Il divieto di tortura nel panorama internazionale
Sommario: Premessa – 1. La dichiarazione Americana dei diritti e dei doveri dell’uomo dell’organizzazione degli Stati Americani del 1948 – 2. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 – 3. Le convenzioni di Ginevra del 1949 – 4. Il Patto Internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 – 5. La Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o ad altri trattamenti umani degradanti del 1975 – 6. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti umani degradanti del 1984 – 7. Il Protocollo Istanbul del 1999 – 8. Il divieto di tortura nel trattamento delle persone in vinculis – 9. Altri Documenti – 10. Alcuni casi pratici
Premessa
Nel corso del XX secolo, la tutela dei diritti umani è diventata -sotto il profilo normativo – uno dei tratti distintivi del sistema internazionale. Ciò rappresenta una specie di “reazione morale della società internazionale organizzata e della coscienza collettiva dell’umanità” dinnanzi alle atrocità. Così, la comunità internazionale ha creato il cd. “Diritto internazionale dei diritti” (definito generalmente International Human Rights Law), costituito da regole che consacrano i diritti fondamentali all’interno del contesto internazionale[1].
All’interno di questo gruppo di norme giuridiche, ve ne sono alcune che pongono il divieto di tortura: tale divieto è posto a tutela del diritto all’integrità fisica e psichica, della dignità umana, nonché del più generale diritto di non essere assoggettati a torture.
Il presente elaborato, dunque, si propone di analizzare le principali fonti internazionali che pongono il divieto di tortura, sotto un profilo storico e giuridico.
1. La dichiarazione Americana dei diritti e dei doveri dell’uomo dell’organizzazione degli Stati Americani del 1948
Il primo strumento internazionale, successivo alla seconda guerra mondiale e rilevante in materia di tortura, è stata la Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo.
Tra il 30 marzo e il 2 maggio del 1948 si tenne la IX Conferenza Internazionale dell’Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A) [2] a Bogotà, durante la quale si procedette all’adozione della Dichiarazione suddetta.
La dichiarazione deve la sua importanza al fatto che sancisce un elenco di diritti umani e mette in evidenza la necessità di tutelarli. In realtà, inizialmente essa era concepita come uno strumento di soft law, cioè con un valore declaratorio e non espressamente vincolante. Essa era uno strumento che doveva fungere da linea guida per lo sviluppo dell’O.S.A., coerentemente con i suoi principi fondanti, tra cui il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità o sesso.
Nel corso del tempo, però, il sistema interamericano si è dotato di strumenti più forti e incisivi[3] con cui tutelare i diritti umani. Così, la Corte Americana e l’Assemblea dell’O.S.A. ne hanno riconosciuto il valore vincolante per tutti gli Stati membri. Difatti, oggi, la Dichiarazione è fonte di obblighi internazionali[4].
Per quanto riguarda il suo contenuto, in un primo tempo, affinché la Dichiarazione potesse ottenere il consenso degli Stati membri, essa fu concepita come una forma iniziale di protezione dei diritti fondamentali, legata alle condizioni sociali e giuridiche dell’epoca, senza, però, escludere che tale sistema si sarebbe potuto rafforzare in seguito[5].
Ed infatti, nel 1989, la Corte Interamericana aveva affermato che la Dichiarazione poteva assumere anche una funzione integrativa: essa poteva integrare e definire i diritti umani a cui la Carta O.S.A. faceva espresso riferimento in termini generali[6].
In realtà, in questo testo non vi è un espresso riferimento alla tortura; il divieto, tuttavia, si evinceva dal combinato disposto di due disposizioni [7].
In particolare, veniva in rilievo l’art. 1 della Dichiarazione, a tutela del diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, che sanciva: “Every human being has the right to life, liberty, and the secutiry of his person”[8].
L’art. 5, invece, sanciva che: “Every person has the right to the protection of the law against abusive attacks upon his honor, his reputation, and his private and family life”[9].
