Il diritto all’assistenza linguistica: la normativa nazionale ed i suoi profili problematici
Sommario: Premessa – 1. La normativa europea: la direttiva 2010/64 – 2. La normativa interna – 3. La giurisprudenza – 4. Conclusioni
Premessa
Il diritto all’assistenza linguistica rappresenta uno specifico diritto che gli ordinamenti nazionali sono tenuti a garantire ogni qual volta un individuo, coinvolto in un procedimento penale, non parli o comunque non comprenda la lingua utilizzata nel procedimento a suo carico. Trattasi, ormai, di un diritto andato consacrandosi in tutte le principali Carte inerenti ai diritti fondamentali della persona ed è visto quale strumento imprescindibile per assicurare il concreto esercizio del diritto di difesa. Tale obiettivo è stato perseguito in sede comunitaria tramite lo strumento della Direttiva, ovverosia quella tipologia di fonte del diritto dell’Unione Europea che vincola lo Stato membro al raggiungimento del risultato in essa previsto. Un simile obiettivo emerge chiaramente anche dai considerando della direttiva 64/2010.
1. La normativa europea: la direttiva 2010/64
L’art. 1 della direttiva indicata prevede che il diritto all’interpretazione e traduzione dei procedimenti penali si applica alle persone che siano messe a conoscenza dalle autorità competenti di uno Stato membro, mediante notifica ufficiale o in altro modo, di essere indagate o imputate per un reato fino alla conclusione del procedimento.
L’art. 2 della direttiva impone agli Stati membri di garantire agli indagati/imputati che non comprendano la lingua l’assistenza di un interprete in tutte le fasi del procedimento penale; soprattutto la norma prevede espressamente che “gli stati assicurano la messa a disposizione do procedure o meccanismi allo scopo di accertare se gli indagati/imputati parlano e comprendono la lingua del procedimento e se hanno bisogno dell’interprete.”.
L’art. 3 prevede che gli Stati membri “assicurano che gli indagati o gli imputati che non comprendono la lingua del procedimento penale ricevano, entro un periodo di tempo ragionevole, una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento.”
2. La normativa interna
L’analisi della normativa interna non può che principiare dalla carta fondamentale che, a tal proposito, prevede all’art. 111 comma 3 che “la persona accusata di un reato…sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”.[1]
Ciò posto, a livello ordinario invece il legislatore ha recepito i dettami sovranazionali del 2010 nell’art. 143 cpp. Orbene, se nei previgenti codici la figura dell’interprete era vista solamente in funzione strumentale per gli inquirenti al fine di assumere un atto processuale, funzione che tra l’altro ancora è presente, ad oggi vi è anche una funzione innovativa, ovverosia quella di attribuire all’imputato un vero e proprio diritto di farsi assistere da un interprete.[2]
Merita rilievo anche la collocazione sistematica dell’art. 143 cpp, infatti il codice colloca la disciplina dell’interprete e della traduzione tra gli atti del procedimento; la scelta è indicativa e chiarisce che non si è in presenza di un mezzo di prova bensì una mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento[3].
L’art. 143 c.p.p. nei confronti dell’imputato ne sancisce il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete “al fine di comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienza a cui partecipa” (art. 143 comma 1 cpp). È, inoltre, obbligatorio tradurre per iscritto all’imputato determinati atti entro termine congruo, in cui la congruità indica la sua idoneità a garantire l’esercizio del diritto di difesa.; gli atti da tradursi obbligatoriamente sono indicati al comma 2 della norma indicata e sono: l’informazione di garanzia e sul diritto di difesa, i provvedimento che dispongono misure cautelari personali, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, i decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione a giudizio, le sentenze.
Ciò posto, in dottrina si è evidenziato come il diritto sovranazionale faccia riferimento al parametro della qualità, considerandolo come vero e proprio connotato essenziale dell’assistenza linguistica in quanto funzionale ad un corretto esercizio del diritto di difesa. In particolare, la direttiva 64/2010 la menziona al paragrafo 8 dell’art. 2 “L’interpretazione fornita ai sensi del presente articolo dev’essere di qualità sufficiente a tutelare l’equità del procedimento, in particolare garantendo che gli imputati o gli indagati in procedimenti penali siano a conoscenza delle accuse” ed al paragrafo 9 dell’art. 3 “La traduzione fornita ai sensi del presente articolo deve essere di qualità sufficiente a tutelare l’equità del procedimento, in particolare garantendo che gli imputati o gli indagati in procedimenti penali siano a conoscenza delle accuse a loro carico e siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa.”
