Il diritto all’oblio della madre incapace prevale su quello dell’adottato a conoscere le proprie origini?

Il diritto all’oblio della madre incapace prevale su quello dell’adottato a conoscere le proprie origini?

Cass. Civ., Sez. I, Ord. 03 marzo 2022, n. 7093

Sommario: 1. Premessa – 2. I fatti di causa – 3. Lo svolgimento del processo – 4. La decisione della Corte

 

1. Premessa

La Legge italiana sull’adozione garantisce ai genitori biologici di mantenere segreta la propria identità, a meno che non sia l’autorità giudiziaria a disporre diversamente.

Al compimento del venticinquesimo anno, il figlio può accedere autonomamente alle informazioni sull’identità dei genitori biologici: prima del raggiungimento di tale età, dette informazioni possono essere fornite solo ai genitori adottivi, previa autorizzazione del Tribunale dei minorenni e solo se sussistano gravi e comprovati motivi.

Da un lato, la legge tutela il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, dall’altro garantisce l’anonimato del genitore o dei genitori biologici che al momento della nascita ha o abbiano voluto rimanere tali.

Come si contemperano, pertanto, queste posizioni così contrapposte?

L’orientamento viene fornito dalla Corte di Cassazione, sezione I civile, con la sentenza 26 gennaio-3 marzo 2022, n. 7093, come di seguito narrato.

2. I fatti di causa

La Corte d’Appello di Milano ha respinto un reclamo avverso un decreto emesso dal Tribunale per i minorenni di Milano di rigetto di una istanza diretta a conoscere l’identità dei genitori biologici del reclamante: la Corte d’Appello condivideva quanto già espresso dal giudice di prime cure, rilevando che la madre naturale del reclamante non aveva potuto esprimere alcuna autorizzazione a rivelare la propria identità, sicché l’interpello aveva avuto esito negativo.

Difatti, nel corso dell’interpello, la donna aveva dimostrato una grave compromissione delle facoltà cognitive e volitive, non era in grado di esprimere la propria volontà e addirittura neppure di ricordare la nascita del figlio.

La Corte ha dunque ritenuto che il diritto all’oblio della madre, inteso come diritto di dimenticare, ma anche come diritto di essere dimenticata, fosse ancora sussistente e meritevole di protezione, rimarcando che la madre al momento del parto: 1) non volle che fosse rivelata la propria identità; 2) non aveva mai avuto contatti e notizie del figlio per oltre quarant’anni; 3) aveva trovato una sua compensazione attraverso l’oblio dell’evento della nascita del figlio e una rievocazione di quell’evento avrebbe potuto pregiudicare il suo attuale stato psichico.

Il figlio, pertanto, propone ricorso avverso detta sentenza, lamentando, in primis, la violazione o falsa applicazione dell’art. 28, co. VII, L. 4 maggio 1983, n. 184, per avere la Corte d’Appello affermato erroneamente che l’impossibilità della madre biologica di esprimere un valido consenso, stante le sue condizioni psichiche, fosse da equiparare al diniego opposto alla richiesta di revoca della volontà di mantenere l’anonimato, espressa a suo tempo dalla madre ex art. 30, co. I, D.P.R. 3.11.2000, n. 396.

A parere del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe dovuto effettuare un bilanciamento tra il diritto della madre di mantenere l’anonimato e il diritto del figlio di conoscere le proprie origini, anche considerando la difficile situazione della madre – settantenne oligofrenica – la quale, piuttosto, potrebbe ricevere giovamento dall’interessamento attivo del figlio.

Inoltre, il ricorrente denunciava l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello tenuto conto di quanto risultava dalla dichiarazione della madre naturale resa alla nascita, come riportato nel certificato integrale di nascita.

Ad avviso del ricorrente, la volontà di anonimato espressa dalla madre al momento del parto avrebbe dovuto ritenersi viziata ab origine ai sensi e per gli effetti dell’art. 428 c.c., ossia quale atto compiuto da persona incapace di intendere o di volere al momento i cui l’atto era stato compiuto e pertanto passibile di richiesta di annullamento su istanza del figlio, da ciò conseguendone il diritto del figlio a conoscere l’identità della madre naturale, considerato che detta questione non era stata esaminata dalla Corte territoriale.

