Il diritto incondizionato ad una morte autodeterminata: riconoscimento e garanzia secundum costitutionem
Nota a Corte costituzionale federale tedesca, sentenza n. 26 2020-2 bvr 2347/15
Sommario: 1. La quaestio iuris – 2. Il percorso interpretativo del Tribunale Costituzionale Federale Tedesco e le divergenze con la Corte Costituzionale Italiana – 3. Riflessioni conclusive in chiave comparata
1. La quaestio iuris
Nel caso de quo, non ci si trova di fronte né ad un paziente affetto da patologia irreversibile né ad un caso di cronaca nera in cui occorre dimostrare che l’omicidio sia avvenuto per volontà della vittima . Tutt’altro. A denunciare l’incostituzionalità, da cui ha avuto origine l’oggetto della presente nota, relativa all’art. 217 del Codice Penale tedesco, introdotto nel 2015 per fare chiarezza su eventuali attività illecite, poste in essere da associazioni in forma commerciale, sono stati i medici impegnati nelle cure ospedaliere e nei trattamenti ambulatoriali collegati alle vicende suicidarie. La “vexata questio” su cui la Corte costituzionale d’oltralpe ha affermato la non punibilità, di chi agevola il suicidio o, meglio, assiste una persona nel morire, fa risaltare più che mai al cospetto, internazionale, la nebulosità di limiti normativi ed interpretativi circa la sua condotta penalmente rilevante ed in maniera ancora più incisiva, contribuisce a fornire una nuova visione del concetto di auto-determinazione alla morte.
2. Il percorso interpretativo del Tribunale Costituzionale Federale Tedesco e le divergenze con la Corte Costituzionale Italiana
Con sentenza emessa in data 26 febbraio 2020[1], la Corte costituzionale Federale Tedesca, nella persona del relatore, Giudice Vosskuhle, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con alcuni principi della Legge Fondamentale Tedesca “Grundgesetz Für Die Bundesrepublik Deutschland”, della norma del codice penale tedesco, che sanzionava penalmente l’“agevolazione commerciale del suicidio”. Numerose – e talora evidenti già a una prima lettura del testo tradotto in lingua italiana – le analogie e le differenze con il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte costituzionale Italiana, nella recente decisione (sent.241/2019) sul tema inerente la punibilità, a determinate condizioni, del suicidio assistito[2]. Preme qui, soltanto evidenziare come il giudizio in esame potrebbe assumere, in chiave comparatistica e nell’ambito dei rapporti tra diritto penale e scelte di fine vita, un ruolo ben più concreto, soprattutto riguardo ai temi della libera determinazione alla morte e del ruolo attivo del soggetto estraneo alla scelta. La Corte costituzionale, italiana, è categorica nell’escludere che dal diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. ed esplicitamente dall’art. 2 CEDU, e da quello di autodeterminazione individuale, desumibile anche dall’art. 13 Cost., possa derivare, tout court, il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire. Proprio in ragione di tale limite, nelle motivazioni della sentenza nazionale testè citata, tra i requisiti scriminanti della condotta, si legge: “una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Al contrario, invece, nelle motivazioni della Corte Costituzionale tedesca si evince che: “Il diritto generale della personalità (articolo 2.1 in combinato disposto con l’articolo 1.1 della Legge fondamentale) come espressione di autonomia personale comprende anche il diritto alla morte autodeterminata, che include il diritto al suicidio” (punto 208) e, quindi, anche la “libertà di chiedere aiuto a terzi e, nella misura in cui viene offerta, di avvalersene”. Con la Corte italiana siamo di fronte, ad una scelta obbligata, determinata solo da una patologia oggettivamente irreversibile, a una malattia che senza trattamenti e strumenti di sostegno vitale indurrebbe in pochi istanti alla morte. Con la Corte tedesca, invece, siamo di fronte ad un diritto di autodeterminazione personale che comprende anche quello di “disporre della propria vita”. Ancora, la capacità di assumere decisioni con consapevolezza e volontà libera, che nella sentenza italiana è una delle quattro condizioni necessarie per la non punibilità, in quella tedesca è sufficiente, da sola, per esercitare il diritto a porre fine alla propria vita. Nonostante vi sia una palese divergenza interpretativa, non è quindi da escludere che questa decisione possa arricchire l’orizzonte valutativo della Corte costituzionale nazionale, in occasione di prossimi giudizi incidentali, date le numerose questioni aperte in tema di fine vita. La regola iuris, censurata davanti alla Corte costituzionale tedesca è contenuta, come detto, nel § 217 “StGB”. La ratio istitutiva della disposizione penale, traeva origine dal diffuso senso