Il divieto di licenziamenti al tempo del “coronavirus”
L’art. 46 del d.l. 18/2020 (c.d. “cura Italia”) – poi convertito in legge n. 27/2020 – ha tra l’altro introdotto per tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, un divieto assoluto (ma temporaneo) di effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (art. 3 della l. n. 604/1966).
Il divieto, inizialmente della durata di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020), è stato da ultimo esteso, per complessivi “cinque mesi”, dall’art. 80 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “rilancio Italia”).
Gli iniziali dubbi sulla disposizione in commento, recentemente acuiti per effetto della suddetta proroga, offrono quindi l’occasione per approfondire – senza presunzione di completezza – le ragioni del divieto e la sua compatibilità con i principi (anche di rango costituzionale) che presiedono la disciplina del licenziamento per g.m.o.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Emergenza e solidarietà: le ragioni del divieto ed i profili di maggior attrito con il principio d’iniziativa economica – 3. Il licenziamento per g.m.o. tra libertà di iniziativa economica e tutela dell’occupazione – 4. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
La terminologia “giornalistica” utilizzata dal Governo per pubblicizzare gli interventi normativi di contrasto all’epidemia da COVID-19, costituisce un primo indice ermeneutico per gli operatori del settore.
Il concetto di “cura Italia” – nome affibbiato al decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 – rievoca infatti l’idea di misure finalizzate (almeno in tesi) ad assistere i cittadini raggiunti dalle conseguenze – anche economiche – della crisi sanitaria.
Tali considerazioni risultano avvalorate dalla relazione illustrativa al decreto, la cui adozione viene ivi giustificata «per affrontare l’impatto economico di questa emergenza sui lavoratori, sulle famiglie e sulle imprese».
In questo quadro si inserisce la previsione contenuta nell’art. 46 del decreto-legge (poi nelle more convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27), secondo cui: «1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».
La disposizione in esame, quindi, inibisce l’avvio – a far data dal 17 marzo 2020 (giorno della sua entrata in vigore) – dei licenziamenti “a carattere economico” e, ove già avviati alla data del 23 febbraio 2020, ne sospende la prosecuzione (e quindi l’efficacia espulsiva). Il tutto, per un periodo di sessanta giorni: e quindi con scadenza al 16 maggio 2020.
Sin dalla sua entrata in vigore, l’art. 46 ha destato alcune perplessità in considerazione della forte limitazione che il “blocco” imporrebbe sulle scelte di politica economica delle imprese, nel cui novero rientrano anche quelle di gestione (in uscita) dei rapporti di lavoro.
Tali scelte, del resto, rappresentano la manifestazione del principio di libertà di impresa (art. 41 comma 1 Cost.) e, in definitiva, costituiscono il presupposto stesso dell’attuazione del diritto al lavoro[1].
È pur vero, che in una situazione emergenziale come quella in corso, non sarebbe stato difficile “giustificare” l’adozione di provvedimenti espulsivi adducendo ragioni di natura squisitamente economica, intuitivamente legate agli effetti negativi dell’epidemia.
E tuttavia, si fa fatica a comprendere l’assorbimento, entro l’ambito applicativo della norma – sia pure sotto il profilo della “sola” sospensione – anche di quelle procedure già avviate prima che l’agente patogeno facesse il suo ingresso in Italia (o, quantomeno, prima che i suoi effetti si manifestassero in maniera così virulenta), le quali, probabilmente, poco o nulla avevano a che vedere con la situazione epidemiologica.
Come a più riprese indicato dalla Corte costituzionale[2], infatti, l’ordinamento giuridico è coerente se viene assicurato «trattamento eguale di condizioni eguali e trattamento diseguale di condizioni diseguali» (arg. art. 3 Cost.).
I dubbi sono quindi aumentati con l’avvento dell’art. 80 comma 1 lett. a) del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “decreto rilancio”) che, nel novellare l’art. 46, ha prorogato il periodo di operatività del blocco, passato, dagli iniziali sessanta giorni, agli attuali “cinque mesi” (quindi con scadenza al 17 agosto 2020).
2. Emergenza e solidarietà: le ragioni del blocco ed i profili di maggior attrito con il principio d’iniziativa economica
V’è da dire, in proposito, che è in generale diffusa la tesi secondo cui, in ipotesi di cessazione totale dell’impresa[3], un divieto assoluto di licenziamento dovrebbe ritenersi incompatibile con il dettato costituzionale[4], in quanto non potrebbe costringersi taluno a proseguire l’attività d’impresa, in situazioni di perdita economica[5].
