Il diritto al non-refoulement e la scriminante della legittima difesa: il caso “Vos Thalassa”
Sommario: 1. Premessa – 2. Il fatto – 3. La pronuncia della Suprema Corte – 3.1. L’obbligo di motivazione rafforzata violato dalla Corte di Appello – 3.2. Le norme in materia di soccorso marittimo – 3.3. Il “luogo sicuro” – 3.4. Il principio di non respingimento – 3.5. La legittima difesa
1. Premessa
Con sentenza n. 15869 del 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), la Corte di Cassazione, Sesta Sezione Penale, ha annullato senza rinvio poiché “i fatti non sussistono” la sentenza con cui la Corte di Appello di Palermo [1], riformando a sua volta la pronuncia di primo grado, aveva condannato per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, violenza e resistenza aggravata a pubblico ufficiale, due naufraghi che, soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa, si erano violentemente opposti al rimpatrio in Libia. Invero, il Giudice per le Indagini Preliminari di Trapani [2] aveva assolto i coimputati, ritenendo sussistente la scriminante della legittima difesa, poiché i due migranti, fuggiti dall’inferno libico, avevano agito al fine di salvare sé e gli altri naufraghi dal pericolo, in caso di respingimento in Libia, di subire violenze e trattamenti inumani e degradanti. Le condotte contestate, pertanto, sarebbero state dettate dalla volontà di salvaguardare i diritti alla vita e alla integrità fisica e sessuale, e di essere condotti in un place of safety [3] ove ottenere protezione internazionale.
La Suprema Corte, come già il giudice di prime cure, ha ritenuto sussistente la scriminante della legittima difesa a fronte della condotta di resistenza a un pubblico ufficiale per opporsi al respingimento in mare verso un luogo non sicuro – quale era indubbiamente la Libia all’epoca dei fatti – così da esporre a pericolo l’incolumità e la vita del soggetto agente, in violazione di divieto assoluto di matrice internazionale.
2. Il fatto
In data 8 luglio 2018, 67 migranti di diversa nazionalità, a bordo di un piccolo natante in legno, partito dalla costa libica di Zwuara ed in procinto di affondare, venivano soccorsi in area SAR libica dal rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana. Dell’operazione erano informate le autorità italiane (Italian Maritime Rescue Coordination Centre di Roma, di seguito semplicemente denominato “IMRCC”), che, a loro volta, inoltravano la comunicazione alla Guardia Costiera libica (in seguito “LNCG”). Quest’ultima inizialmente non forniva alcun riscontro, dunque spettava all’IMRCC coordinare lo svolgimento delle operazioni. Il Comandante del Vos Thalassa era così invitato a fare rotta verso Lampedusa per un rendez-vous con un’altra unità navale.
In seguito, il rimorchiatore riceveva ordine dalla LNCG di dirigersi verso le coste nord-africane, onde consentire il trasbordo dei naufraghi sulle motovedette libiche. Il Comandante, pertanto, invertiva la rotta verso il punto di incontro indicato dall’autorità libica.
Senonché, nel corso della notte, uno dei migranti, munito di smartphone con bussola e gps, si accorgeva che l’imbarcazione aveva invertito la rotta e stava procedendo in direzione sud, ossia verso le coste libiche. Ne derivava uno stato di grande tensione e concitazione tra i migranti, che degenerava in condotte minacciose e violente nei confronti del Comandante e di alcuni membri dell’equipaggio, al fine di costringere costoro a dirigersi nuovamente verso l’Italia, compiendo atto contrario ai doveri d’ufficio.
In seguito a tali condotte, il Comandante del Vos Thalassa era effettivamente costretto ad invertire la rotta verso le coste italiane e a chiedere con urgenza l’intervento dell’IMRCC, che inviava sul posto l’unità navale Diciotti della Guardia Costiera, la quale, presi a bordo i migranti, li conduceva al porto di Trapani.