Da queste due disposizioni si evinceva chiaramente la tutela del diritto alla libertà, alla sicurezza, all’integrità fisica, mentale e morale dell’uomo.
Di conseguenza, veniva implicitamente sancito il diritto a non subire torture o qualsiasi altro trattamento inumano e degradante: la tortura veniva intesa come un attacco abusivo alla integrità fisica o psichica dell’individuo.
Si tratta di una tutela indiretta, ad uno stato ancora embrionale, ma che risultava un importante punto di partenza importante nello scenario internazionale.
2. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948
La Dichiarazione Universale è stata adottata dall’Assemblea Generale delle nazioni Unite il 10 dicembre 1948 con la Risoluzione n. 271/3[10].
Come osservato in dottrina, pur non essendo formalmente vincolante per gli Stati membri, in quanto Dichiarazione di principi, questo documento ha assunto un’importanza storica fondamentale.
Difatti, esso rappresenta il primo atto solenne che recava un espresso divieto della tortura e rappresentava la volontà della comunità internazionale a riconoscere universalmente i diritti che spettano a ciascun essere umano[11].
Allo stato attuale, ė pacifica l’idea secondo cui, dal punto di vista sostanziale, le norme della Dichiarazione suddetta costituiscono principi generali dell’ordinamento internazionale e, come tali, sono vincolanti per tutti i soggetti di questo ordinamento giuridico.
A questo proposito è stato osservato che la Dichiarazione aveva un valore reale intrinseco, perché essa indicava in maniera precisa quali sono i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, il cui rispetto deve essere incoraggiato, secondo l’impegno che hanno preso gli Stati membri firmando lo statuto O.N.U.
Difatti, sebbene tale Dichiarazione non imponeva obblighi giuridici agli Stati membri, non si può dimenticare che questi ultimi, firmando lo Statuto ON.U., avevano voluto conformarsi in buona fede ai principi ivi enunciati, tra i quali figurano l’incoraggiamento e lo sviluppo dei diritti dell’uomo [12].
A differenza dei testi precedenti, la Dichiarazione Universale si occupava espressamente del divieto di tortura, a cui dedicava l’art. 5, secondo cui “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani e degradanti. Non sono ammesse deroghe al divieto, neppure nel contesto di stato di necessità”[13].
Appare opportuno sottolineare che si tratta di un divieto espresso in termini assoluti, ossia non ammette alcuna deroga da parte degli Stati, nemmeno qualora si presenti una situazione di “necessità”.. Proprio l’assenza di una definizione di “necessità”, impedirebbe tra l’altro di derogare al principio generale del divieto di tortura[14].
La dottrina ha messo in evidenza anche un’altra peculiarità del divieto in questione: si trattava di un divieto generale, che non andava incontro a nessuna eccezione di carattere soggettiva.
Difatti, per la prima volta il divieto di tortura era stato esteso a tutti gli individui senza alcuna distinzione di età, di sesso, di convinzione religiosa, di situazione sociale[15].
Si tratta di una disposizione così importante che essa, in seguito, è divenuta il principale modello di riferimento per le successive elaborazioni in materia di tortura[16].
In proposito, occorre ricordare anche il Patto internazionale sui diritti politici e civili del 1966; la Convenzione contro la Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, adottata nel 1984 e la Convenzione Europea del 1989[17].
3. Le convenzioni di Ginevra del 1949
Il divieto di tortura è contemplato espressamente anche dal diritto umanitario[18]. Per “Diritto Umanitario” si intende una “branca del diritto internazionale che si applica nel caso in cui ci sia un conflitto armato, che si basa su due principi fondamentali: la salvaguardia dei non belligeranti e il divieto di causare sofferenze inutili” [19].
Tra le più importanti fonti del diritto umanitario vi sono le quattro Convenzioni di Ginevra[20], adottate nell’agosto del 1949.
All’interno di questo contesto, il divieto di tortura è stato più volte esplicitamente.