Occorre domandarsi, allora, quali siano le ragioni sottese all’introduzione del blocco.
Una prima considerazione da cui muovere (che rievoca ancestrali dibattiti giuslavoristici), è quella di considerare la normativa emergenziale come declinazione, di fonte legale, dei principi costituzionali di cui agli artt. 4 comma 1 e 41 comma 2 Cost.
La prima, norma di natura programmatica[6], imporrebbe infatti al Legislatore di «promuovere» le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro e, in una situazione emergenziale come quella in corso, potrebbe in effetti legittimare l’attuazione di un blocco dei licenziamenti.
Ponendo la questione in questi termini, però, è forte il rischio di incorrere in una “forzatura ermeneutica” della norma, che, come anche rilevato dalla Corte costituzionale, «non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un’occupazione (il che é reso evidente dal ricordato indirizzo politico imposto allo Stato, giustificato dall’esistenza di una situazione economica insufficiente al lavoro per tutti, e perciò da modificare), così [come] non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto»[7].
Relativamente, poi, al secondo comma dell’art. 41 Cost., se ne potrebbe sostenere l’attuazione riconoscendo al blocco una funzione di “utilità sociale”, in quanto argine alla probabile “escalation” del tasso di disoccupazione correlata alle limitazioni imposte alle attività produttive.
Sul punto, pare invero attualissimo il pensiero di MAZZIOTTI: «stante l’impossibilità di definire il concetto di utilità sociale, questa disposizione costituisce una norma in bianco, che dà al legislatore il potere d’intervenire per vietare lo svolgimento delle iniziative che reputi in contrasto con quella che egli ritiene essere, in un dato momento, l’utilità del gruppo. Diciamo al legislatore, perché, sebbene la norma costituzionale non contenga un’espressa riserva di legge, il concetto stesso dell’utilità sociale postula una definizione univoca (anche se mutevole nel tempo) di essa, che non può essere formulata se non da chi esprime la volontà collettiva»[8].
Una simile ricostruzione, tuttavia, mostra evidenti limiti proprio in ragione della problematica ed incerta interpretazione giuridica del concetto di “utile” e della sua «irriducibile poliedricità»[9].
Più robusto sembra, invece, l’argomento della temporaneità del divieto.
Come insegnano diverse esperienze giuridiche del passato[10], non è fatto nuovo che situazioni eccezionali e transitorie giustifichino lo scostamento (entro certi limiti) dal dettato costituzionale.
Un doveroso richiamo in tal senso – seppur antidiluviano – è a quegli interventi normativi che disposero il blocco dei licenziamenti nell’immediato secondo dopoguerra[11], allora giustificati dalla necessità di mantenere i livelli occupazionali in un contesto economico piuttosto drammatico[12].
L’argomento della temporaneità del divieto sembra tuttavia risentire dell’apparente cessazione di quello stato di “eccezionalità” che, almeno inizialmente, poteva in effetti giustificarne l’adozione.
Si è già detto, infatti, che con l’entrata in vigore del c.d. “decreto rilancio” (d.l. n. 34/2020) il termine di cui all’art. 46 è stato prorogato ed è attualmente pari a cinque mesi.
In disparte le incerte conseguenze giuridiche che scaturiscono dal “vuoto” di tutela venutosi a creare tra lo spirare del primo periodo (16 maggio 2020) e l’esecutività della proroga (20 maggio 2020)[13], ciò che preme evidenziare è l’apparente precarietà dei presupposti “fattuali” che legittimano una operazione normativa di questo tipo.
Se, in una prima fase emergenziale segnata dal blocco (quasi) totale delle attività produttive, poteva sicuramente apprezzarsi la scelta del Governo di salvaguardare i livelli occupazionali a fronte di probabili fenomeni di licenziamento “di massa”[14], una scelta di questo tipo appare però meno aderente alle finalità proprie di una successiva fase, pubblicizzata come quella del rilancio economico, in cui viene generalmente permesso – adottate le opportune precauzioni[15] – esercitare attività d’impresa.
Il che, rappresenta inevitabilmente un confine tra l’emergenza “assoluta” e l’emergenza “relativa”.