Come anticipato in premessa, con sentenza resa in data 23 maggio 2019, il Tribunale di Trapani, in sede di giudizio abbreviato, riteneva che le condotte ascritte ai due migranti imputati non fossero punibili, riconoscendo la sussistenza della scriminante della legittima difesa di cui all’art. 52 c.p., sul presupposto che avessero agito per tutelare il proprio diritto a non essere ricondotti in Libia, dove sarebbero stati esposti al concreto pericolo di violenze e trattamenti inumani o degradanti.
La Corte d’Appello di Palermo, riformando la sentenza di primo grado, condannava invece gli imputati per i reati di violenza o minaccia a pubblico ufficiale e di resistenza a pubblico ufficiale aggravati, nonché per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare aggravato. Il ragionamento dei giudici dell’impugnazione trovava il proprio fondamento nell’assunto secondo il quale l’applicabilità della causa di giustificazione della legittima difesa è preclusa allorché «il pericolo sia stato volontariamente causato o accettato preventivamente dallo stesso soggetto che chiede il riconoscimento della scriminante» (Corte d’App. di Palermo, sent. n. 1525 del 3 giugno 2020, p. 6, cit.). Né il giudicante ravvedeva alcun dubbio circa la circostanza che «i migranti – e, nel caso che ci occupa, gli odierni imputati – si siano posti in stato di pericolo volontariamente, sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio», e che anzi «venne dunque posta in essere una condotta da parte dell’organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone in legno stipato di persone e chiaramente inadatto alla traversata del canale di Sicilia), atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale; e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti sul suolo italiano» (cfr. pp. 6-7, cit.). Era pertanto incorso in equivoco interpretativo il GIP trapanese allorquando aveva risolto il “problema” della “non causazione” volontaria della situazione di pericolo, ritenendo che l’intera operazione, volta a raggiungere le coste italiane, fosse dettata da uno stato di necessità, derivante dai rapporti generali sulle condizioni di vita in Libia, nonché sulle condizioni esistenti in Sudan, Paese dal quale giungevano alcuni migranti, tra i quali uno dei coimputati.
Gli ermellini, al contrario, si sono totalmente discostati dall’impostazione della Corte palermitana, stabilendo che «è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare, facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo Stato libico»
La Cassazione ha confermato, in buona sostanza, che le operazioni di soccorso in mare che si concludano con il rimpatrio dei naufraghi in Libia costituiscono una violazione del principio di diritto internazionale del non-refoulement, con una pronuncia in linea con l’orientamento già espresso nella vicenda – nota per l’intenso clamore mediatico che ne è derivato – di Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3 [4], accusata di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), di resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.), di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare (art. 12, commi 1 e 3 lett. a) T.U. imm.) e di rifiuto di obbedienza a nave da guerra (art. 1099 cod. nav.), in quanto, in estrema sintesi, con un’azione di forza aveva condotto al porto di Lampedusa 53 cittadini stranieri privi di validi documenti di ingresso, dopo averli tratti in salvo in acque internazionali rientranti nella zona SAR libica, il tutto contravvenendo i reiterati ordini di alt imposti da una motovedetta della Guardia di Finanza, ed entrando in collisione con la stessa durante le ultime fasi dell’attracco [5].
3. La pronuncia della Suprema Corte
Come anticipato in sede di ricostruzione fattuale, la Corte di Appello di Palermo ha negato la legittima difesa, assumendo l’assenza del requisito della non volontaria causazione del pericolo; dalla inconsistenza di tale argomento e delle scarne motivazioni rese dai giudici palermitani prende le mosse l’acuta e condivisibile pronuncia del Supremo Consesso. Invero, come constatato dagli ermellini, grave errore commesso dai giudici di Palermo, tra gli altri, è stato confondere il pericolo di naufragio – rispetto al quale avrebbe eventualmente potuto sostenersi la volontaria causazione, qualora fosse stato accertato l’accordo tra gli imputati e gli scafisti, circostanza non verificatasi – e il pericolo di respingimento, il cui carattere involontario non sarebbe in ogni caso venuto meno, neanche in caso di collusione tra imputati e scafisti. La Cassazione rimprovera alla sentenza impugnata di non avere in alcun modo chiarito perché l’eventuale accordo con gli scafisti avrebbe fatto venir meno il carattere involontario del pericolo di respingimento, rispetto al quale la sentenza di primo grado aveva impostato il riconoscimento della legittima difesa.