In primis, se ne occupa l’art. 3 comune[21] alle quattro convenzioni che sancisce: “Sono e rimangono vietate […], le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi […][22] riferendosi, così, a tutti quei soggetti che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi; le persone messe fuori combattimento dalla malattia, dalle ferite, dalla detenzione o da qualsiasi altra causa. L’art. 3 specifica che devono essere trattate in ogni circostanza con umanità, senza alcuna distinzione basata sul sesso, sulla razza, la religione, il censo, etc.[23].
Inizialmente, questa disposizione aveva un ambito di applicazione piuttosto limitato, in quanto trovava attuazione solo in caso di conflitto armato che non presentasse carattere internazionale e che riguardasse il territorio di una delle parti contraenti. Pertanto, si trattava di una disposizione che tutelava i diritti umani al di sotto dello standard di protezione offerto dalle norme internazionali e, in particolare, dalla Dichiarazione Universale del 1948[24].
Questa iniziale disciplina, in seguito, è stata integrata e completata con il II Protocollo Aggiuntivo, del 1977, che rappresentava un notevole passo in avanti.
Tale documento, infatti, trovava applicazione nei casi in cui il conflitto armato abbia avuto luogo all’interno dello Stato, fra le stesse forze armate del Governo e le forze armate ribelli. Questa soluzione, così, garantiva una piena tutela ai diritti umani[25].
Occorre ricordare, inoltre, che il divieto di tortura è stato espressamente sancito anche dall’Art. 12 della II Convenzione del 1949[26], secondo cui: “E’ rigorosamente proibita qualunque violenza contro la vita e la persona; in particolare, è rigorosamente proibito di ucciderli, o di sterminarli, di sottoporli a tortura, di compiere su di essi esperimenti biologici, di lasciarli premeditatamente senza assistenza medica o senza cure, o di esporli a rischi di contagio o di infezione creati a questo scopo”.[27]
A questo proposito, parte della dottrina faceva notare che ancora non esisteva una nozione ben definita di tortura, tanto che essa veniva accostata e posta sullo stesso piano di altre gravi violazioni, perpetrate a danno dell’integrità fisica e psichica della persona[28].
Si tratterebbe di una mancanza grave, soprattutto in un contesto come quello delle Convenzioni di Ginevra, dove si pretendeva di tutelare i diritti umani senza, però, aver ben chiaro i comportamenti che potevano dare luogo ad una violazione degli stessi diritti. Proprio per tale ragione, sono stati elaborati lunghi elenchi di comportamenti considerati vietati[29].
La III Convenzione di Ginevra si occupava della tortura nell’art. 17: “Nessuna tortura fisica o morale né coercizione alcuna potrà essere esercitata sui prigionieri di guerra per ottenere da essi informazioni di qualsiasi natura. I prigionieri che rifiuteranno di rispondere non potranno essere né minacciati, né insultati, né esposti ad angherie od a svantaggi di qualsiasi natura”[30] mentre nella IV Convenzione fondamentale è l’art. 32 che sancisce: “Le Alte Parti contraenti considerano esplicitamente come proibita qualsiasi misura atta a cagionare sia sofferenze fisiche, sia lo sterminio delle persone protette in loro potere. Questo divieto concerne non solo l’assassinio, la tortura, le pene corporali, le mutilazioni e gli esperimenti medici o scientifici non richiesti dalla cura medica di una persona protetta, ma anche qualsiasi altra brutalità, sia essa compiuta da agenti civili o da agenti militari.”[31]
Le Convenzioni di Ginevra si preoccupavano, dunque, del fenomeno della tortura, vietandola in tutte le sue manifestazioni e anche in riferimento a situazioni di emergenza bellica, proprio a dimostrare il carattere assoluto del divieto. Tale carattere sarebbe, comunque, già insito nella specifica regolamentazione contenuta nella Dichiarazione Universale del 1948.
Parte della dottrina ha osservato che, tra l’altro, il rispetto del diritto umanitario, in particolare delle Convenzioni di Ginevra del 1949, è stato garantito anche da misure preventive e dai controlli operati dalla Croce Rossa Internazionale[32].