Ai superiori rilievi fa eco, la questione del peso economico che l’impresa sarebbe costretta a sopportare per mantenere i rapporti lavorativi “salvati” dal blocco.
A questo proposito, non può sottacersi che l’azione di Governo sia stata sin da subito orientata nel senso di traslare, sulle casse erariali, le conseguenze economiche della crisi, agevolando alle imprese l’accesso agli ammortizzatori sociali (Cigo, Cigd)[16], ampliandone la platea dei beneficiari[17].
Il disegno del Legislatore è stato dunque abbastanza chiaro: prevedere una “valvola di sfogo”, facendo coincidere – pressoché totalmente – il periodo di vigenza del blocco (60 giorni) ed il periodo potenzialmente “coperto” dagli ammortizzatori sociali (9 settimane: ergo 63 giorni)[18].
In questo senso, infatti, va letto il comma 1-bis dell’art. 46 – recentemente introdotto dalla lettera b) del prima comma dell’art. 80 del “decreto rilancio” (34/2020) – secondo cui «Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro».
L’iniziale armonia del sistema è però venuta a mancare quando i suddetti periodi sono stati prorogati, in misura sensibilmente diversa tra loro.
Ed infatti, per effetto del “decreto rilancio”, l’arco temporale di efficacia del blocco è stato esteso a cinque mesi, mentre l’accesso agevolato agli ammortizzatori sociali è stato invece prolungato di ulteriori cinque settimane, usufruibili fino al 31 agosto 2020, per quelle aziende che abbiano interamente usufruito delle iniziali nove settimane previste[19].
La durata delle misure assistenziali è stata dunque portata, complessivamente, a 14 settimane (pari a circa tre mesi e mezzo), di talché, si registra una evidente discrasia temporale tra le due misure.
La mancanza di un contrappeso di natura economica, produce inevitabilmente un notevole sbilanciamento che, in ultima analisi, potrebbe tradursi in una ingiustificata (o quantomeno eccessiva) compressione della libertà d’impresa.
A questo dato, di per sé sintomatico dell’ingerenza dei pubblici poteri nell’attività imprenditoriale, si aggiungono le ulteriori condivisibili considerazioni in tema di violazione del divieto.
È stato fatto notare[20], infatti, come il Legislatore non si sia preoccupato di inserire nell’ art. 46 una specifica norma sulle conseguenze sanzionatorie per il mancato rispetto dei blocco.
Lacuna che non è di poco conto, se si considera l’oggettiva difficoltà nell’applicare le regole generali in materia di accertamento giudiziale della legittimità del licenziamento per g.m.o., che implica una verifica dei seguenti presupposti (come anche elaborati a più riprese dalla giurisprudenza[21]): i) il venir meno della posizione lavorativa per effetto della soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui il dipendente era stato addetto; ii) il nesso causale tra la soppressione del posto e le scelte datoriali dirette a incidere sulla struttura e sulla organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi nei suoi aspetti tecnico-organizzativi; iii) l’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore all’interno dell’impresa ristrutturata o rimodulata.
Una siffatta indagine, invero, sarebbe del tutto superflua nell’ipotesi di violazione dell’articolo 46, considerato che il licenziamento è (sic et simpliciter) vietato, prescindendosi dunque – qui la peculiarità – da qualsiasi indagine sulla sussistenza di tali presupposti.
Da ciò, il necessario ricorso ai principi generali in materia contrattuale e la possibile applicazione dell’art. 1418 c.c., qualificando la previsione contenuta nell’art. 46 come un’ipotesi di nullità del licenziamento, con il conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro[22] (in netta antitesi con la tutela generalmente applicabile, in cui è invece precluso il ripristino del rapporto lavorativo cessato[23]).
La tutela “rafforzata” di cui potrebbe beneficiare il lavoratore illegittimamente licenziato – ordinariamente correlata alla salvaguardia di interessi generali di rango primario – è quindi indicativa del “peso specifico” che riveste il blocco nel disegno del Legislatore.
Peso che, come visto, non è di poco conto, considerando il rischio delle pretese economiche connesse alle retribuzioni mancate, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali[24].
3. Il licenziamento per g.m.o. tra libertà di iniziativa economica e tutela dell’occupazione
Le incertezze sull’art. 46 sono anche alimentate da alcune riflessioni sull’istituto del licenziamento per g.m.o. che, ove legittimo, realizza “ex se” un’attenta ponderazione degli opposti interessi in gioco.