3.1. L’obbligo di motivazione rafforzata violato dalla Corte di Appello
Preliminarmente, la Sesta Sezione ricorda la sussistenza di un onere di motivazione rafforzata, incombente sui giudici di appello, qualora intendano condannare un imputato assolto in primo grado – lo stesso dicasi all’opposto. La Corte precisa, richiamando all’uopo prolifica giurisprudenza [6], che: «quando il giudice di appello deve dare una spiegazione razionalmente diversa rispetto alla ragione giustificativa di una sentenza, deve indicare “in modo rafforzato” perché ritiene di ribaltarla e chiarire le ragioni per cui una determinata prova assuma una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado» (p. 7 della sentenza). Nondimeno, gli Ermellini riconoscono la necessità di stabilire il significato da attribuire alla locuzione “motivazione rafforzata”. A tal fine, la pronuncia de qua fornisce compiuta analisi in riferimento all’obbligo di motivazione, che può ritenersi assolto allorquando il giudice dell’impugnazione sia in grado di: «a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, completa del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico, probatorio, giuridico – la nuova decisione assunta […] Il ribaltamento della decisione di primo grado deve conseguire non ad una mera critica “orizzontale”, cioè solo ad una diversa valutazione dello stesso materiale di prova, quanto, piuttosto, all’accertamento di un “errore” di giudizio commesso dal giudice di primo grado alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema devoluto» [7].
Inoltre, conclude sul punto la Corte: «Si è condivisibilmente notato come, […] nel caso di riforma peggiorativa di una sentenza di assoluzione, il giudice di appello debba prima demolire il ragionamento probatorio culminato con la deliberazione del primo giudice e poi strutturare un proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta» [8]. In buona sostanza, i giudici di legittimità biasimano la Corte palermitana per non aver specificamente dimostrato l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti della sentenza del giudice di prime cure, non avendo operato alcuna puntuale, critica ed approfondita verifica, cui far conseguire una più completa e persuasiva motivazione, tale da indurre la Corte ad accogliere la tesi opposta.
Ebbene, la Cassazione osserva come la sentenza della Corte di Appello di Palermo sia gravemente inadempiente, non avendo validamente assolto a tale onere: «Dalla sentenza impugnata emerge come la Corte di appello non abbia sostanzialmente affrontato e risolto nessuno dei temi e dei punti a lei devoluti […] 5.2. Quello della Corte di appello è un ragionamento obiettivamente viziato, che viola l’obbligo di motivazione rafforzata per più ordini di ragioni e che non fa corretta applicazione della legge penale» [9].
In primo luogo, il ragionamento dei giudici palermitani è viziato, come in più passaggi messo in risalto dalla Cassazione, stante l’assenza di riscontro probatorio alla ricostruzione fattuale offerta – benché a lei non devoluta – dalla Corte di Appello, che ha “d’ufficio” ritenuto i due imputati corresponsabili, al pari degli scafisti-esponenti delle bande criminali che gestiscono i viaggi dalla Libia, finanche dell’organizzazione del viaggio stesso sull’imbarcazione di fortuna, oltre che della causazione di un artificioso stato di necessità, consistente nel pericolo di naufragio – per i giudici palermitani, si ribadisce, volontariamente causato – al precipuo scopo di essere soccorsi e condotti in Italia irregolarmente. Orbene, come correttamente evidenziato dagli Ermellini, trattasi tema probatorio mai devoluto alla Corte di Appello, poiché né il Pubblico Ministero appellante né il Tribunale avevano dubitato del fatto che gli imputati non fossero collusi con gli scafisti, al fine di realizzare l’arrivo di migranti irregolari in Italia dalla Libia. Siffatta cointeressenza è stata considerata quale fatto accertato dalla Corte di Appello, senza neanche essere stata oggetto di indagine. Si legge in sentenza: «nessuna ipotesi era stata anche solo prospettata quanto al coinvolgimento ed alla partecipazione delle persone migranti – e dei ricorrenti – all’organizzazione del viaggio, alla conduzione dell’imbarcazione, al traffico illecito che doveva condurre sul territorio dello Stato quelle persone» [10].