di preoccupazione per lo straripante sfruttamento da parte di privati, in forma organizzata ed a scopo di lucro, delle richieste di aiuto al suicidio. La disposizione, da una lettura integrale, si articolava in due commi: «[1]. Chiunque, con l’intenzione di favorire il suicidio altrui, ne offre o procura l’opportunità commerciale, anche in forma d’intermediazione, è punito con la pena detentiva sino a due anni o con la pena pecuniaria. [2][3]. In qualità di compartecipe è esente da pena chi agisca in modo non commerciale e sia parente della persona favorita indicata al comma 1, oppure a questa legata da stretti rapporti». Le ragioni esposte dalla Corte per giungere all’accertamento di incostituzionalità della norma de qua, sono consistite nella limitazione sproporzionata che la sanzione penale poneva, anche se circoscritta ad alcune specifiche forme di aiuto al suicidio, al pieno ed effettivo esercizio del diritto della persona ad autodeterminarsi alla morte. A non convincere, dunque, era la sottesa compressione della libertà dell’individuo, prossimo alla scelta di morire, di ricevere l’assistenza desiderata. La motivazione logico-giuridica, evincibile dal testo tradotto della sentenza, si articola essenzialmente in due parti: la prima è volta a ricostruire i contenuti di tale diritto, di cui viene valorizzato lo stretto collegamento con il nucleo forte dei supremi principi costituzionali di libertà (intesa soprattutto come autodeterminazione a scegliere) e di dignità della persona; la seconda consiste in una analisi dei requisiti che la legge deve soddisfare per comprimere legittimamente tale diritto, e in particolare del rapporto tra le finalità perseguita dalla norma e le ricadute concrete di una scelta incriminatrice. Secondo il Tribunale federale tedesco, il “diritto di autodeterminarsi alla morte”, ovvero di intraprendere con convinzione un percorso di maturazione del fine vita quale condizione esistenziale, trova diretto fondamento nel più esteso “diritto generale della personalità”, che risulta dalla combinazione del principio della inviolabilità umana e del diritto al libero sviluppo della personalità. Vi è più, la scelta di porre fine alla propria vita, che naturalmente rispecchia più di altre una particolare concezione morale ed etica dell’individuo, presuppone una valutazione circa il significato dell’esistenza, in cui nessuno può sostituirsi al singolo. Dal diritto ad autodeterminarsi deriva, quindi, il “diritto a una morte autodeterminata” sulla base di una decisione libera e consapevole, che non comprende solo il rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, ma si estende alla scelta di togliersi la vita con una condotta attiva, purchè liberamente consapevole. Su questi presupposti – afferma la Corte – a tale diritto deve riconoscersi la più ampia portata possibile, senza che possa essere vincolato ad una determinata condizione di salute (una malattia incurabile o anche solo grave come nel caso Cappato o Englaro), a una certa fase della vita e nemmeno alla verifica dell’accettabilità dei motivi sottesi al compimento di un simile gesto. Subordinare, dunque, la tutela del diritto alla vita, inteso nella sua totalità, al ricorrere di specifiche cause o situazioni – psicofisiologiche- significherebbe sostituirsi ai singoli in valutazioni loro totalmente riservate, fondate sulla possibilità per ciascuno di quantificare una “qualità di vita” come accettabile, nonché svilire l’intero coacervo normativo e costituzionale. Alla luce di queste considerazioni, la norma punitiva anzi citata, costituirebbe, invero, una restrizione del diritto fondamentale di riferimento (diritto alla vita), atteso che genererebbe,“ictu oculi”, un’interferenza alla libertà di optare per il suicidio. Tale sovrapposizione richiederebbe una giustificazione costituzionale, che, trattandosi di diritti fondamentali, la Corte si propone di misurare con il criterio di ragionevolezza e stretta proporzionalità[4]. In particolare, tale verifica tipica delle Corti Costituzionali, consente di stabilire, in via successiva, se la norma persegue un fine legittimo, è idonea e necessaria per raggiungere tale fine ed esprime un bilanciamento ragionevole tra tale fine e le restrizioni imposte rispetto all’interesse del singolo e dei consociati. A ben vedere, la prima condizione è da ritenersi oggettivamente soddisfatta, in quanto mira a proteggere la possibilità di autodeterminarsi nella scelta di vivere, e quindi in sintesi tutela la vita stessa in ogni sua fase di sviluppo e fine. Da questo punto di vista, attraverso il divieto penale di aiuto al suicidio lo Stato assolve all’obbligo – anch’esso costituzionalmente fondato – di tutela dell’autonomia individuale, che sarebbe messa in pericolo (oltre che da condotte