Il “disoccupato” e il reddito minimo d’inserimento: indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o truffa aggravata?
Il reddito minimo d’inserimento (Rmi) ha visto la luce in Italia nel 1995 in esito agli studi condotti dalla commissione d’indagine sulla Povertà e l’Emarginazione. A parere della Commissione, malgrado preesistenti forme di incentivi locali a sostegno del reddito, mancava uno strumento sociale, unitario e sicuro a livello nazionale capace di eliminare le inevitabili diseguaglianze.
Ed infatti, la pluralità nonché la diversità di finanziamenti erogati a livello locale conduceva a divari non irrilevanti a parità di bisogno. In assenza, dunque, di un criterio unitario e trasparente in fase di accesso ed assegnazione, la Commissione Onofri nel 1997, sulla scorta di un piano finalizzato a riformare l’attuale sistema di welfare, pose tra i suoi obiettivi l’ideazione di un’indennità riconosciuta a tutti coloro i quali risultassero privi del diritto al primo livello di protezione (sospensione temporanea con la conservazione del posto di lavoro) ovvero al secondo livello (trattamenti di disoccupazione per i lavoratori che perdono una precedente occupazione).
Beneficiari del finanziamento tutti i maggiorenni con capacità reddituali inferiori a uno specifico limen calcolato su base familiare. La ratio dell’istituto è, dunque, l’erogazione di un minimum in attesa di un successivo reinserimento nel mondo del lavoro. Le analisi statistiche ed economiche condussero alla conseguente approvazione del D.lgs 237/98 che introdusse l’istituto in esame a titolo meramente sperimentale.
La successiva Legge di riforma (8 novembre 2000, n. 328) apportò sensibili modifiche al Rmi attribuendogli, ai sensi dell’art. 23, il titolo di misura generale di contrasto della povertà al quale far confluire ulteriori misure di assistenza economica. I molteplici tentativi di statalizzare il sistema di contribuzione assistenziale hanno condotto, tuttavia, a risultati insoddisfacenti. Tra le cause, non ultima, la difficoltà di reperimento e allocazione delle risorse necessarie. Nell’attuale complessivo sistema di incentivo a sostegno del reddito, partecipe torna, ancora una volta, l’ente locale tramite l’attivazione di appositi tirocini e finanziamenti di varia natura.
Tralasciando le falle del sistema esposto, ciò che rileva ai nostri fini attiene alla configurabilità di tutte quelle condotte poste in essere da coloro che, non avendo il diritto di beneficiare delle erogazioni assistenziali in commento, riescano, tramite false dichiarazioni, a ottenere la relativa indennità.
Occorre sin da subito anticipare come le principali problematiche ruotano attorno al rapporto tra i delitti di cui agli artt. 316 ter, 640 e 640 bis c.p..
Secondo un primo orientamento, “non è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.) né quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.), bensì eventualmente quello di truffa aggravata in danno dello Stato o di altro ente pubblico (art. 640, comma secondo, numero 1 c.p.), nella condotta di chi, mediante false dichiarazioni sulla propria situazione patrimoniale, ottenga l’erogazione dell’indennità da <<reddito minimo d’inserimento>> prevista dal d.lg. 18 giugno 1998 n. 237. Ciò in quanto le erogazioni pubbliche di natura assistenziale non possono ricomprendersi tra le <<erogazioni pubbliche>> prese in considerazione dalle norme incriminatrici di cui agli artt. 316 ter e 640 bis c.p., riferendosi queste ultime esclusivamente alle erogazioni di carattere economico-finanziario previste a sostegno delle attività economiche e produttive.” Cass., sez. VI, 2 marzo 2006 – 19 giugno 2006, n. 21112, CED 234587. In senso conforme Cass., sez. VI, 11 maggio 2005 – 20 luglio 2005, n. 26919, ivi 231865.
Il fine perseguito dall’erogazione, dunque, sembrerebbe costituire l’elemento scriminante capace di escludere la configurabilità dei delitti di cui agli artt. 316 ter e 640 bis: accogliendo la prospettiva interpretativa suggerita da tali pronunce, le sanzioni previste dalle disposizioni in discorso andrebbero a reprimere soltanto gli indebiti conseguimenti di erogazioni destinate ad avere ricadute economiche e finanziarie esterne rispetto al richiedente. Pertanto, esulerebbero dall’ambito applicativo degli articoli 316 ter e 640 bis c.p. le frodi impiegate, come nella specie, per ottenere indennità di natura assistenziale che dovrebbero essere punite ai sensi dell’art. 640, comma 2, n. 1) c.p.