3. Lo svolgimento del processo

Nell’affrontare la questione sottoposta, gli Ermellini, preliminarmente, hanno richiamato, in breve, le fonti normative del nostro ordinamento che hanno permesso ad una madre di poter rimanere anonima, nonché dell’evoluzione del quadro normativo per effetto dell’intervento additivo della Corte Costituzionale del 2013.

Il diniego di accesso del richiedente ai dati della madre correlato al diritto di anonimato di quest’ultima, è attualmente disciplinato dall’art. 28, co. VII, L. n. 184/1983, dall’art. 30, co. I, D.P.R. n. 396/2000 e anche dall’art. 93, co. II e III, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, disciplinante il certificato di assistenza al parto.

In particolare, tale ultima norma così dispone:

– al II comma: “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’art. 30, co. I, D.P.R. n. 396/2000, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorso cento anni dalla formazione del documento”;

– al III comma: “durante il periodo di cui al comma II, la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”.

Considerata la perdurante attuale vigenza del già espresso art. 28, co. VII, con quella del succitato art. 93, sul punto la Suprema Corte rammenta l’aggiunta della sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale.

Tale sentenza ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 28, L. n. 184/1983 sull’adozione dei minori, in quanto non prevede la possibilità per il giudice di interpellare, con riservatezza, la madre non nominata nell’atto di nascita, per l’eventuale assunzione di rapporti personali e non giuridici con il figlio.

In particolare, il Giudice delle leggi ha riconosciuto all’adottato il diritto a riconoscere le proprie origini e ha rilevato i profili di irragionevolezza nell’irreversibilità dell’anonimato della madre biologica, prevedendo la possibilità di un interpello di questa da attuarsi all’interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza.

La Corte ha dunque affermato la necessità di effettuare il bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, riprendendo, su tale ultimo aspetto, il più ampio riconoscimento a livello internazionale e sovranazionale (cfr. Corte EDU, 25 settembre 2012, n. 33783, Godelli c. Italia; Corte EDU, n. 42326/2003, Odievre c. Francia; Corte EDU, n. 53176/2002, Mikulic c. Croazia), tramite la valorizzazione dell’art. 8 CEDU che protegge un diritto all’identità e allo sviluppo personale e il diritto di intessere e sviluppare relazioni con i propri simili e il mondo esterno.

La Corte Costituzionale ha pertanto ritenuto eccessivamente rigida e in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. la disciplina dell’art. 28, co VII, L. n. 184/1983, come sostituito dall’art. 177, co. II, D. Lgs n. 196/2003, che consente alla madre la facoltà di dichiarare di non voler essere nominata, laddove non se ne preveda la revocabilità, in seguito alla richiesta del figlio, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza.

Ciò posto, il Collegio, dando continuità all’orientamento espresso in una fattispecie analoga (cfr. Cass. n. 22497/2021), ha ribadito che il figlio nato da parto anonimo ha diritto di riconoscere le proprie origini, ma il suo diritto deve essere bilanciato con il diritto alla madre a decidere di conservare o meno l’anonimato.

Se il figlio può interpellare la madre per capire se ella vuole revocare la propria scelta, tuttavia occorre tutelare anche l’equilibrio psico-fisico della genitrice, sicché il diritto all’interpello non può essere attivato qualora la madre versi in stato di incapacità tale da non poter revocare validamente la propria scelta.

Prendendo il caso in specie, la Corte territoriale si è attenuta ai suesposti principi, ritenendo che l’interpello avesse avuto esito negativo, dopo aver accertato, in punto di fatto, che la donna avesse dimostrato una grave compromissione delle facoltà cognitive e volitive, tali da non farle ricordare l’evento che le veniva rappresentato.

La donna aveva il diritto di dimenticare e di essere dimenticata; diritto, questo, ancora sussistente e meritevole di tutela.

Secondo la Suprema Corte, anche il secondo motivo sollevato dal ricorrente non trova accoglimento.

Secondo un costante orientamento, il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica implicante accertamenti di fatto, avrà l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto di giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare il merito della questione.

Nel caso in specie, l’incapacità della madre al momento della nascita non è stata esaminata dalla Corte di merito, né se ne fa cenno nel decreto impugnato quale motivo di reclamo: sarebbe stato onere del ricorrente indicare precisamente come, dove e quando detta questione fosse stata dedotta, riportando nel ricorso per cassazione la parte del reclamo di interesse.

4. La decisione della Corte

In conclusione, secondo gli Ermellini, il ricorso va rigettato, disponendo altresì che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionato, a norma del D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.


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