Ed ecco emergere la problematica: il legislatore nazionale non ha recepito la previsione della direttiva che impone agli Stati membri di assicurare la messa a disposizione di procedure e meccanismi al fine di accertare se gli indagati parlano e comprendono la lingua del procedimento e se hanno bisogno dell’assistenza dell’interprete[4]. Si discute, allora, se un rimedio possa essere quello dell’invocazione della c.d. efficacia diretta del diritto europeo che, con il primato del diritto dell’unione, costituisce un principio cardine del diritto europeo. Il rischio, infatti, è di non mettere al corrente l’imputato delle accuse a lui formulate con conseguente lesione del principio fondamentale della difesa. Rischio frequente nella prassi nelle ipotesi in cui l’imputato non sia a conoscenza della lingua dello stato membro, ragion per cui occorre l’utilizzo della c.d. lingua veicolare. [5]
A tal proposito, infatti, la scelta della lingua nella quale raccogliere le dichiarazioni dell’imputato rappresenta una delle questioni più complesse e, ciò nonostante, trascurate dalla letteratura, sia in ambito linguistico che in ambito giuridico. La dottrina italiana tende a privilegiare il ricorso a una lingua veicolare – sul modello di quanto previsto in materia di immigrazione – in quanto l’opzione a favore della lingua madre potrebbe rischiare di condurre a “defatiganti ricerche di ‘praticanti’ (magari mediocri) di lingue poco conosciute”. In altri ordinamenti europei, come quelli ceco, sloveno e ungherese, si riconosce invece espressamente all’imputato il diritto di parlare la sua madre lingua; peraltro, nel sistema ceco si fa eccezione a questa regola nell’evenienza in cui non siano disponibili interpreti competenti. In tal caso, si prevede che sia citato un interprete nella lingua ufficiale dello Stato del quale l’imputato è cittadino o dello Stato di nascita, se apolide. Il considerando n. 22 della direttiva n. 64 stabilisce che “l’interpretazione e la traduzione a norma della presente direttiva dovrebbero essere fornite nella lingua madre degli indagati o imputati o in qualsiasi altra lingua che questi parlano o comprendono, per consentire loro di esercitare appieno i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento”, pertanto l’idea di fondo è che la lingua madre e la lingua veicolare sono poste esattamente sullo stesso piano, ma soltanto a condizione che la conoscenza da parte dell’imputato della lingua veicolare sia tale da garantire un esercizio effettivo dell’autodifesa. In altri termini, nel sistema della direttiva, è possibile fornire un’assistenza linguistica in lingua diversa da quella nativa, solo in quanto si accerti che la capacità linguistica dell’imputato nella lingua non native è tale da non pregiudicare l’effettiva comprensione e l’equità del procedimento.[6]
3. La giurisprudenza
La giurisprudenza, anche sovranazionale, da parte sua ha avuto modo di esprimersi al riguardo. In particolare, i Giudici di Strasburgo hanno avuto cura di precisare come il diritto in esame dovesse essere “concreto”, “effettivo” e dovesse riguardare tutti gli atti del processo, sia in forma orale che in forma scritta. La Corte Edu ha chiarito, infatti, che la finalità dell’art. 6, comma 3, lett. e) è quella di attenuare “gli svantaggi che l’imputato che non comprende o si esprime nella lingua usata dalla corte soffre rispetto all’imputato che è familiare con tale lingua” e ha riconosciuto che la traduzione e l’interpretazione valgono per “tutti i documenti o atti del procedimento la cui comprensione è necessaria all’imputato per beneficiare di un equo processo”[7]. Quindi, non si spinge fino a esigere una traduzione scritta di tutti gli elementi di prova raccolti, ma deve “consentire all’imputato di conoscere il caso che lo riguarda e difendersi, in particolare consentendogli di fornire alla corte la propria versione dei fatti”[8]. A tale ultimo proposito la Corte E.D.U. ha precisato che anche se la norma convenzionale nulla dice in merito alla necessità di una traduzione scritta degli atti, indica comunque “la necessità di prestare una speciale attenzione alla notifica all’imputato dell’atto di accusa”. Questo atto, ad avviso della Corte, “svolge un ruolo cruciale nel processo criminale, in quanto è dal momento della sua notifica che l’imputato è messo formalmente al corrente per iscritto della base effettiva e giuridica delle accuse mosse contro di lui. Un imputato che non parla la lingua della corte può in effetti essere messo in una posizione sfavorevole se non gli è fornita una traduzione scritta dell’atto d’accusa in una lingua che capisce”.[9]–[10]