3.2. Le norme in materia di soccorso marittimo
Il Supremo Consesso effettua, prima di demolire punto per punto la pronuncia impugnata, un’interessante ed approfondita disamina del diritto internazionale vigente in materia di obbligo di soccorso in mare [11], funzionale alla tutela dei diritti fondamentali. Al pari del Tribunale di Trapani, la Cassazione individua i testi fondamentali di riferimento – tutti ratificati dall’Italia, pertanto pienamente efficaci nel nostro ordinamento – nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 [12], nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) del 1974 [13] e nella Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979 [14], tra i cui Stati contraenti figura peraltro, dal 2005, anche la Libia.
La Convenzione SAR, in particolare, si fonda sul principio della cooperazione internazionale e ripartisce tra gli Stati aderenti le zone di ricerca e salvataggio (zone SAR). La corretta comprensione delle argomentazioni utilizzate dalla Corte di Cassazione, non può prescindere da una breve sintesi dei contenuti essenziali dei vincoli posti dalla Convenzione SAR ai Paesi contraenti.
Come riportato in sentenza [15], ai sensi del par. 1.3.2 dell’Annesso della Convenzione, il “salvataggio” consiste in una «operazione destinata a recuperare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno e a trasportarle in un luogo sicuro»; il paragrafo 2.1.10 dell’Annesso sancisce inoltre che le autorità statali debbano, nella zona SAR di propria competenza, assicurare «che sia fornita assistenza a ogni persona in pericolo in mare […] senza tener conto della nazionalità o dello status di tale persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona SAR di competenza: come avvenuto in un primo momento nel caso di specie – si ricorda che inizialmente a coordinare le operazioni è stata l’IMRCC italiana – sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio, qualora l’autorità competente non intervenga o non risponda entro un tempo ragionevole.
3.3. Il “luogo sicuro”
Il “luogo sicuro” (place of safety), ove l’autorità SAR competente è tenuta a condurre il soggetto “recuperato” in mare, non trova alcuna definizione nelle su richiamate convenzioni SOLAR e SAR; tuttavia, la lacuna è stata colmata dalle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare contenute nella Risoluzione MSC 167–78 dell’Organizzazione Marittima Internazionale – Comitato Marittimo per la Sicurezza (IMO), adottata nel maggio 2004 [16] insieme agli emendamenti SAR e SOLAS.
In particolare, il luogo sicuro è «una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse … dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non siano più minacciate, dove le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte. È, inoltre, un luogo dal quale possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» [17]. Invero, anche la nave soccorritrice può costituire, seppur provvisoriamente, un luogo sicuro, come precisato ai parr. 6.13 e 6.14 della Risoluzione IMO [18], richiamati dalla Corte. Emblematico, in riferimento all’interpretazione di “luogo sicuro” accolta dalla pronuncia de qua, anche il rinvio alla sentenza, già citata al par. 2 del presente elaborato, con cui la Terza Sezione, intervenuta in fase precautelare nella nota vicenda Rackete, ha precisato che: «Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave», aggiungendo che tale nozione «comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» [19].
La Cassazione, con la sentenza in commento, riconosce la valenza delle Linee guida IMO, le quali, sebbene non possano assurgere a fonti di diritto internazionale con efficacia vincolante, sono funzionali quantomeno al fine di coadiuvare l’attività interpretativa del giudicante. Del resto, la Terza Sezione era giunta alla medesima conclusione in riferimento ad altra risoluzione, la n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa, asserendo che «pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale» [20].
