Il diritto all’oblio e la libera informazione: Corte di Cassazione, Sez. Un. sentenza n. 19681 del 2019

Il diritto all’oblio e la libera informazione: Corte di Cassazione, Sez. Un. sentenza n. 19681 del 2019

Sommario: 1. Il diritto di essere “dimenticati” – 2. Il bilanciamento tra il diritto all’informazione e il diritto all’oblio – 3. Corte di Cassazione, Sez. Un. sentenza n. 19681 del 2019

 

 

1. Il diritto di essere “dimenticati”

Tutti hanno il diritto ad “essere dimenticati”, con tale espressione è possibile inquadrare il contenuto del diritto all’oblio, che ha assunto una rilevanza preponderante alla luce della sempre maggiore attenzione rivolta nei confronti dell’uomo e delle sue accezioni più intime; difatti, in un’epoca in cui l’individuo viene percepito tramite la sua reputazione e la propria identità personale e digitale, è sempre più evidente la necessità di intervenire per eludere qualsivoglia forma di pregiudizio derivante da attività giornalistica o dai motori di ricerca. 

In particolare, l’apertura del panorama giuridico e sociale ai diritti della persona, ha favorito l’ingresso del diritto all’oblio nelle Corti italiane ed europee in una duplice dimensione: diritto a non veder ripubblicate vicende che nel passato sono già state legittimamente oggetto di cronaca e diritto all’aggiornamento, alla cancellazione o deindicizzazione dal web.

Tali aspetti rappresentano le due differenti declinazioni del diritto all’oblio e reggono i rapporti tra diritto di informazione e fatto, ricordo ed evento, nonché interesse sociale ad informarsi e rispetto della vita privata; costituiscono, dunque, gli strumenti per frenare il potenziale diffusivo del mezzo giornalistico cartaceo e, negli ultimi anni, arginare l’espansione di una notizia sulle piattaforme virtuali.

Dunque, è proprio l’incontro e lo scontro di interessi contrapposti ad essere il fulcro da cui è generato il diritto all’oblio, e pertanto, è opportuno ricostruire il dibattito giurisprudenziale che ha portato alla sua nascita e alla sua evoluzione, dalla forma primordiale fino a giungere ad un profilo più moderno che ha trovato la sua legittima sede nel “General Data Protection Regulation” (cd. GDPR).

2. Il bilanciamento tra il diritto all’informazione e il diritto all’oblio

Il termine “Droit a l’oubli” fu coniato per la prima volta dalla dottrina francese nel 1965 e fu identificato nell’interesse a che le proprie vicende, seppur di dominio pubblico, non venissero nuovamente rievocate una volta coperte “dal velo del tempo”

Nel nostro ordinamento, il diritto all’oblio ha trovato terreno fertile per la propria evoluzione in ambito giornalistico, che lo ha visto in contrapposizione al diritto di cronaca; il leading case risale al 1958 ed ha riguardato la produzione di un documentario sulla strage delle Fosse Ardeatine in cui veniva richiamato il nome del Questore romano Pietro Caruso, che ebbe un ruolo rilevante nell’eccidio; all’indomani della diffusione del prodotto cinematografico, la moglie ne chiese il ritiro, ritenendo eccessivamente gravosi ed inveritieri i fatti addebitati al marito.

Per la prima volta la Suprema Corte, con sentenza n. 1563 del 13 maggio 1958, accogliendo le domande della ricorrente, ha lambito il concetto di oblio, affermando il “diritto al segreto del disonore” affinché altri non alterino l’entità dei reati da lui commessi e non accrescano il grave fardello delle sue colpe con l’aggiunta di fatti non veri”; in altri termini, riconoscendo il diritto all’identità personale ed alla reputazione, la Corte ha condiviso la pretesa della donna di non ricordare il marito per fatti pregressi a contenuto meramente negativo in assenza di eventi sopravvenuti capaci di rianimare l’interesse pubblico.

Si intravede in tale pronuncia, per la prima volta, la ratio del diritto all’oblio, che risiede nella volontà di ciascuno di essere dimenticato per delle vicende che ormai il tempo ha riposto nell’ombra della memoria, la cui rievocazione non può che danneggiare ed aggravare la posizione dell’interessato.

Altro caso di particolare rilevanza, affiorato in epoca più recente, è stato affrontato dalla Cassazione nel 2013 con la sentenza n. 16111, con oggetto – ancora una volta – il diritto di cronaca da un lato e il diritto all’oblio dall’altro.