L’adesione all’orientamento giurisprudenziale prevalente, escludendo la possibilità di riconoscere la sussistenza dell’art. 316 ter c.p. ai casi di indebita percezione del reddito minimo di inserimento, finiva per sottoporre tali condotte ad un trattamento repressivo e sanzionatorio sostanzialmente più sfavorevole di altre condotte sicuramente più gravi.
L’assoggettamento, infatti, alla disciplina dettata dall’art. 640 c.p. con la previsione dell’aggravante di cui al comma 1 del capoverso di detta norma finiva per punire i percettori di somme spesso assai esigue, la cui condotta poteva essere consistita nel non dichiarare beni immobili di scarsissimo valore, come nelle ipotesi di piccole quote di proprietà, o di piccoli depositi bancari tali ad assicurare appena la sussistenza del nucleo familiare, con la sanzione penale, mentre coloro i quali sulla base di dichiarazioni non veritiere acquisivano contributi pubblici destinati ad attività produttive potevano usufruire del limite di non punibilità ed assoggettamento alla sola sanzione amministrativa previsto dal comma secondo dell’art. 316 ter c.p. il quale appunto esclude l’applicabilità della sanzione penale per tutte le erogazioni illecite inferiori ad € 3.999,96.
Conseguentemente i fatti commessi da soggetti in condizioni di semi-indigenza venivano ricondotti all’alveo della truffa aggravata ex art. 640 n.1 c.p. e puniti con sanzione penale indifferentemente dall’entità del contributo percepito ed anche nelle ipotesi di mancata percezione di alcuna somma sotto il paradigma della truffa tentata (artt. 56 e 640 n.1 c.p.).
In merito alla medesima questione nodale sono intervenute le Sezioni Unite con sentenza del 27 aprile 2007 n. 16568. Nel caso di specie i ricorrenti lamentavano violazione di legge, sostenendo che il delitto previsto dall’art. 316 ter c.p. è applicabile solo all’indebita percezione di contributi economico-finanziari, non anche alla percezione di erogazioni pubbliche assistenziali, qual è il reddito minimo di inserimento, come riconosciuto dalla giurisprudenza più recente.
Ebbene, il Supremo Consesso, facendo leva sulla nozione di “contributo”, ha inteso ricondurre al genus “le erogazioni pubbliche assistenziali, come confermato dal secondo comma dello stesso art. 316 ter c.p., laddove impone quale condizione di rilevanza penale del fatto una soglia minima di quattromila euro, certamente non giustificabile se la fattispecie si riferisse alle sole erogazioni di sostegno alle attività economico produttive” così ribaltando il precedente orientamento.
Dunque, in luogo della natura del finanziamento, secondo una lettura “in negativo” del secondo comma dell’art. 316 ter, la Corte ha intesso porre in rilievo il quantum indebitamente percepito, oltre il quale la condotta assume connotati penali indipendentemente dall’aspetto teleologico cui è preordinata la sovvenzione corrisposta. D’altronde, secondo un criterio logicamente lineare seguito dalle Sezioni Unite, sarebbe irragionevole ritenere che proprio le attività illecite di minore gravità, come quelle destinate all’indebita percezione di erogazioni assistenziali, debbano in definitiva essere sanzionate più gravemente, posto che, ove escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 316 ter c.p., esse risulterebbero riconducibili alle concorrenti fattispecie della truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1 c.p.) e del falso ideologico in atto pubblico commesso dal privato (art. 483 c.p.).
In occasione della medesima pronuncia, le Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire il rapporto tra i delitti di cui agli artt. 316 ter e 640 bis ritenendo configurabili entrambi anche in ordine ai casi di indebita erogazione di contributi di natura assistenziale, ponendosi, il delitto di indebita percezione a danno dello Stato in un rapporto di sussidiarietà, e non di specialità, con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, con la conseguenza che il primo è configurabile soltanto laddove difettino nella condotta gli estremi del secondo.
