Il divieto di analogia nel diritto penale
L’articolo 25, comma 2 Cost., sancisce il principio di legalità in materia penale, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso; tale principio è altresì ribadito dall’art. 1 del codice penale.
Corollario del principio di legalità è il principio del divieto di analogia in materia penale; l’analogia, in particolare, consiste nell’applicare ad un caso concreto, sprovvisto di disciplina, una regola vigente in un caso analogo. È invece ammessa l’analogia in bonam partem, posto che, in coerenza con la ratio del principio di legalità, la punizione costituisce l’eccezione, mentre la libertà la regola.
Differisce dal procedimento analogico e non va con esso confuso l’interpretazione estensiva di una norma, la quale rappresenta un criterio ermeneutico con cui si attribuisce alla norma stessa un più ampio significato fra quelli possibili e che trova il proprio invalicabile limite nella lettera della legge.
Ciò posto, uno dei risvolti pratici di maggior impatto negli ultimi anni del divieto di analogia in malam partem, riguarda l’ipotesi di possibile estensione della responsabilità del direttore responsabile di un quotidiano al direttore editoriale, nel caso di pubblicazioni di articoli diffamatori.
Al fine di dare soluzione alla querelle, appare opportuno preliminarmente eseguire una panoramica delle norme di riferimento.
L’articolo 595 c.p. disciplina in primis il reato di diffamazione, punendo al primo comma chiunque, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione; il terzo comma del medesimo articolo prevede invece la c.d. diffamazione a mezzo stampa, consistente nell’ipotesi in cui il reato di diffamazione venga perpetrato col mezzo della stampa o con qualsivoglia altro mezzo di pubblicità, ovvero mediante atto pubblico.
L’articolo 57 c.p. infine, rubricato “Reati commessi col mezzo della stampa periodica”, punisce il direttore o vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare il controllo necessario sul contenuto del periodico da lui diretto, laddove col mezzo della pubblicazione siano commessi reati.
Orbene, la posizione di tale soggetto non dovrebbe essere equiparata a quella del direttore responsabile del periodico ai fini della attribuzione del reato commesso col mezzo della pubblicazione.
Secondo la Suprema Corte difatti, in tema di diffamazione a mezzo stampa, mentre il direttore responsabile è titolare di una posizione di garanzia ex art. 57 c.p., posto che assume la paternità di ciò che viene pubblicato, da cui scaturisce un obbligo di controllo e di vigilanza, il direttore editoriale è tenuto esclusivamente a dettare le linee di impostazione programmatica e politica del quotidiano successivamente elaborate e realizzate dal direttore responsabile, senza condividere la responsabilità del primo (Cass. Pen., Sent. 11/07/11, n. 42125); di talché ne deriva che l’estendere la posizione del direttore responsabile al direttore editoriale non costituirebbe una interpretazione estensiva dell’art. 57 c.p., bensì una applicazione analogica in malam partem della norma, non ammissibile.
Peraltro il direttore editoriale non dovrebbe rispondere nemmeno a titolo di concorso omissivo nel reato di cui all’art. 595 c.p. perpetrato dal direttore responsabile, posto che mancherebbe qualsivoglia contributo causale apportato alla realizzazione del reato; la giurisprudenza chiede difatti in tema di concorso di persone che la condotta del concorrente apporti almeno un contributo idoneo a favorire potenzialmente, e quindi a rendere più probabile l’evento, come ad esempio il rafforzamento dell’altrui proposito (Cass. Pen., Sent. 14/10/1986, n. 10841).
Ma soprattutto, secondo costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la condotta omissiva può dar luogo ad ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento (Cass. Pen., Sent. 6/02/2007, n. 137).
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Avv. Claudio Tarulli
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