Come è noto, l’obbligatorietà della giustificazione dello scioglimento negoziale, introdotta con la legge 15 luglio 1966, n. 604 come condizione di validità dello stesso[25], pone un divieto per il legislatore di introdurre (rectius ripristinare) un generale regime di libera recedibilità[26] nei rapporti di lavoro.
Tra le ipotesi “giustificate” rientra anche la cessazione del rapporto lavorativo dettata da ragioni inerenti «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»: fattispecie che integra, giustappunto, il licenziamento per g.m.o.[27]
Sebbene tale espressione descrittiva configuri – secondo la tesi maggioritaria[28] – una norma “a fattispecie aperta” o “generale”, la giurisprudenza solo recentemente è approdata alla soluzione interpretativa secondo la quale, tra le ragioni ivi indicate, rientrerebbero anche le “mere” decisioni organizzative dettate dal conseguimento di un maggior profitto[29], dovendosi invece escludere la necessaria ricorrenza di situazioni di crisi aziendale.
Un’interpretazione di tal specie, si è detto, non assimilerebbe il licenziamento al recesso “ad nutum”, in quanto la decisione imprenditoriale resterebbe comunque motivata da ragioni organizzative che sarà necessario attuare in concreto, con la conseguenza che, ove il licenziamento «sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso risulta ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore»[30].
Dalle superiori considerazioni, dunque, ben può comprendersi come l’art. 3 della legge n. 604/66 – nel prescrivere da un lato la necessaria giustificazione del licenziamento e, dall’altro lato, nel ritenere “a priori” che tale presupposto sia integrato dal (legittimo) esercizio del potere datoriale di organizzazione – realizzi un adeguato bilanciamento tra le opposte esigenze (rectius tra opposti principi costituzionali) della conservazione del rapporto di lavoro (art. 4 Cost.) e della libertà d’impresa (art. 41 Cost.).
Devono leggersi in tal senso, infatti, i limiti dell’accertamento giudiziale di legittimità del licenziamento per g.m.o., in cui si esclude un sindacato “di merito” su congruità ed opportunità della scelta espulsiva[31].
Se, dunque, il Legislatore si era già preoccupato di ponderare gli interessi in gioco, sorge spontaneamente la domanda sulla compatibilità, nell’attuale assetto normativo, di un divieto assoluto di licenziamento, come tale, insensibile all’accertamento di tali ragioni organizzative.
4. Considerazioni conclusive
S’impongono, infine, alcune considerazioni di carattere generale.
L’emergenza epidemiologica ha evidentemente colto di sorpresa il mondo economico: è questa la chiave di lettura del tentativo di salvaguardare i livelli occupazionali con un’azione, il blocco, sicuramente pregevole nei fini.
Con il passaggio alla fase della auspicabile ripresa economica (in tesi oggetto di maggiore riflessione) pare, tuttavia, che si sia perso il senso della misura, poiché le imprese si ritrovano in un certo qual modo “intrappolate” in una rete normativa che, con molti dubbi, non pare offrire adeguate misure di sostegno sul versante della gestione dei rapporti di lavoro.
Occorre infatti considerare che, per poter operare, la maggior parte delle aziende necessiti di consistenti modifiche organizzative che, ove fosse stato possibile, avrebbero probabilmente dato luogo anche ad importanti riduzioni di personale.
E tuttavia, costringere le imprese a mantenere i rapporti lavorativi in essere senza prevedere idonee misure che annullino gli effetti (soprattutto economici) di tale limitazione, non pare in linea con il delineato quadro costituzionale.
Un buon compromesso si ravvisa invece nella previsione di cui al citato comma 1-bis dell’art. 46 che, lasciando alle imprese la valutazione sulla conferma del licenziamento o sulla sua revoca, con contestuale obbligatoria richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale, pare offrire una adeguata alternativa “a costo zero”.
In definitiva, poi, il temporaneo impedimento a cui sono sottoposte le imprese non muta i termini della questione: laddove le aziende, trascorso il periodo di efficacia del blocco, riterranno un soprannumero di risorse umane, si procederà inevitabilmente alla cessazione dei rapporti.
L’intervento, dunque, si riduce ad una mera aspettativa occupazionale che, per il vero, rischia di risolversi più in un “palliativo” che in una “cura”.
