risarcimento, negando l’esistenza nell’ordinamento di un “diritto a non nascere”, prospettandosi altrimenti l’ammissibilità di quell’aborto eugenetico, in assenza di pericolo per la salute della madre, più volte censurato dalla giurisprudenza di legittimità.
I precedenti. La questione, impugnata innanzi alla Corte di Cassazione, veniva poi rimessa alle Sezioni Unite, ravvisandosi un contrasto nei precedenti orientamenti giurisprudenziali. Un primo filone interpretativo, per vero maggioritario, affermava che ammettere l’esistenza di un diritto a non nascere se non sano significherebbe riconoscere l’esistenza di un diritto adespota: al nascituro, infatti, deve essere negata la legittimazione attiva all’azione risarcitoria, sulla considerazione per cui allo stesso non è riconosciuta soggettività giuridica. L’art. 1 cod. civ., infatti, dispone che “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita“, e che del tutto eccezionali sarebbero, di conseguenza, i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 254, 320, 462, 687, 715, 784 cod. civ.), in ogni caso “subordinati al momento della nascita“. Ammettere tale pretesa in capo al nascituro condurrebbe ad una situazione paradossale: da un lato, il nascituro non avrebbe la capacità giuridica per l’esercizio del diritto; dall’altro, solo il nato con malformazioni genetiche potrebbe esercitare tale diritto: ma poiché trattasi di un diritto “a non nascere”, è logica conseguenza che, una volta venuti al mondo, non vi è più alcun diritto da far valere. La non configurabilità del diritto a non nascere se non sani si basa sull’assunto per cui “non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai, quindi, la possibilità di esercitarlo” (Cass. Civ. n. 14488/2004).
A tale orientamento si contrappone una più recente interpretazione della Suprema Corte, per cui il bambino nato malformato può personalmente avanzare la pretesa risarcitoria: ciò non in virtù del suo diritto a non nascere, ma piuttosto riconoscendo il risarcimento per una “wrongful life“, a ristoro dei futuri patimenti per la propria condizione esistenziale “diversa”. L’orientamento in questione si fonda sulla violazione – da parte di tale condizione esistenziale presuntivamente indesiderata – di plurime disposizioni costituzionali:
artt. 2-3 Cost., per la limitazione al pieno sviluppo della persona e della personalità del nato, come singolo e nelle formazioni sociali, nonché per una perdurante condizione di diseguaglianza dal resto dei consociati.
artt. 29-31 Cost., indirettamente violati nella misura in cui la dimensione familiare risulterebbe “alterata” dalla presenza del nato malformato, stante la maggior difficoltà dei genitori ad adempiere ai diritti-doveri contenuti nelle norme costituzionali.
art. 32 Cost., laddove il diritto alla salute del nato malformato si intende violato in virtù di una perdurante condizione di malessere psicofisico causato dalla malformazione stessa.
Secondo tale interpretazione, il nato malformato non esercita il suo diritto a non nascere, bensì fa valere la lesione del suo diritto alla conduzione di una vita dignitosa e in condizione di uguaglianza, e del suo diritto alla salute: “oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irrimediabile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita” (Cass. Civ. 16754/2012).
La decisione. Le Sezioni Unite considerano nucleo centrale della disamina quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio ex. art. 1 cod. civ. Premettendo che le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro di cui al comma 2 hanno natura eccezionale, la Corte ha smentito quell’orientamento giurisprudenziale che considerava il diritto a non nascere se non sani come un diritto adespota: tale interpretazione è stata infatti da tempo superata da quella giurisprudenza di legittimità per cui il diritto al risarcimento, pur se per un fatto anteriore alla nascita, diviene azionabile ed attuale dopo la nascita del soggetto. A prescindere da tali considerazioni, le Sezioni Unite negano però la necessarietà di subordinare la tutela del nascituro alla sua soggettività giuridica. Vi è, infatti, un erroneo convincimento che per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto. Ciò che emerge, al contrario, è che alla tutela del nascituro si può pervenire considerando lo stesso come “oggetto di tutela”. Come già la precedente giurisprudenza di legittimità aveva infatti sottolineato (Corte Cost. n. 27/1975; Cass. Civ. n. 9700/2011; Cass. Civ. n. 5881/2000), il nascituro è un soggetto dotato di rilevanza giuridica, al quale inoltre una serie di previsioni normative apprestano specifica tutela:
l’art. 1, c.1, L. 40/2004, in materia di procreazione medicalmente assistita, annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito, disponendo che “ai fini di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito“.
l’art. 1, L. 194/1978, in materia di norme per la tutela sociale della maternità ed interruzione volontaria della gravidanza, assicura la tutela della vita umana anteriormente all’evento-nascita: “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio“.
la L. 405/1975, in materia di istituzione dei consultori familiari, afferma l’esigenza di proteggere il concepito (art. 1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi… c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento”).
infine, l’art. 254 cod. civ., richiamato dallo stesso capoverso dell’art. 1 c.c., prevede il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questo quadro normativo deve quindi ricostruirsi la legittimazione ad agire del nascituro che, sebbene non fornito di soggettività giuridica ai sensi della previsione dell’art. 1 cod. civ., è pacificamente riconosciuto dall’ordinamento come oggetto di tutela, ed in quanto tale allo stesso non può negarsi un’astratta ammissibilità all’azione, volta al risarcimento di un danno ingiusto cagionatogli durante la gestazione.