3.4. Il principio di non respingimento
Tra gli aspetti devoluti ai giudici palermitani che, tuona il Supremo Consesso, sostanzialmente non sono stati affrontati né risolti, focale punctum dolens è naturalmente costituito dalla questione circa il l’applicabilità o meno della scriminante della legittima difesa, disciplinata dall’art. 52 c.p.
La cornice giuridica entro cui si sviluppa il ragionamento della Cassazione è rappresentata dal riconoscimento c.d. principio di non respingimento e dalla sua qualificazione. Gli ermellini offrono un puntuale excursus in riferimento all’evoluzione normativa e giurisprudenziale di detto principio [21], per giungere alla medesima conclusione del giudicante di prime cure.
Il non-refoulement (non respingimento) costituisce un’eccezione alla tendenziale libertà di cui godono gli Stati in materia di ammissione e allontanamento degli stranieri. Esso si connota quale principio cardine in materia di diritto internazionale dei rifugiati, giocando ruolo cruciale nell’ambito della regolamentazione internazionale dei diritti umani. Il non respingimento costituisce complemento logico del diritto di asilo riconosciuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e componente fondamentale del divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Suddetto principio è consacrato nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 [22], che ne «sintetizza l’essenza umanitaria» [23], poiché sancisce che «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Invero, il principio di non respingimento ha conosciuto una graduale e progressiva estensione applicativa, trovando piena compiutezza a seguito della sentenza Hirsi Jamaa e a. c. Italia (Ricorso n. 27765/09) pronunciata dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 23 febbraio 2012, e arrivando ad oggi ad assurgere a vera e propria norma di diritto internazionale consuetudinario vincolante per tutti gli Stati, anche non contraenti della Convenzione di Ginevra.
Il principio è contenuto, inoltre, sia in atti di soft law sia in molteplici strumenti convenzionali a tutela dei diritti umani. Merita menzione, in questa sede, la “Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” (CAT) del 1984, che all’art. 3 delinea in maniera particolarmente incisiva il citato principio, vietando ogni forma di allontanamento verso Stati in cui sussistano «substantial grounds for believing that he would be in danger of being subjected to torture» specificando, al par. 2, che la sussistenza di un simile rischio deve essere determinata considerando «all relevant considerations including, where applicable, the existence in the State concerned of a consistent pattern of gross, flagrant or mass violations of human rights». Del resto, finanche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [24] riconosce ormai graniticamente, quale corollario dell’art. 3 della CEDU, il divieto assoluto di estradare, espellere, respingere o comunque allontanare un individuo verso uno Stato in cui sussista il fondato e ragionevole rischio di essere sottoposto a tortura o altri trattamenti inumani o degradanti. A livello di fonti dell’Unione, poi, il non respingimento è stato recepito espressamente nell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui «1. Le espulsioni collettive sono vietate. 2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti».
Il divieto di respingimento verso un luogo non sicuro è inoltre considerato dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNCHR) quale «principio fondamentale di protezione al quale non sono ammesse riserve».
Il non-refoulement si esplica, dunque, nel diritto dei profughi di non essere (ri-)condotti, o in ogni modo allontanati, verso territori in cui la loro vita e la loro libertà potrebbero essere concretamente minacciate. Si precisa che, nonostante il dato letterale del su richiamato art. 33 della Convenzione del 1951, che potrebbe prima facie indurre a ritenere il divieto operante solo in favore di coloro che già abbiano ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato [25], la prassi pacifica in materia di diritto internazionale dei rifugiati tende ad estendere l’applicabilità del non respingimento anche a coloro che abbiano meramente avanzato richiesta di protezione o siano legittimati a farlo.