L’applicabilità delle norme contenute nelle suddette Convenzioni, tuttavia, ha comportato un problema di coordinamento con le norme di diritto internazionale, soprattutto pattizio.
Tale problema era dovuto al fatto che alcuni diritti appartenevano esclusivamente alla sfera dei diritti umani o a quella del diritto internazionale, mentre altri (come il diritto a non essere assoggettato a tortura) ricevevano tutela in entrambi i sistemai normativi[33].
Sul punto, alcuni autori hanno affermato che occorrerebbe fare riferimento al criterio di specialità, in modo da operare un coordinamento tra i due sistemi normativi. In base a questo criterio il diritto umanitario prevarrebbe in quanto diritto speciale[34].
Giacché le norme internazionali tutelano gli individui sia in tempo di pace sia di guerra, le norme di diritto umanitario, e in particolare quelle delle Convenzioni di Ginevra, si applicherebbero solo nei confronti delle ‘persone protette’ e solo in occasione di un conflitto armato. È stato, infatti, osservato che “il diritto internazionale umanitario ha uno scopo limitato: proteggere l’essere umano nel corso del conflitto armato” [35].
Questo avrebbe dovuto garantire il pieno rispetto dei diritti umani ma, in realtà, nonostante le quattro Convenzioni siano state largamente ratificate, sono tutt’ora persistenti, durante le guerre, violenze a danni di civili o di persone comunque estranee ai combattimenti. La ragione di ciò, non dipenderebbe da una debolezza del sistema convenzionale ma più che altro dal rispetto della Domestic Jurisdiction e dall’incidenza di questioni di opportunità nei rapporti tra Stati[36].
4. Il Patto Internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966
Tale documento costituisce non solo il primo trattato internazionale concluso in seno alle Nazioni Unite ma anche il primo patto che contiene un esplicito divieto di tortura nell’ambito del diritto internazionale[37].
Firmato a New York nel 1966, esso rappresenta un grande passo in avanti nella tutela dei diritti fondamentali dell’individuo: il Patto si differenzia dalla Dichiarazione Universale, di cui costituisce tra l’altro un’evoluzione, proprio in virtù del suo carattere vincolante[38].
Secondo parte della dottrina, tale vincolatività derivava anche dai meccanismi di controllo per la tutela dei diritti sanciti nel Patto. Difatti, gli Stati che hanno ratificato il Patto hanno assunto l’impegno a presentare periodicamente dei rapporti circa le misure adottate e sui progressi registrati nella promozione dei diritti. Inoltre, è stato istituito un apposito organo con il compito di vigilare sul rispetto del Patto, cioè il Comitato dei diritti dell’uomo, che poteva anche proporre l’adozione di misure internazionali volte ad attuarlo in modo efficace[39].
Il Patto[40] prevedeva esplicitamente il divieto di tortura, sancito all’art. 7: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”[41].
Come osservato in dottrina, non si aveva una definizione di tortura. L’art. 7, infatti, conteneva una norma piuttosto generica, che sembrava quasi rispecchiare quella delle prime Dichiarazioni del 1948. Tuttavia, vi era una novità: si faceva riferimento agli esperimenti medici o scientifici, realizzati senza il consenso dell’individuo sottoposto a tali trattamenti.
Quello della sottoposizione forzata a trattamenti biologici era un fenomeno molto diffuso durante la seconda guerra mondiale e che, sinora, era stato preso in considerazione solo dal diritto umanitario con le Convenzioni di Ginevra.
Il Patto estendeva, dunque, l’ambito della tutela dell’uomo, vietando anche tali comportamenti che, ancora, suscitavano terrore e ribrezzo nella mentalità e nell’immaginario comune[42].
Poiché il testo dell’art. 7 conteneva una norma generale, il divieto non poteva che essere assoluto e pertanto non era suscettibile di limitazioni, nemmeno in condizioni di estrema urgenza[43].
A differenza della Dichiarazione, che rappresentava uno strumento di soft law, il Patto, vincolando gli Stati, sanciva per la prima volta nell’ambito del diritto internazionale un divieto non solo assoluto ma anche inderogabile[44].