specifiche di terzi) da un’ipotetica evoluzione dei rapporti sociali in seguito alla quale, alcuni soggetti, per la situazione in cui versano, subirebbero una forte pressione a darsi la morte. Anche sotto il profilo dell’idoneità a realizzare tale obiettivo di tutela, la sanzione penale può senza dubbio rappresentare un contributo utile ad assurgere a “disincentivo giuridico”, quantomeno dai potenziali comportamenti dannosi. Il problema si porrebbe, però, laddove la restrizione al diritto dell’individuo ad una morte auto-determinata risultasse sproporzionata rispetto ai benefici per sé e per i consociati. Il sempre delicato equilibrio tra i due poli impone alla Corte, operante in materia di diritti fondamentali, un controllo particolarmente stringente del risultato finale prodotto dalle scelte di incriminazione del legislatore. Infatti, i Giudici tedeschi, ribadiscono che la tutela può operare solo contro indebite influenze esterne, al di là delle quali però non c’è spazio per sindacare – o comprimere- la valutazione autodeterminata del soggetto in procinto di scegliere il fine vita. In concreto – osserva la Corte – il divieto penale di assistenza al suicidio, così come concepito dal legislatore tedesco, finisce per svuotare di contenuto il diritto al suicidio. Dunque, anche se l’incriminazione riguardava soltanto una specifica tipologia di condotte di assistenza (ovvero quella di natura commerciale), risultava comunque sproporzionata, perché le alternative disponibili non offrivano una reale prospettiva di autodeterminazione. La sentenza si conclude, tuttavia, con un monito, ovvero: la Corte si preoccupa di ribadire come la declaratoria di incostituzionalità della norma non impedisce al legislatore di predisporre un’apposita regolamentazione dell’assistenza al suicidio, purché sia rispettata senza restrizioni il riconoscimento di uno spazio effettivo per poter esercitare tale libertà in accordo con i propri desideri. Una conclusione, dunque, che appare in linea con la Convenzione EDU[5], ed in particolare con gli artt. 2,3 e 8 della stessa, alla luce anche delle pronunce passate (“Pretty, Haas e Koch”)[6]. Appare opportuno, dopo la disamina delle questioni sottese alla pronuncia, operare un confronto finale, su questioni di matrice sostanziale penale. Da un lato, la disciplina dell’omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.) ormai coincide, in larga parte, con quella del § 216 StGB, considerata sia l’area del punibile tracciata dalla norma, che l’attenzione dedicata dalla dottrina italiana al tema dell’eutanasia passiva, ovvero quando la morte è provocata dall’interruzione o dall’omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo. In relazione ad essa, infatti, si riconosce la sostanziale impossibilità di costringere alla vita chi voglia lasciarsi morire; tuttavia, con molto più rigore si valuta la possibilità di esprimere un consenso quando la malattia sia in corso, ritenendo a tal fine decisivi gli influssi del malessere psico-fisico sulla libera determinazione del soggetto. Si riconoscono meno interventi scriminanti in relazione ad un grado intermedio di scelta, quale potrebbe essere un’eutanasia attiva diretta, ovvero quando il decesso è provocato tramite la somministrazione di farmaci che inducono la morte. Rispetto al § 217 StGB, invece, è ancora possibile osservare la maggiore portata sanzionatoria della previsione italiana ex art. 580 cod. pen., che incrimina, a differenza della gemella tedesca, ogni forma di cooperazione psicologica o materiale dolosa al suicidio. Mentre nei paesi Europei, il problema del fine vita è stato notevolmente preso in considerazione, in Italia, invece, prima di un’apertura costituzionalmente orientata, la questione era tutt’altro che oggetto di querelle. Infatti, proprio in tema di suicidio assistito e di modalità esecutive, la stessa giurisprudenza di legittimità, in maniera granitica, a tratti riluttante ad un qualsivoglia ampliamento di veduta, aveva sempre sostenuto: “la circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all’art. 62, n.1,c.p., non incide sul trattamento sanzionatorio, atteso che l’assenza di un consenso unanime e le discussioni tutt’ora esistenti intorno alla condivisibilità dell’eutanasia sarebbero sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, sì che l’assenza di una generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale preclude in radice la possibilità di qualificare i motivi pietosi come di particolare valore morale e sociale”.[7] L’orientamento costante espresso dai giudici di legittimità, prescindendo dal libero convincimento del giudice in ordine alla vicenda specifica, lascia trapelare un relegamento del problema del diritto al suicidio assistito, alla sola condivisione morale o meno.