Come precisato poc’anzi, il divieto di refoulement è divenuto progressivamente principio di ius cogens, al pari del divieto di tortura di cui costituisce parte integrante. L’evoluzione del concetto ha peraltro comportato un tendenziale ulteriore ampliamento della sua portata applicativa e un parziale superamento del concetto stricto sensu originariamente delineato: il respingimento sarebbe vietato ogni qualvolta l’allontanamento costituisca un grave pericolo di violazione di un diritto umano fondamentale ed internazionalmente riconosciuto, in senso generale e non solo allorquando ricorra il rischio di tortura e/o di altri trattamenti equiparabili; il principio potrebbe, secondo parte della dottrina [26], finanche estendersi, in talune ipotesi, al diritto di non essere respinti verso Paesi caratterizzati da conflitti, disordini e violenza.
La Suprema Corte sposa l’impostazione ormai consolidata a livello internazionale: «posto che il divieto di tortura costituisce un principio di jus cogens e che il non-respingimento costituisce una componente – un segmento – del divieto di tortura strumentale alla sua attuazione, ne deriva che anche il non-refoulement assurge al livello di norma cogente […] Un principio di diritto internazionale consuetudinario, sostanzialmente assoluto, invocabile non solo dai “rifugiati” (art. 33 Convenzione di Ginevra), ma, così come chiarito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, da qualunque essere umano nei confronti di qualunque paese in cui l’individuo interessato corra un rischio effettivo di subire una violazione dei propri diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti» [27].
Ne consegue che l’allontanamento in luogo “non sicuro” costituisca quindi un’aperta violazione del diritto internazionale.
3.5. La legittima difesa
Orbene, è innegabile che, all’epoca dei fatti, la Libia non fosse un luogo sicuro e che il respingimento non potesse, di conseguenza, essere disposto né eseguito. Gli Ermellini riconoscono che «Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti. Una situazione di pericolo, materializzatasi a seguito dell’ordine di respingimento collettivo dei migranti verso la Libia. Una situazione di pericolo per i diritti fondamentali delle persone, derivante da una condotta antigiuridica» [28].
L’art. 52 c.p. dispone che «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». Invero, si è visto, la Corte qualifica il non respingimento quale diritto assoluto ed inviolabile, segmento del divieto di tortura e complemento del diritto alla vita e all’integrità fisica e sessuale, pertanto meritevole di piena tutela. Ne deriva che la condotta, necessitata dal pericolo reale ed attuale di una ingiusta offesa a tale diritto, è suscettibile di essere scriminata, qualora proporzionata all’offesa. Nessun dubbio, secondo la Cassazione, in riferimento alla circostanza che i naufraghi subirono sul Vos Thalassa un grado di costrizione elevato, rispetto al quale vi era una effettiva necessità della condotta esplicatasi nella violenta resistenza ai pubblici ufficiali del rimorchiatore, unica azione possibile al fine di opporsi al rientro in Libia. Si legge in sentenza: «Nella costruzione della scriminante di cui all’art. 52 cod. pen., il dovere di ritirarsi altro non è che la manifestazione plastica del requisito della stretta necessità dell’uso della forza da parte dell’aggredito: la reazione lesiva deve essere l’ultima ed unica possibilità per la persona» [29].