5. La Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o ad altri trattamenti umani degradanti del 1975
Negli anni ’70 riemergeva con forza, nella comunità internazionale, la necessità di procedere ad un’ulteriore opera di codificazione nell’ambito dei diritti umani[45].
A differenza che in passato, tuttavia, si era cercato in questo nuovo contesto di predisporre degli strumenti normativi settoriali, cioè che riguardassero singole ipotesi di violazioni: la settorializzazione della tutela dei diritti umani avrebbe permesso di garantire una tutela più rigorosa ed effettiva.
L’Assemblea Generale, così, ha dedicato grande attenzione anche al divieto di tortura.
In effetti, già nel contesto del diritto internazionale esistevano delle disposizioni pattizie che vietavano la tortura e, spesso, queste disposizioni erano state considerate principi generali che non potevano essere derogati nemmeno in casi di eccezionale urgenza[46].
Solo nel 1975, comunque, è stata emanata la prima Dichiarazione che si era occupata unicamente di vietare la tortura. Tale dichiarazione ha costituito il primo strumento ad hoc nel panorama internazionale.
L’importanza di questo documento era dovuta alla presenza della prima definizione di tortura. Punto di riferimento normativo era l’art. 1 della Dichiarazione[47] suddetta, il quale definiva tortura “ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, fisiche o mentali, vengono deliberatamente inflitte ad una persona da agenti dell’amministrazione pubblica o su loro istigazione, principalmente allo scopo di ottenere da questa persona o da un terzo delle informazioni o delle confessioni, o di punirla per un atto che essa ha commesso o che è sospettata di aver commesso, o di intimidirla o di intimidire altre persone. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a queste sanzioni o da esse cagionate, in una misura compatibile con le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti. La tortura costituisce una forma aggravata e deliberate di pene o di trattamenti crudeli, inumani e degradanti”[48].
Tale disposizione faceva riferimento alle “Regole minime standard per il trattamento dei detenuti”: si trattava di un complesso di regole che era stato adottato dal I Congresso delle Nazioni Unite, tenutosi a Ginevra nel 1955 in tema di prevenzione del crimine e di trattamento dei delinquenti, poi successivamente approvato dal Consiglio Economico Sociale.
Attraverso il richiamo a queste regole minime, si tentava di fissare la differenza tra il mero maltrattamento e la tortura[49].
Secondo parte della dottrina, questa definizione di tortura si caratterizzava per la presenza di tre elementi: un trattamento inumano; l’inflizione intenzionale; il raggiungimento di scopi prefissati.
Nondimeno, essa aveva suscitato un certo disaccordo.
Difatti, parte della dottrina aveva ritenuto infelice non tanto la prima parte della disposizione quanto il secondo paragrafo dello stesso articolo. Ciò poiché appariva difficile, per gli Stati, stabilire quanto grave avrebbe dovuto essere un trattamento inumano o un maltrattamento, affinché si potesse perfezionare la fattispecie di tortura.
Infatti, alcuni Stati come la Svizzera avevano proposto di interpretare il concetto di tortura in maniera estensiva, ricomprendendo anche tutti i trattamenti inumani e degradanti; altri Stati, come gli Stati Uniti, preferivano un approccio più restrittivo, ritenendo che dovevano essere considerati tortura solo quei trattamenti estremamente gravi.
Proprio a causa della difficoltà di trovare una soluzione, questo paragrafo non è stato riprodotto nella successiva Convenzione del 1984[50].
La Dichiarazione prevedeva, inoltre, la necessità di programmi di formazione per le forze di polizia; stabiliva che la tortura doveva essere introdotta nella legislazione penale di ogni Stato come illecito penale.
Prevedeva, inoltre, per le vittime, la possibilità di ottenere il risarcimento.