3. Riflessioni conclusive in chiave comparata
In buona sostanza, secondo i supremi giudici tedeschi, la norma penale tacciata di incostituzionalità è frutto di un incongruo, se non mancato, bilanciamento tra le due manifestazioni del diritto alla vita: l’aspetto soggettivo, inteso anche, come diritto alla morte autodeterminata e quello oggettivo, concepito, come diritto riconosciuto e garantito dallo Stato rispetto alle influenze, che mettono in pericolo l’autodeterminazione sul fine vita. Questo bilanciamento che ha condotto la Corte italiana a elaborare una scriminante condizionata, stante anche l’inerzia del legislatore, mantenendo comunque in “vita” l’art. 580 cod. pen., si rinviene , seppur con le dovute differenze, anche nella decisione della Corte federale, ove è stato affidato al legislatore l’intervento normativo, frutto di una discrezionalità legislativa, non più assoluta, ma orientata secundum costitutionem. Ferme restando le osservazioni critiche testé formulate, si conferma, ad avviso di chi scrive, l’importanza dell’ordinamento tedesco come possibile termine di paragone per le riforme legislative o per le innovazioni interpretative cui dare luogo in Italia. Le forti analogie, sia in tema di diritto penale che di diritto costituzionale, in relazione alla tutela dei beni giuridici come la vita e l’autodeterminazione individuale riguardo la sua fine, consentono di ravvisare in esso un modello non troppo distante dal nostro, rendendo la reciproca ispirazione e l’armonizzazione un obiettivo a portata di mano, ponendo così fine ad incriminazioni penali derivanti da scelte individuali di (non) vita.
[1] Zum Urteil des Zweiten Senats vom 26 Februar 2020, il testo integrale in lingua tedesca è consultabile sul sito della Corte Costituzionale Federale Tedesca, accedendo in alto a destra è possibile visualizzare in ordine cronologico le decisioni, link: https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/EN/2020/bvg20-012.html,
[2] Con il deposito dell’ordinanza n. 207 del 2018, e con la sentenza dopo n. 242/2019, la Corte costituzionale ha aperto una strada nuova sotto molteplici punti di vista: ha ampliato i margini dell’autodeterminazione individuale, spostandone – nel rispetto dell’esigenza di bilanciare la salvaguardia del bene della vita – i limiti normativi oltre l’attuale perimetro garantito dall’art. 32, co. 2 Cost.; ha innovato il catalogo delle tecniche decisorie, riconoscendo la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.; ha attualizzato il dialogo con il Parlamento, al quale, aveva sollecitato la necessità di un intervento legislativo idoneo a colmare il presunto vulnus costituzionale. E’ bene notare, come l’attività della Corte sia stata improntata – in ossequio al baluardo del costituzionalismo: il principio di separazione dei poteri- all’attesa di una risposta legislativa. Sul punto cfr. Adamo U., “La Corte è “attendista”«facendo leva sui poteri di gestione del processo costituzionale». Nota a Corte cost., ord. n. 207 del 2018”,in Forum quaderni costituzionali 2018. Per una lettura completa del provvedimento giurisdizionale, emesso dalla suprema corte, si rimanda al seguente link: http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/11/Corte-Costituzionale-242-2019-1.pdf
[3] La traduzione della disposizione normativa e dei relativi commi è stata effettuata tramite procedimento informatico.