La costrizione, infatti, equivale all’inesigibilità da parte dell’ordinamento di una condotta diversa da quella necessitata stante l’impossibilità di difendere il diritto proprio od altrui con una condotta diversa o comunque meno lesiva di quella tenuta. Ebbene, i giudici di secondo grado, conclude la Suprema Corte, neanche hanno precisato se, nel caso di specie, esistesse una condotta alternativa percorribile e, posto che vi fosse, quale sarebbe stata, tenuto conto che le persone a bordo, anche se avessero deciso di gettarsi in mare, avrebbero neutralizzato il pericolo che correvano solo con l’annegamento. Peraltro, dalle dichiarazioni, pressoché rimaste prive di valutazione da parte Corte palermitana, rese da numerose persone diverse dagli imputati ed esaminate dal Tribunale di Trapani, è emerso che la reazione, esplicatasi nella violenta resistenza ai pubblici ufficiali e nelle minacce a taluni di essi, traeva origine dalla prospettiva di essere ricondotti in Libia. Nondimeno, è emerso, anche in sede di incidente probatorio, che i migranti minacciarono di gettarsi in mare e lasciarsi morire piuttosto che essere respinti in Libia, e che il significato di alcuni gesti obiettivamente minacciosi, come quello “di passarsi il dito intorno alla gola”, lungi dall’essere sic et simpliciter minaccia nei confronti del Comandante del Vos Thalassa, evocava la disperazione di persone che avevano intrapreso un viaggio di fortuna, al fine di allontanarsi da luoghi non sicuri. Al riguardo, la Corte di Appello ha commesso, altresì, duplice violazione: non solo inadempiente in relazione all’obbligo di motivazione rafforzata, ha ritenuto di non rinnovare la prova dichiarativa – così violando il disposto dell’art. 603, comma 3 bis, c.p.p. – limitandosi ad affermare che le dichiarazioni in questione fossero «sostanzialmente confermative delle azioni minacciose violente poste in essere dagli odierni imputati al fine di costringere il comandante del rimorchiatore a invertire la rotta già impostata verso la Libia ed a puntare verso Nord, ossia versi l’Italia» [30].
A corollario di quanto rilevato, il Supremo Consesso ritiene l’azione dei migranti proporzionata all’offesa che avrebbero subito in caso di violazione del non-refoulement, diritto assoluto ed inviolabile; pertanto, la scriminante della legittima difesa è pienamente configurabile nel caso di specie, come correttamente motivato dal GIP di Trapani.
Annullando senza rinvio la pronuncia di secondo grado perché i fatti non sussistono, la Suprema Corte, con la sentenza de qua, pienamente condivisibile, ha indubbiamente riconosciuto che il non refoulement è un divieto giuridico assoluto.
[1] Corte di Appello di Palermo, sent. 3 giugno 2020 (dep. 24 giugno 2020), n. 1525, Pres. est. Corleo.
[2] GIP Trapani, sent. 23 maggio 2019 (dep. 3 giugno 2019), Giud. Grillo.
[3] Con la sottoscrizione della Convenzione SAR (Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo) del 1979, gli Stati si sono impegnati a riconoscere delle zone di mare (c.d. zone SAR) all’interno delle quali sono tenuti a garantire, in caso di salvataggio di naufraghi, un “place of safety” o p.o.s. (posto sicuro) per consentire le operazioni di sbarco, identificazione e soccorso. V. sul punto S. BERNARDI, I (possibili) profili penalistici delle attività di ricerca e soccorso in mare, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2018, p. 134 ss.
[4] Cassazione penale, Sezione III, Sentenza 20 febbraio 2020 (ud. 16 gennaio 2020), n. 6626, Presidente Lapalorcia, Relatore Gai. Nell’immediatezza dei fatti il Comandante Rackete era stato tratto in arresto per i delitti di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.). Con ordinanza del 2 luglio 2019, tuttavia, il GIP di Agrigento aveva negato la convalida l’arresto e respinto la richiesta di applicazione del divieto di dimora nella provincia. L’ordinanza era stata confermata dalla Corte di Cassazione, che, con la sentenza citata, aveva respinto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento avverso il diniego di convalida dell’arresto. I giudici di legittimità avevano in particolare ritenuto la fattispecie ex art. 337 c.p. scriminata dall’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p., in combinato disposto con i rilevanti strumenti di diritto internazionale ratificati dall’Italia) e quella ex art. 1100 cod. nav. insussistente per difetto della qualifica di “nave da guerra” in capo alla motovedetta della G.d.F. intervenuta.
Si richiamano, ex multis, sul tema: MODUGNO F.P., A volte ritornano (i porti chiusi): la Cassazione sul caso Sea Watch alla prova del Covid-19, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4; DE MARCHI E., Brevi considerazioni sull’ordinanza del G.I.P. di Agrigento nel caso Sea Watch 3, in Giurisprudenza Penale, 2019, pp. 7-8.