Nell’ispecie, un ex brigatista rosso, in seguito alla pubblicazione di un articolo sul “Corriere quotidiano della città e provincia di Como”, richiedeva il risarcimento dei danni derivati dall’accostamento dei propri dati personali al ritrovamento (nelle vicinanze della sua dimora) di un arsenale appartenente alle brigate rosse; il soggetto, dopo aver scontato la propria pena per il reato in precedenza commesso ed essendo riuscito a ricostruirsi una nuova vita sulle ceneri del proprio passato, rivendicava il diritto a non essere più accostato a notizie del genere, al fine di non essere sottoposto ad una gogna mediatica inutile e indegna.

La Corte nella pronuncia afferma che, sebbene le vicende relative ai cd. anni di piombo costituiscano la memoria “storica” del nostro paese, ciò non può far ritenere automaticamente sussistente un diritto pubblico alla conoscenza di eventi che attualmente non hanno un collegamento con i fatti dell’epoca. Invero, il diritto alla riservatezza assume i connotati del diritto ad essere dimenticati, interesse che in un’attenta opera di bilanciamento, deve essere inevitabilmente preponderante rispetto al diritto di cronaca, stante l’arbitraria connessione tra un evento passato ed un individuo, ex terrorista, ormai reinserito nel contesto sociale.

In conclusione, a parere dei Giudici, la rievocazione di un fatto che nel passato ha avuto una forte ridondanza sociale non presenta, ipso facto, un interesse anche a distanza di anni, a meno che non ci siano state sopravvenienze tali da giustificarne la ripubblicazione; donde, nella delicata opera di bilanciamento tra il diritto di cronaca e quello alla riservatezza (nella species del diritto all’oblio), l’interprete deve valutare l’esistenza di un “interesse effettivo ed attuale alla diffusione della notizia”.  

Ultima – ma non meno rilevante – pronuncia a cui bisogna far riferimento in tema di diritto all’oblio è la n. 3679 del 1998, in cui i Giudici della Terza Sez. della Corte di Cassazione hanno per la prima volta riconosciuto espressamente il diritto all’oblio.

La Corte, dopo aver richiamato i requisiti del decalogo del giornalista – alla presenza dei quali può essere considerata lecita una notizia anche se recante un pregiudizio all’onore o alla reputazione di un individuo (veridicità, pertinenza e continenza verbale) – individua esplicitamente, quale ulteriore limite al diritto di cronaca, l’attualità dell’interesse alla pubblicazione.

In particolare, i giudici legano tale ultimo requisito alla dinamicità che contraddistingue l’interesse pubblico, avulso dall’attualità del fatto pubblicato, il quale, come una fisarmonica può espandersi e restringersi in base alle circostanze, mutando ogni giorno la rilevanza attuale delle notizie divulgate.

In virtù di ciò, il giornalista prima della seconda pubblicazione è tenuto a verificare la presenza di ulteriori fatti sopravvenuti alla prima divulgazione della vicenda, evenienze capaci di integrare e modificare sostanzialmente il contenuto della notizia; al contrario, l’omessa verifica è considerata prova della mancanza di buona fede dell’autore dell’articolo e della volontà di diffamare il protagonista.

Con la pronuncia suddetta la giurisprudenza italiana ha per la prima volta dato una chiara definizione del diritto all’oblio, quale “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta a danni ulteriori che arreca al suo onore ed alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”, riconoscendo la possibilità di far rivivere un fatto in caso di sussistenza di un attuale interesse alla sua pubblicazione: “quando il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorna di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione — non strettamente legato alla stretta contemporaneità fra divulgazione e fatto pubblico — che si deve contemperare con quel principio, adeguatamente valutando la ricorrente correttezza delle fonti di informazione.”

Alla stregua del variegato scenario giurisprudenziale, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso che ha visto coinvolto il celebre cantante Antonello Venditti, con ordinanza n. 6919 del 2018, ha operato una risistemazione delle regole operazionali a cui ricorrere in caso di conflitti tra i diritti fondamentali in esame, dapprima richiamando la giurisprudenza delle Corti europee (che si vedrà in seguito), la quale ha più volte affermato l’esistenza del diritto all’oblio sulla base di due differenti presupposti: (i) il ruolo ricoperto dalla soggetto nella società giustifica l’interesse del pubblico ad avere accesso all’informazione divulgata; (ii) tenendo presente il “grado di notorietà del soggetto”, deve sussistere un “dibattito di interesse pubblico” in merito alla notizia pubblicata, oltre al rispetto dei “tradizionali” criteri imposti dal decalogo.