[4] Il principio di stretta proporzionalità, o di proporzionalità, ancorato indissolubilmente al principio di ragionevolezza rappresentano gli “strumenti giuridici” di lavoro della Corte Costituzionale, indispensabili per affrontare qualsivoglia valutazione di compatibilità costituzionale. Al fine di fornire al lettore una, sia pur sommessa, spiegazione del loro contenuto appare, quanto mai, opportuno precisare che non esiste una definizione univoca di proporzionalità e ragionevolezza. E’ possibile sostenere che il carattere saliente del giudizio di proporzionalità si articoli in una verifica a quattro fasi o momenti, riguardanti le scelte operate dal legislatore. La prima fase, definita anche come fase “legittimità”, consiste nella verifica che il legislatore abbia agito per uno scopo legittimo, non in contrasto, dunque, con i principi costituzionali; la seconda, consiste in una valutazione del rapporto mezzi-fini, in modo da assicurare che sussista una “connessione razionale” tra i mezzi predisposti dal legislatore e i fini che questi intende perseguire con l’esercizio del suo potere; il terzo passaggio, quello della verifica della “necessità”, è volto ad accertare che il legislatore abbia optato, nella scelta legislativa, per il minore sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti; la quarta fase è quella della “proporzionalità in senso stretto” cui faceva riferimento anche la Corte Costituzionale tedesca nell’iter argomentativo, esamina in buona sostanza, gli effetti dell’atto legislativo, mettendo a raffronto e soppesando i benefici che derivano dal perseguimento dell’obiettivo cui il legislatore mira, sia per il singolo che per i consociati. E’ quest’ultima la fase più delicata, quella che esige un’attenta disamina da parte del giudice costituzionale, e proprio in tale fase, che ricorre la necessità di proiettarsi in chiave di lettura postuma, per comprendere la portata applicativa e gli effetti di una norma. Per quanto concerne, invece, il principio di ragionevolezza, esso funge da criterio di giudizio che incide sulla discrezionalità legislativa. Proprio in ragione della eccessiva pervasività del criterio testè citato, è opportuno che il giudice costituzionale vi ricoresse solo in quei casi in cui sia necessario intervenire per rimuovere una disposizione normativa così estremamente e manifestamente irragionevole da apparire tale a qualunque persona. Sul punto si veda, fra gli altri: Roselli F. << La Sentenza della Corte Costituzionale n.194 del 2018. Tra discrezionalità del legislatore e principio di ragionevolezza>> in Lavoro, Diritti, Europa 2019 / 1; Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 13-14 ottobre 1992, Milano, Giuffré, 1994 2 G. Scaccia, Controllo di ragionevolezza delle leggi e applicazione della Costituzione, in Nova juris interpretatio, Roma 2007, pp. 286-302; Id. Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio, Torino, 2000, in cui l’A. sottolinea l’effetto di indebolimento del testo costituzionale che il ricorso al principio di ragionevolezza determina; R. Alexy, Elementi fondamentali di una teoria della duplice natura del diritto. Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013” Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana Marta Cartabia”.
[5] Sotto la supervisione del Consiglio Europeo, il 4 novembre 1950, è stata firmata a Roma la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La Dichiarazione mira a garantire il riconoscimento e l’applicazione universali ed effettivi dei diritti che vi sono enunciati. Attraverso la convenzione è stato riaffermato il profondo alle libertà fondamentali ed ai diritti che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico effettivamente democratico e dall’altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei diritti dell’uomo di cui essi si valgono.