Per quanto concerne, invece, la giurisprudenza nazionale possono riportarsi le seguenti pronunce: “Nel caso in cui l’imputato alloglotta abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio, sussiste l’obbligo di traduzione degli atti a lui diretti, pena la nullità di cui all’art. 178 c.p.p., lett. c), poiché sul difensore grava soltanto l’obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello di procedere alla loro traduzione.”[11] (Cassazione penala, sezione VI, sentenza del 05.03.2020 n. 12611); “La mancata traduzione nella lingua nota all’indagato alloglotta, che non conosca la lingua italiana, dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale non ne determina l’invalidità e comporta soltanto che i termini per l’eventuale impugnazione decorrono dal momento in cui l’indagato abbia avuto effettiva conoscenza del contenuto del provvedimento. (Fattispecie relativa alla ordinanza di ripristino dell’originaria misura cautelare custodiale, emessa dal tribunale del riesame in accoglimento dell’appello del pubblico ministero).”[12] (Cassazione penale, sezione V, sentenza del 06.07.2020 n. 22065); “La mancata traduzione della sentenza in una lingua nota all’imputato alloglotta non integra la nullità prevista dll’art. 178, comma primo, lett. c) cod. proc. pen. – sotto il profilo della lesione recata alla effettiva partecipazione al giudizio e alla completa esplicazione del diritto di difesa – qualora sia stata proposta tempestiva impugnazione da parte del difensore e non siano stati allegati elementi specifici in ordine al pregiudizio derivante dalla omessa traduzione.”[13] (Cassazione penale, sezione V, sentenza del 18.10.2018 n. 47534). Non deve essere tradotta nella lingua conosciuta dall’indagato alloglotta né la procura speciale, né l’istanza redatta dal procuratore speciale contenente le condizioni per l’accordo ex art. 444 cod. proc. pen., in quanto l’obbligo di traduzione previsto dall’art. 143 cod. proc. pen. è riferito agli atti compiuti nel processo da parte del p.m. e dal giudice.[14] (Cassazione penale, sezione III, sentenza del 09.04.2018 n. 15773) In tema di diritto all’assistenza linguistica, la previsione di cui all’art. 143 cod. proc. pen., nella formulazione introdotta dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32, non contempla il decreto di sequestro nel novero degli atti di cui l’autorità giudiziaria deve disporre la traduzione scritta in lingua comprensibile all’indagato alloglotta; pertanto, l’omessa traduzione del decreto di sequestro non determina alcuna conseguenza giuridica e non rileva sulla decorrenza del termine per proporre impugnazione al tribunale del riesame.[15] (Cassazione penale, sezione V, sentenza del 14.09.2017 n.41961)
4. Conclusioni
Da quanto evidenziato emerge che, nonostante il Legislatore Nazionale si sia allineato alle previsioni comunitarie, le discipline non siano perfettamente sovrapponibili e ciò soprattutto in quelle ipotesi, non infrequenti nella prassi, in cui l’indagato/imputato non conosca la lingua utilizzata nel procedimento penale e si debba valutare la sua conoscenza di una lingua veicolare; in tal caso infatti, come si è già rilevato, mentre in sede comunitaria di intimano gli Stati ad assicurare meccanismi idonei a garantire una piena conoscenza dell’accusa da parte dell’indagato, la normativa interna non ha né trasposto tale previsione. Ne consegue il serio rischio di violare il principio fondamentale dell’uomo del diritto alla difesa.