Tuttavia, alcuni degli strumenti predisposti si riferivano solo alla tortura e non agli altri trattamenti vietati. Pertanto, si era diffusa l’idea secondo cui vi erano due diversi livelli di protezione, senza però che vi fosse una netta distinzione tra i vari comportamenti oggetto della Dichiarazione[51].
Si trattava, in ogni modo, di strumenti attraverso cui si garantiva non solo una tutela formale ma anche sostanziale dei diritti dell’individui: sicuramente una tutela forte, nonostante il carattere non vincolante della Dichiarazione.
A questo proposito giova ricordare che, sebbene la Dichiarazione ha un valore giuridico non vincolante, il divieto di tortura in esso sancito veniva considerato come oggetto di una norma consuetudinaria avente carattere cogente[52].
6. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti umani degradanti del 1984[53]
Il pieno consenso ottenuto dagli Stati membri sul divieto di tortura aveva permesso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di elaborare nuove idee per contrastarne il fenomeno[54].
La sensibilità sul tema della tortura era cresciuta parecchio, cosa che aveva spinto sia la delegazione svedese sia l’Associazione internazionale di diritto privato a presentare all’Assembla generale due diverse proposte di convenzione, esaminate in seguito da un Gruppo di lavoro ad hoc.
Sulla base di queste proposte, il Gruppo di lavoro aveva elaborato un testo che, dopo un lungo negoziato, è stato approvato con la Risoluzione n. 39/46 del 10 dicembre del 1984 e aperto alla ratifica degli Stati.
A differenza della maggior parte dei trattati internazionali in materia di diritti umani elaborati dalle Nazioni Unite, questa Convenzione era aperta alla ratifica degli Stati: essa poteva essere ratificata e ad essa si poteva aderire a prescindere dall’appartenenza all’O.N.U., senza che fosse necessaria una previa o specifica autorizzazione o invito da parte dell’Assemblea Generale[55].
All’interno di questo contesto, di grande impronta era l’art. 1 della Convenzione, che conteneva la definizione di Tortura.
In particolare, si stabiliva che : “Il termine Tortura indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o fa pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.
Tale articolo non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata.”[56]
È stato osservato che si trattava di una definizione piuttosto rigida, che prendeva spunto dalla definizione contenuta nella Dichiarazione del 1975, ma che – al contempo – se ne distaccava, introducendo alcuni elementi innovativi.
Tali elementi dovevano essere tutti necessariamente presenti affinché si potesse parlare di tortura e si potesse far valere la responsabilità degli Stati.
Tale rigidità, tuttavia, ha prodotto fin da subito un duplice effetto: un effetto negativo, poiché riduceva la portata di alcuni organi istituiti proprio a tutela della Convenzione medesima; un effetto positivo, perché facilitava l’attuazione del suddetto documento da parte degli Stati contraenti[57].
Gli elementi caratterizzanti tale definizione possono essere individuati nei termini che seguono.
Nonostante la Convenzione parlasse di “atto”, le garanzie in essa prevista, si estendevano anche alle omissioni. Difatti, opinare diversamente significava permettere agli Stati di aggirare il divieto, limitando la portata della Convenzione. Si prendeva, cioè, atto che il non agire poteva infliggere la stessa sofferenza mentale e fisica prodotta da atti commissivi.
La Convenzione parlava, inoltre, di sofferenze “forti”. Non veniva specificata, comunque, l’intensità, ovvero non si diceva quanto gravi o acute dovevano essere le sofferenze subite, affinché si perfezionasse la fattispecie di tortura.
L’intensità doveva essere valutata caso per caso, facendo riferimento a diverse circostanze, come la durata del trattamento, gli effetti fisici o mentali prodotti, il sesso, l’età della vittima.
Non esisteva, in effetti, un criterio oggettivo che aiuti a stabilire la gravità delle sofferenze patite dalla vittima.
Proprio perché non esisteva (e tutt’oggi non esiste) un criterio oggettivo di valutazione delle sofferenze, parte della dottrina riteneva che non si poteva distinguere tra tortura e trattamenti inumani e questo per evitare che alcuni comportamenti potessero essere considerati meno condannabili di altri.