[6] La Corte EDU, con le tre sentenze di cui alla nota esplicata, torna ad occuparsi dello spinosissimo tema dell’eutanasia attiva diretta, cioè di quei casi in cui la morte è causata da una condotta umana che anticipa il momento del decesso naturale, allo scopo di sottrarre il paziente alle sofferenze connesse a una patologia incurabile o comunque ad uno stato di sofferenza incompatibile con una dignitosa esistenza. Nella sentenza Pretty c/ Regno Unito riguardo il diritto alla vita, tutelato dall’art. 2 CEDU, secondo i giudici di Strasburgo, non appare possibile leggere nella norma convenzionale una imposizione negativa in capo allo Stato, consistente precisamente nel lasciare all’individuo il diritto di scegliere se vivere o meno. Circa il divieto di trattamenti inumani o degradanti, la lettura proposta dalla ricorrente andava esattamente nel senso opposto rispetto a quella dalla stessa prospettata in riferimento all’art. 2 CEDU: sarebbe qui entrato in gioco l’obbligo positivo per lo Stato di evitare trattamenti inumani o degradanti agli individui, quali sarebbero nel caso di specie le insopportabili e non dignitose condizioni di vita cui essa era sottoposta nella fase terminale della sua malattia. In riferimento alla sentenza Haas c/ Svizzera, la questione giuridica riguardava un cittadino svizzero affetto da sindrome bipolare, il quale chiedeva che gli fosse fornita una sostanza con cui procurarsi la morte e, vistosi opporre un rifiuto da parte delle autorità svizzere, adiva la Corte europea ritenendo tale rifiuto in contrasto con l’art. 8 CEDU. In questo caso il nodo del contendere non era tanto quello della sussistenza, nell’ordinamento svizzero, di un divieto generale di suicidarsi o di assistenza al suicidio, quanto dell’eventuale esistenza di un obbligo positivo in capo agli Stati di porre il paziente in condizioni di ottenere il sostegno necessario per praticare un suicidio dignitoso, nonché la necessità di sottoporre a visita psichiatrica il paziente al fine di comprendere se tale auto determinazione fosse stata libera e consapevole. In tale occasione la Corte ritenne che le condizioni richieste dalla legislazione svizzera per l’ottenimento del farmaco letale, non fossero sproporzionate in relazione al contrapposto obbligo, discendente dall’art. 2 CEDU, di impedire che una persona sottoposta alla giurisdizione dello Stato ponga fine alla propria vita ove la sua decisione non sia libera e consapevole. Nel caso Koch c/ Germania, una paziente affetta da quadriplegia sensomotoria con scarsissime aspettative di vita, decise unitamente al marito di recarsi in Svizzera per procurarsi la morte, e li assistita dall’associazione Dignitas riuscì nell’interno. Il signor Koch, nell’adire la Corte Europea, lamentava essenzialmente che il rifiuto opposto dalle Corti nazionali a esaminare il merito del suo ricorso contro il rigetto della richiesta presentata da sua moglie all’Istituto federale per i farmaci e dispositivi medici costituiva una violazione del proprio diritto al rispetto alla vita personale e familiare protetto dall’art. 8 CEDU. La Corte, nel pronunciarsi, richiama due principi cardine nella propria giurisprudenza: da un lato quello di sussidiarietà, in base al quale, per il funzionamento del meccanismo di protezione costruito dalla Convenzione europea, è fondamentale che siano gli stessi ordinamenti nazionali a stabilire per primi modalità di ristoro per le violazioni convenzionali in tali ordinamenti originatesi; dall’altro la dottrina del margine d’apprezzamento, dando atto, anche sulla base di una ricerca comparatistica tra i vari Stati membri, dell’ampia discrezionalità di cui essi godono in tema di eutanasia attiva. Con l’affermazione di tali principi, a ben vedere, la Corte da un lato auto-limita i suoi poteri, dall’altro con la medesima affermazione, e con la censura rivolta allo Stato tedesco relativamente alla violazione procedurale dell’art. 8 CEDU, rivolge agli Stati contraenti un importante invito: proprio in quanto primi garanti della Convenzione, essi sono tenuti ad esaminare nel merito i ricorsi che i cittadini presentino loro in materia di assistenza al suicidio e/o a pratiche di eutanasia.
[7] S. Santini, nota a Cass., sez. I, 12.11.2015 (dep. 31.3.2016), n.12928, rel. Esposito, in Diritto Penale Contemporaneo, ed. 2016. In tale pronuncia la Corte, torna ad intervenire sul delicato tema della configurabilità della fattispecie di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. e della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale prevista dall’art. 62, n.1, c.p. nelle ipotesi di c.d. eutanasia attiva pietatis causa. A ben vedere, l’orientamento non muta, rispetto alle precedenti formulazioni giurisprudenziali, la Corte è netta nell’affermare che il tema “spinoso” e per altro controverso, non può in sede giurisdizionale determinare il riconoscimento di una diversa valutazione, per altro contrastante con il dato sociale ed il pensiero comune. “l’assenza di una generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale” preclude in radice la possibilità di qualificare i motivi pietosi come di particolare valore morale e sociale.”
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Raffaele Iannone
Luarea in Giurisprudenza conseguita in quattro anni e una sessione, anno accademico 2016/2017 con Tesi di Ricerca in Criminologia dal titolo : L'evoluzione del Terrorismo : dalle Brigate Rosse all' Isis. Votazione 107/110 e merito semplice.
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