Sulla medesima scia, i giudici nazionali hanno aggiunto che in tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto alla non rievocazione delle proprie vicende personali trova un limite nel diritto di cronaca laddove sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro ripubblicazione, ossia alla presenza di un collegamento tra quanto accaduto in passato e le vicende attuali, così evitando il rischio di una lesione dei diritti della persona.

Dunque, così ricostruiti i criteri di bilanciamento enumerati dalle Corti nazionali e sovranazionali ed in base ai riferimenti normativi fondamentali in materia, la Cassazione nel cd. Caso Venditti, elenca i presupposti alla stregua dei quali il diritto all’oblio può subire una compressione a favore del diritto di cronaca: sussistenza di un dibattito di interesse pubblico in merito alla notizia pubblicata, interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’articolo, l’elevato grado di notorietà del soggetto interessato e la sua preventiva informazione circa la pubblicazione, nonché le modalità impiegate per l’esposizione del fatto devono rispettare i criteri prestabiliti dal decalogo del giornalista (verità, pertinenza e continenza verbale).

Ciò nondimeno, la necessità di chiarire i rapporti sussistenti tra i criteri elencati, con particolare riferimento all’opera di bilanciamento che deve essere compiuta dal giudice per verificare la preponderanza del diritto all’oblio su quello di cronaca e viceversa, ha indotto la Suprema Corte a richiedere l’intervento delle Sez. Un., che si sono espresse con decisione n. 19681 del 2019.

3. Corte di Cassazione, Sez. Un. sentenza n. 19681 del 2019

La questione è emersa in seguito alla pubblicazione su un quotidiano sardo (L’Unione Sarda s.p.a.) di un articolo rievocante una vicenda di cronaca nera – nello specifico un uxoricidio – accaduto molti anni prima, in cui veniva richiamato espressamente l’autore del misfatto, ormai reinserito nel tessuto sociale in seguito all’espiazione di una pena di dodici anni di reclusione; la divulgazione della notizia aveva inciso fortemente sulla vita del soggetto, poiché lo espose al giudizio del pubblico per un evento ormai accantonato sia da lui che dall’opinione comune.

Il ricorrente ha dedotto la violazione di alcuni tra i diritti fondamentali della Costituzione: innanzitutto richiama l’art. 2 Cost., quale norma preposta alla tutela di tutti i diritti individuali, fra cui il diritto all’oblio, violato – nell’ispecie – con la pubblicazione di una notizia attraverso modalità tali da rendere di facile individuazione il nome del protagonista.; l’art. 3 Cost., poiché la dignità del singolo viene sacrificata a favore della necessità di informazione del pubblico (così come interpretato l’art 21 Cost. nella sentenza impugnata).

In ultimo, viene ulteriormente richiamato l’art. 27 Cost., poiché è ritenuto compromesso, dalla ripubblicazione della notizia, il reinserimento sociale del soggetto nel tessuto della società, costituendo ciò “una pena disumana per qualsiasi persona, per quanto colpevole di un grave delitto”.  

Oltre alle disposizioni interne, viene lamentata la violazione degli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che impongono il rispetto della vita privata e familiare e il diritto alla protezione dei dati di ciascun individuo, interessi inevitabilmente violati “dal mantenimento in vita del ricordo di un fatto tanto doloroso”.

L’architettura della decisione può essere così sintetizzata.

Anzitutto, gli Ermellini hanno perimetrato la questione, affermando che, in base alla ricostruzione del diritto all’oblio operata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, lo stesso è coniugabile in diverse forme: (i) il diritto a non vedere ripubblicate nuovamente notizie legittimamente diffuse in passato dopo un notevole lasso di tempo; (ii) l’esigenza di aggiornare una notizia pubblicata e cristallizzata su internet; (iii) il diritto alla cancellazione dei propri dati dal web.

Il caso sub iudice, è stato ricondotto nella prima delle predette declinazioni, venendo in rilievo lo stretto rapporto tra la libertà di stampa e di cronaca giornalistica con il diritto dei singoli a non vedere ripubblicate vicende spiacevoli ad essi collegate, rimanendo invece escluse in tale sede le problematiche connesse all’uso della moderna tecnologia.