Ragion per cui, con riferimento alle possibili soluzioni, autorevole dottrina ha prospettato che oltre alla possibilità di invocare la nullità di ordine generale a regime intermedio nell’ordinamento interno (che deve essere avanzata tempestivamente ed è preclusa in caso di scelta di riti alternativi), una attenta difesa dovrà sollecitare l’applicazione diretta delle norme del diritto dell’Unione invocate, dato che pare esclusa la possibilità di una interpretazione conforme delle norme italiane.
In alternativa, dovrà essere sollecitata una questione pregiudiziale per interrogare la Corte di giustizia dell’Unione Europea sulla questione se:
– l’assenza di un procedimento incidentale di una lingua veicolare sia compatibile con la necessità di mettere in atto “procedure o meccanismi allo scopo di accertare se gli indagati o gli imputati parlano e comprendono la lingua del procedimento penale e se hanno bisogno dell’assistenza di un interprete” come previsto dall’articolo 2.4 della direttiva 64/2010/UE immediatamente applicabile nel diritto italiano;
– l’accertamento da parte della autorità di polizia in ipotesi concretante quella procedura o quel meccanismo richiesto dall’articolo 2.4 della direttiva 64/2010 immediatamente applicabile nel diritto italiano sia compatibile con lo scopo e le norme della direttiva che mirano a garantire un processo giusto sub specie assicurazione di una assistenza linguistica adeguata. [16]
[1] Cfr. art. 11 comma 3 Costituzione Italiana: “Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.”
[2] Polo Tonini, Manuale breve diritto processuale penale, pag. 142-143, XIV edizione 2019, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano.
[3] Giovanni Conso, Vittorio Grevi, Marta Bragis, Compendio di procedura penale, pag. 245-246, VII edizione 2014, Wolters Kluwer Italia, CEDAM.
[4] Cfr. art. 2 Direttiva 64/2010: “gli stati assicurano la messa a disposizione do procedure o meccanismi allo scopo di accertare se gli indagati/imputati parlano e comprendono la lingua del procedimento e se hanno bisogno dell’interprete.”.
[5] Nicola Canestrini, il diritto all’assistenza linguistica adeguata per l’indagato alloglotta nell’ordinamento Italiano: identificazione della linqua veicolare e qualità dell’interpretazione veri talloni di Achille della disciplina italiana. Possibili rimedi. Pubblicato 14.02.2019 in giurisprudenzapenale.com.
[6] Cfr. M. Gialuz, E’ scaduta la Direttiva sull’assistenza linguistica. Spunti per una trasposizione ritardata, ma (almeno) meditata, in Diritto Penale Contemporaneo, 9/2013
[7] Caso Luedicke, Belkacem e Koc c. Germania, Corte Edu, sentenza del 28 novembre 197e.
[8] Corte Edu, caso lagerblom s. Svezia, sentenza del 14 gennaio 2003.
[9] Corte Edu, caso Ucak c. UK, sentenza del 22 febbraio 2002.
[10] Erik Longo, il diritto all’assistenza linguistica nel processo penale: profili di diritto costituzionale Europeo, pubblicato il 10.02.2015 su osservatoriosullefonti.it
[11] Cassazione penala, sezione VI, sentenza del 05.03.2020 n. 12611.
[12] Cassazione penale, sezione V, sentenza del 06.07.2020 n. 22065.
[13] Cassazione penale, sezione V, sentenza del 18.10.2018 n. 47534.
[14] Cassazione penale, sezione III, sentenza del 09.04.2018 n. 15773.
[15] Cassazione penale, sezione V, sentenza del 14.09.2017 n.41961.
[16] Nicola Canestrini, il diritto all’assistenza linguistica adeguata per l’indagato alloglotta nell’ordinamento Italiano: identificazione della linqua veicolare e qualità dell’interpretazione veri talloni di Achille della disciplina italiana. Possibili rimedi. Pubblicato 14.02.2019 in giurisprudenzapenale.com
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