[1] Cfr. D. GAROFALO, Formazione e lavoro tra diritto e contratto – L’occupabilità, Cacucci, Bari, 2004, 46.
[2] Cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 3/1957; 56/1958; 15/1960
[3] Si pensi alle previsioni contenute negli artt. 54, comma 3, lett. b), d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151; 35, comma 5, lett. b), d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198; 24, comma 2, legge n. 223/1991.
[4] La garanzia assoluta della continuità del rapporto di lavoro non è infatti compatibile con il “mantenimento dell’impresa sul mercato” (M. NAPOLI, Elogio della stabilità, in Quad. dir. lav. e rel. ind., n. 26, 2002, 10; cfr. anche G. PERA, La rilevanza dell’interesse dell’impresa nella motivazione dei licenziamenti collettivi, in Scritti di Giuseppe Pera – I – Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2007, 363).
[5] Cfr. Corte cost. 30 dicembre 1958, n. 78 che, chiamata pronunciarsi sull’imponibile di manodopera di cui al d.lgs. C.p.S. 16 settembre 1947, n. 929 – che consentiva ai prefetti di imporre con decreto ai conduttori di aziende agrarie o boschive un carico obbligatorio di giornate lavorative – ne ha dichiarato l’incompatibilità con l’art. 41, comma 1, Cost., poiché «il decreto viene a gravemente interferire e incidere sulla personale iniziativa dell’operatore agricolo; la libera valutazione e conseguente autodeterminazione in ordine a quelli che, a suo giudizio, possono essere gli adeguati elementi per dimensionare l’azienda e provvedere alla sua interna organizzazione sono notevolmente turbate o sostituite da immissione, nel complesso equilibrio dell’azienda, di elementi non richiesti, spesso non ritenuti idonei». Di avviso contrario M. D’ANTONA, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in ID., Lavoro, diritti, democrazia – In difesa della Costituzione, Ediesse, Roma, 2010, 115.
[6] Cfr. G.F. MANCINI, Commento sub art. 4, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1975, 199 ss.
[7] Sentenza 9 giugno 1965, n. 45. Cfr. anche le sentenze n. 3 del 1957, n. 30 del 1958, n. 2 del 1960, n. 105 del 1963, e l’ordinanza n. 3 del 1961.
[8] M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Giuffrè, Milano, 1956, 153 ss. Tuttavia, lo stesso autore (cfr. F. MAZZIOTTI, Contenuto ed effetti del contratto di lavoro, Jovene, Napoli, 1974, 24-25) ha anche distinto, nell’ambito del comma 2, tra valori assoluti invalicabili dalla libertà d’impresa (la libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori) e l’utilità sociale, quale limite relativo da contemperare invece con detta libertà. Secondo M.V. BALLESTRERO, I licenziamenti, Franco Angeli, Milano, 1975, 373, «per leggere in corretta chiave costituzionale l’art. 3 legge n. 604, occorre anzitutto negare l’esistenza di un «campo trincerato» di libertà assoluta o, se si vuole, di arbitrio dell’imprenditore; occorre cioè ricordare che, al di là delle molte polemiche sul significato del 2° comma dell’art. 41 cost. un’interpretazione ormai consolidata attribuisce all’utilità sociale la preminenza nella scala dei valori espressi da quella norma».
[9] Cfr. A. Baldassarre, voce Iniziativa economica privata, in Enc. Dir., voI. XII, Milano, 1971, pp. 582-609
[10] Si pensi, ad esempio, ai «caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità» che consentirono alla Corte costituzionale, nella sentenza n. 106/1962, di dichiarare insussistente la pretesa violazione del precetto costituzionale (art. 39 Cost.) in relazione alla c.d. Legge Vigorelli (n. 741/1959), ma non la successiva legge di proroga (l. 1027/1960).
[11] Il d.lgs. lgt. 21 agosto 1945, n. 523, “Provvedimenti a favore dei lavoratori dell’Alta Italia”, il d.lgs. lgt. 9 novembre 1945, n. 788, “Istituzione della Cassa per l’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria e disposizioni transitorie a favore dei lavoratori dell’industria dell’Alta Italia” e il d.lgs. lgt. 8 febbraio 1946, n. 50, “Disposizioni per i lavoratori dell’industria dell’Alta Italia”.