Ed allora occorrerà analizzare, in primo luogo, la condotta materiale in ordine all’individuazione del discrimen onde accertare la realizzazione di una delle ipotesi di reato contemplate. La querelle giurisprudenziale che interessa i due reati messi a confronto, sembra collegarsi, altresì, ad una più ampia questione ermeneutica, relativa alla idoneità o meno delle dichiarazioni semplicemente menzognere o alle omissioni delle informazioni dovute a configurare di per sé sole, la nozione di “artifizi e raggiri” in grado da ingannare lo Stato, gli enti pubblici o le Comunità europee. Sotto il profilo applicativo, le marginali differenze fra le due previsioni sono individuate, da un lato, nel fatto che gli artifizi e raggiri (art. 640 bis c.p.) rappresentano una modalità di inganno più intensa rispetto alle false dichiarazioni o alle omesse informazioni (art. 316 ter c.p.), dall’altro, nella circostanza che l’applicazione dell’art. 316 ter è subordinata al difetto dell’induzione in errore o del danno per l’ente erogatore, elementi tipici del delitto di cui all’art. 640 bis c.p. Spetta, tuttavia, al giudice verificare il nesso relazionale tra la fattispecie concreta e la fattispecie astratta ovvero determinare se una condotta rispondente alla fattispecie delineata dall’art. 316 ter c.p. integri anche la figura descritta dall’art. 640 bis c.p., operando, in tal caso, solo quest’ultima previsione punitiva.
Ciò che risulta palese, alla luce tanto del dato normativo, quanto della ratio legis, è che l’art. 316 ter c.p. sia volto ad assicurare una tutela aggiuntiva e “complementare” rispetto a quella già offerta dall’art. 640 bis c.p..
Appare, invece, ragionevolmente indiscusso in giurisprudenza che il reato di falso previsto dall’art. 483 c.p. resta assorbito in quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato in tutti i casi in cui l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscano elementi essenziali di quest’ultimo. L’assorbimento ha luogo anche quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima di erogazione (euro 3.999,96), dia luogo alla violazione amministrativa prevista dal secondo comma dell’art. 316 ter Medesimo discorso per il reato di falsa attestazione di qualità personali (art. 495 c.p.) o per l’uso di atto falso (art. 489 c.p.) quando essi integrino un elemento essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 316 ter e ne costituiscano la modalità tipica di consumazione. In questo senso, il reato di cui all’art. 316 ter è reato complesso e contiene tutti gli elementi costitutivi dellart. 483 c.p., dell’art. 489 c.p. e dell’art. 495 c.p..
Alla luce delle esposte riflessioni è possibile ricavare alcune considerazioni finali.
Certamente, la minor fraudolenza dei mezzi usati nel commettere il reato di cui all’art. 316 ter c.p. rispetto al reato di truffa aggravata ex art 640 bis c.p. costituisce un argomento giuridicamente valido per stabilire un trattamento sanzionatorio attenuato rispetto a quello previsto per il reato base.
In questo senso, la “storica” pronuncia del 2007 delle Sezioni Unite si pone nel solco della soluzione legislativa costituendo un utile indirizzo giurisprudenziale atto a garantire il rispetto dei principi di uguaglianza e proporzionalità sanciti agli artt. 3 e 27 della Costituzione a fronte di condotte che, sebbene riprovevoli, non raggiungono soglie di punibilità tali da giustificare l’adozione di parametri sanzionatori del tutto avulsi dal commesso delitto
D’altra parte, ciò risponde a quel principio di offensività che costituisce un pilastro non solo del diritto penale nostrano ma della cultura europea. Esso è misura della proporzione della tutela penale del bene giuridico, configurandosi limite alle scelte di politica criminale del legislatore. Non dimentichiamo, infine, che i principi materiali del diritto penale (necessaria lesività, extrema ratio, colpevolezza) sono veri e propri parametri di razionalità a salvaguardia del rispetto dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
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Marco Testai
Dottore in Giurisprudenza nell'A.A. 2012/2013 con la tesi di Laurea in diritto penale sul sequestro di persona ottenendo il voto di 110/110, ha intrapreso l'attività di pratica forense presso lo Studio Legale dell'Avv. Marco Verghi ultimata nel 2015.
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