La tesi neppure contrasta con la teoria della causalità: ben potrebbe darsi, proseguono le Sezioni Unite, che tra la causa del danno e l’evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al risarcimento solo al dispiegarsi degli effetti pregiudizievoli – al momento della nascita -, purché senza il concorso di concause sopravvenute ex art. 41 cod. pen. La responsabilità del medico nell’omessa comunicazione alla madre circa la possibilità di malformazioni del feto, è inoltre una responsabilità mediata, in quanto non incide direttamente sul nascituro, ma sullo stesso si riverberano autonomamente nell’aver privato la madre di una facoltà espressamente riconosciutale dalla legge ai sensi della citata L. 194/1978.
La non configurabilità del diritto a non nascere se non sani riposa quindi su un’altra considerazione. Si è detto infatti come il nascituro possa essere astrattamente legittimato ad avanzare una autonoma pretesa risarcitoria, pur nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita; così come non vi sono elementi interruttivi del nesso di causalità fatto illecito – evento lesivo, pur nella traslazione degli effetti al momento della nascita. Ciò che impedisce la configurabilità in concreto del c.d. diritto a non nascere se non sani, parte però dal concetto stesso di danno-conseguenza, così come desumibile dall’art. 1223 cod.civ. (“il risarcimento del danno […] deve comprendere così la perdita subita…“). Il concetto di danno consacrato all’articolo 1223 cod.civ. è riassumibile nell’espressione empirica dell'”avere di meno” a seguito dell’illecito; ma, analizzando il contenuto del diritto, il danno provocato dalla condotta omissiva del medico sarebbe la nascita, il che postulerebbe la morte come assenza di danno. La tesi favorevole a tale ricostruzione si presta così ad un paradosso, giacché, analizzando i termini di paragone prima e dopo l’illecito, la “non vita da interruzione della gravidanza” non potrà mai configurare, ex art. 1223 cod. civ., una situazione più favorevole rispetto all’alternativa-nascita, per quanto affetta da malformazioni congenite. L’ordinamento, quindi, non riconosce un diritto alla non vita, per la contraddizione insuperabile che lo stesso porta con sé: ossia, l’assunto per cui la non nascita costituirebbe un’alternativa più favorevole alla nascita.
Se si ammettesse pregio giuridico a tale orientamento, si finirebbe “con l’assegnare al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale”, e si assisterebbe ad una “reificazione dell’uomo”, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile solo in ragione dell’integrità psico-fisica.
Le Sezioni Unite concludono infine distinguendo il diritto alla non vita dal c.d. “diritto di staccare la spina”: quest’ultimo, infatti, presuppone una manifestazione positiva di volontà ex ante da parte del paziente (c.d. testamento biologico); allo stesso modo, il nato malformato nemmeno potrebbe richiamare il diritto di autodeterminazione delle madre, leso dalla condotta omissiva del medico, al fine di una propagazione intersoggettiva degli effetti pregiudizievoli (Cass. Civ. n. 9700/2011): il diritto di autodeterminazione della madre, alla luce della L. 194/1978, è posto in relazione ad un delicato bilanciamento con il suo preesistente diritto alla salute personale; diritto che, di conseguenza, non può propagarsi al nascituro stante la sua personalissima natura.
Diverso ancora è il c.d. “diritto a nascere sani”, tutelato ex art. 32 Cost.: il diritto all’integrità psicofisica deve essere riconosciuto anche in capo al nascituro, in quanto come detto astrattamente oggetto di tutela giuridica. La differenza riposa, tuttavia, sulla semplice considerazione che in questo caso il feto è stato concepito sano, senza alcuna malformazione o anomalia genetica: a determinare la lesione alla sua integrità fisica durante la gestazione è stato infatti l’intervento commissivo colposo del medico, determinante per la successiva nascita “non sana”. Ne deriva che, logicamente, sono ben diverse le due accezioni di “diritto a non nascere se non sani” e “diritto a nascere sano”, laddove solo nel secondo caso è riconosciuta al nascituro un’effettiva lesione intesa come deminutio rispetto alla condizione pregressa ex art. 1223 cod. civ. provocata dall’apporto causale commissivo del medico.
L’argomentazione delle Sezioni Unite può quindi racchiudersi nella seguente massima: “In astratto non può essere negata la titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato alla tutela risarcitoria, non trovando essa un ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito rispetto alla nascita – giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell’art. 1 c.c. – né nelle teorie della causalità giuridica, perché tra causa ed evento lesivo può intercorrente uno spazio intertemporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole purché senza il concorso di determinate cause sopravvenute. In concreto, tuttavia, ove il figlio handicappato lamenti di essere nato non sano perché la propria madre, non essendo stata informata dal medico della ricorrenza della malattia genetica fetale, non ha potuto ricorrere all’interruzione della gravidanza, fa difetto un danno conseguenza, quale consacrato dall’art. 1223 c.c., stante che il danno riuscirebbe legato alla stessa vita del bambino e l’assenza di danno alla sua morte”.
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