[5] La vicenda si è recentemente conclusa con un provvedimento di archiviazione che si riferisce alle accuse rivolte a Rackete per ulteriori e diversi profili che ineriscono i medesimi fatti. Per un’accurata analisi v.: ZIRULIA S., Caso Sea Watch (Carola Rackete): archiviate le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e rifiuto di obbedienza a nave da guerra, in Giurisprudenza Penale, 2022.
[6] In particolare, la Corte richiama: «(per tutte, Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272480; ma anche Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, in motivazione; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679)», cit., pp. 7-8 della sentenza.
[7] Ibid., p. 9.
[8] Ibid., p. 10.
[9] Ibid., pp. 13-14.
[10] Ibid., p. 15.
[11] Ibid., pp. 10-12.
[12] Ratificata dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994.
[13] Recepita in Italia con legge n. 313 del 1980.
[14] Alla quale l’Italia ha aderito con la legge 3 aprile 1989, n. 147. Il regolamento di esecuzione è stato emanato con d.P.R. 28 settembre 1994, n. 662.
[15] Cass. pen., Sez. VI, sent. cit., pp. 11-12.
[16] V. https://www.refworld.org/docid/432acb464.html
[17] Resolution MSC 167(78), Guidelines on the Treatment of Persons Rescued At Sea, 20 May 2004, par. 6.12: «A place of safety (as referred to in the Annex to the 1979 SAR Convention, paragraph 1.3.2) is a location where rescue operations are considered to terminate. It is also a place where the survivors’ safety of life is no longer threatened and where their basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met. Further, it is a place from which transportation arrangements can be made for the survivors’ next or final destination»
[18] Ibid., par. 6.13: «An assisting ship should not be considered a place of safety based solely on the fact that the survivors are no longer in immediate danger once aboard the ship. An assisting ship may not have appropriate facilities and equipment to sustain additional persons on board without endangering its own safety or to properly care for the survivors. Even if the ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made».
6.14: «A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as place of safety until the survivors are disembarked to their next destination».
[19] Cass. pen., sez. VI, sent. cit., p. 12.
[20] Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020 (dep. 20 febbraio 2020), n. 6626, Pres. Lapalorcia, Est. Gai, ric. Rackete, p. 12, ove la Cassazione richiama espressamente la Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1821 del 21 giugno 2011 (avente ad oggetto “L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare”), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.). La Corte aggiunge che tale strumento, infatti, «pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale».
[21] Cass. pen., Sez. VI, sent. cit., pp. 16-21.
[22] Convention relating to the Status of Refugees, Geneva, 28 July 1951, United Nations, Treaty Series, vol. 189, No. 2545, article 33.
[23] BENVENUTI P., La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, in PINESCHI L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Milano, Giuffrè, 2006, p. 167.
[24] A partire da: Corte EDU, Soering c. Regno Unito, ricorso n. 14038/1988, sentenza 7 luglio 1989.
[25] Ai sensi dell’art. 1, par. 2 della Convenzione di Ginevra, il rifugiato è colui che «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole, domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».
[26] Si veda sul punto, GOODWIN-GILL, G., Non Refoulement and the New Asylum Seekers, in Virginia Journal of International Law, 26 (4), 1986, p. 897 ss., ove l’autore acutamente osserva che il principio oggetto di analisi debba essere interpretato prescindendo dai confini delineati dagli artt. 1 e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 e che «the existence of danger caused by civil disorder, domestic conflicts, or human rights violations generates a valid presumption of humanitarian need. This has important consequences for the process of determining the entitlement to protection of individuals or specific groups» (p. 905).
[27] Cass. pen., Sez. VI, sent. cit., pp. 19-20.
[28] Ibid., pp. 23-24.
[29] Ibid., p. 24.
[30] Corte di App. Palermo, sent. cit., p. 13.
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