[12] Trattasi, tuttavia, di disposizioni normative sorte in epoca addirittura antecedente all’entrata in vigore della Costituzione e, pertanto, di dubbia valenza in chiave comparativa. Anzi, a ben vedere, la previsione di un blocco al licenziamento appare sicuramente in linea con un sistema normativo in cui vigeva la regola – rinvenibile nella disciplina dettata dal codice civile (artt. 2118 e 2119 c.c.) – della “a-causalità” del recesso dal rapporto di lavoro.
[13] L’unica previsione al riguardo pare essere la semplice “sospensione” delle procedure ex art. 7 l. n. 604/66 in corso (cfr. art. 80 comma 1 lett. a d.l. 34/2020), mentre per i datori di lavoro esclusi dall’ambito di applicazione della procedura (sotto i quindici dipendenti), dovrebbero invece confermarsi gli effetti dei licenziamenti eventualmente nelle more disposti.
[14] Ove non collettivi, sarebbe meglio dire plurimi.
[15] Cfr., da ultimo, art. 1 commi 14 e 15 decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33; d.P.C.M. 17 maggio 2020 e Protocolli condivisi ivi allegati.
[16] Cfr. artt. 19 e ss. del d.l. 18/2020.
[17] Sono rimasti esclusi i lavoratori domestici (art. 22 comma 2 d.l. 28/2020).
[18] Questo, ovviamente, l’intento programmatico: sappiamo bene come la storia sia andata diversamente a causa dei numerosi ritardi nell’erogazione delle prestazioni assistenziali: paradossalmente, infatti, la salvezza del rapporto lavorativo non è stata accompagnata dalla tempestiva percezione del connesso trattamento economico.
[19] Cfr. artt. 68 e ss. d.l. 34/2020. Un ulteriore periodo di quattro settimane, al di là dell’operatività del blocco, è riconosciuto per i periodi decorrenti tra il 1° settembre ed il 31 ottobre 2020.
[20] M. VERZARO, “Il divieto di licenziamento nel decreto “cura italia”, in “Giustiziacivile.com”, 5/2020.
[21] Cfr. ex multis Cassazione civile, sez. lav., 14 febbraio 2020, n. 3819.
[22] Dovendo trovare applicazione, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, la tutela di cui all’art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970 e, per i lavoratori assunti successivamente a tale data, la tutela di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015.
[23] Salve le ipotesi eccezionali in cui sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base ovvero di non ricorrenza degli estremi del licenziamento, cioè l’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 e l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. Cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 maggio 2018, n. 10435: «Il concetto di ‘manifesta insussistenza’ dimostra che il legislatore ha voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria; non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5, deve cimentarsi, esso va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità».
[24] Cfr. art. 18 comma 1 legge n. 300/1970 ed art. 2 comma 2 D.lgs. n. 23/2015.
[25] Limiti costituzionali sono rinvenibili all’art. 41 commi 1 e 2 ed all’art. 4 comma 1 Cost., oltre che, per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., in disposizioni di diritto sovranazionale, come l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’art. 24 della Carta sociale europea; l’art. 4 della Convenzione O.I.L. sui licenziamenti.
[26] Cfr. M.V. BALLESTRERO, La stabilità nel diritto vivente – Saggi su licenziamenti e dintorni (2007-2009), Giappichelli, Torino, 2009, 10.
[27] Art. 3 legge n. 604/1966.
[28] V., ad esempio, S. BELLOMO, Autonomia collettiva e clausole generali, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 2015, 72-73; M.T. CARINCI, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, in F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Cedam, Padova, 2005, 104.
[29] Cassazione civile, sez. lavoro, 7 dicembre 2016, n. 25201. V. anche Cassazione civile, sez. lavoro, 15 febbraio 2017, n. 4015.
[30] Cass. n. 25201/2016 cit.
[31] Lettura confermata anche dalla previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 30 della legge n. 183/2010 e ss.mm.ii., secondo cui: «In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente. L’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto».
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Attualmente svolge la libera professione di Avvocato in Palermo, occupandosi di tematiche afferenti il diritto del lavoro, il diritto sindacale e delle relazioni industriali, nonché il diritto della sicurezza sociale.Ha maturato esperienza anche nel settore del diritto amministrativo, soprattutto in materia di pubblico impiego, concorsi pubblici e rapporti di lavoro pubblico (forze armate, docenti universitari).