Detto ciò, la Corte ha affermato che l’operazione svolta dai giornalisti diretta alla diffusione di notizie e fatti appartenenti al passato, non può essere inquadrata nell’attività di cronaca strettamente intesa, bensì a quella cd. storiografica, il cui fine è proprio quello di informare in merito a fatti storici; invero, ciò si evince dalla stessa etimologia della parola “cronaca”, derivante dal greco “Kpovoc”, che significa “tempo”, per cui il diritto di cronaca è strettamente connesso al fattore temporale, avendo ad oggetto un’opera che racconta di avvenimenti passati.

Tuttavia, possono comunque sopraggiungere nuovi fattori tali da rendere la notizia nuovamente attuale, per cui l’attività del giornalista non si esplicherebbe più in attività squisitamente storiografica, ma al contrario, si manifesterebbe nel diritto di cronaca. In mancanza però di sopravvenienze, ripubblicare fatti passati non è ricollegabile a tale ultima accezione, sicché l’opera storiografica non potrà godere della medesima garanzia costituzionale prevista per il diritto di cronaca.

Invero, proprio perché “storia”, l’attività giornalistica volta a ripubblicare avvenimenti passati –per quanto sia profondamente rilevante per la vita di un paese – non è ritenuta “cronaca”, di tal che essa deve svolgersi in maniera del tutto anonima qualora riguardi personaggi che non rivestano un ruolo pubblico, a differenza di colore che, per la loro notorietà attuale o passata, possano suscitare l’interesse della collettività.

In altri termini, il richiamo ai nomi dei protagonisti della vicenda deve essere necessariamente omesso quando, i fatti narrati, non attengono a soggetti di rilievo pubblico, pena la violazione dei diritti individuali, non sussistendo in re ipsa, nell’interesse alla conoscenza di un fatto, altrettanta attenzione nei confronti del suo responsabile.

In aggiunta a ciò, i giudici precisano che le scelte operate da una testata giornalistica in merito all’organizzazione del proprio lavoro, con particolare riferimento alla scadenza delle pubblicazioni delle notizie, non può essere sindacata in termini di opportunità, essendo ricompresa tale gestione nella generale libertà di stampa sancita dall’art. 21 della Cost; piuttosto gli interpreti devono meticolosamente valutare la sussistenza di un interesse pubblico alla diffusione di una notizia con esplicito riferimento ai protagonisti del caso.

Ciò appare il “fil rouge” che collega tutti i vari spunti giurisprudenziali già citati, per cui “il trascorrere del tempo modifica l’esito del bilanciamento tra i contrapposti diritti e porta il protagonista di un fatto come quello di cui oggi si discute – che nessun diritto alla riservatezza avrebbe potuto opporre nel momento in cui il fatto avvenne – a riappropriarsi della propria storia personale”; richiamando la già citata sentenza n.1563 del 1958, trascorso un certo lasso di tempo emerge il “diritto al segreto del disonore” poiché “non si può eternamente vivere sotto il peso di un passato che non passa” , essendo del tutto legittimo il desiderio del silenzio.

A sostegno del ricorrente, le Sez. Un. richiamano anche l’art. 3 del Testo Unico dei doveri del giornalista, in cui è esplicitamente affermato che quest’ultimo “rispetta il diritto all’identità personale ed evita di far riferimento a particolari relativi al passato, salvo quando essi risultino essenziali per la completezza dell’informazione e nel diffondere a distanza di tempo dati identificativi del condannato valuta anche l’incidenza della pubblicazione sul percorso di reinserimento sociale dell’interessato e sulla famiglia, specialmente se congiunto (padre, madre, fratello) di persone di minore età; […]”.

In chiosa, è possibile ritenere che con tale pronuncia la Corte di legittimità ha segnato definitivamente i confini tra il diritto all’oblio ed il diritto alla rievocazione di fatti concernenti eventi passati: posta l’autonomia delle testate giornalistiche in merito alla scelta dei fatti storici da richiamare – poiché espressione della libertà di stampa ex art. 21 Cost. – il giornalista deve sempre tener conto dell’interesse pubblico attuale prima di menzionare elementi attinenti alla sfera personale del protagonista, giustificando la loro diffusione solo per ragioni di notorietà o per il ruolo pubblico rivestito dal soggetto.


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