Per quanto riguarda la natura delle sofferenze, l’art. 1 si riferiva sia alle sofferenze fisiche che mentali. Tuttavia, non veniva specificato il concetto di “sofferenza mentale”. Dunque alla luce di ciò, sarebbe possibile ricomprendere anche la creazione di uno stato di stress, di angoscia, realizzato anche con mezzi non fisici. Al giorno d’oggi, la centralità delle sofferenze può essere messa in discussione in quanto si sono sviluppate tecniche, ad esempio psicologiche e chimiche, che limitano la capacità di accusare dolore.
Un altro elemento essenziale, era l’intenzionalità. L’art. 1, infatti, prendeva in esame e considerava tortura solo atti intensionalmente volti a cagionare sofferenze. Questa specificazione servirebbe a tutelare gli Stati dall’essere accusati di violare gli obblighi internazionali a causa della mera negligenza.
Per evitare, però, che la mera negligenza possa essere usata come escamotage per giustificare un comportamento lesivo dei diritti individuali, occorreva verificare caso per caso se l’intenzione degli agenti era realmente quello di infliggere sofferenze o meno.
A questo proposito, si faceva l’esempio dei detenuti: se i detenuti erano intenzionalmente privati dell’acqua e del cibo o altri servizi essenziali, tale comportamento comportava senza dubbio tortura.
Se mancava l’elemento dell’intenzione, lo Stato rimaneva pur sempre responsabile: in questo caso si configuravano trattamenti inumani e degradanti, che fuoriuscivano dall’ambito di applicazione della Convenzione suddetta per rientrare in quello delle Convenzioni di Ginevra del 1948.
Per quanto riguarda lo scopo, l’art.1 affermava che l’inflizione delle sofferenze doveva essere diretta a ottenere informazioni o confessioni, punire, o intimorire.
A questo proposito, la dottrina ricorda che il Gruppo di lavoro istituito per redigere il testo della Convenzione, inizialmente, era contrario a inserire un riferimento agli scopi della tortura, per timore che questa ipotetica lista venisse intesa come tassativa, escludendo dall’ambito di applicazione della Convenzione quelle torture che venivano commesse per scopi diversi da quelli indicati.
Per evitare una tale interpretazione restrittiva, è stato inserito il riferimento alla discriminazione come fonte di sofferenze forti e dolorose. Pertanto, la dottrina ritiene che tale elenco di condotte non fosse tassativa ed esaustiva.
Uno degli aspetti più controversi riguardava la figura dell’autore della tortura. L’art.1 infatti, richiamava solo gli “agenti della funzione pubblica o ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”. Non venivano citati i privati[58].
Sul punto, in forza di quella efficacia orizzontale dei trattati internazionali sui diritti umani e definita Drittwirkung, si riteneva che lo Stato sia obbligato ad assumere tutte le misure idonee per evitare che i comportamenti vietati siano posti in essere dai privati e sia obbligato a prevedere sanzioni adeguate nei confronti degli autori delle torture o di trattamenti inumani che ledano l’integrità psico – fisica dell’individuo[59].
La Convenzione, dunque, rappresentava un’evoluzione rispetto alla Dichiarazione del 1975. Quest’ultima, invero, faceva riferimento agli agenti dell’amministrazione pubblica o ai soggetti da loro istigati; la Convenzione si occupava delle violazioni commesse anche da altri soggetti che agivano a titolo ufficiale o con il consenso implicito o esplicito dell’agente pubblico.
E si tratterebbe di un’estensione di grandissima importanza, in quanto – in questo modo – si eviterebbe agli agenti statali di realizzare torture servendosi di altre persone oppure non interrompendo o non punendo le torture inflitte da altri[60].
L’ultima parte dell’art.1 della Convenzione escludeva da tale definizione tutti quegli atti attraverso cui si infliggeva sofferenza forte e dolorosa e che derivavano dall’applicazione delle sanzioni previste dalla legge. Tale norma aveva come scopo principale quello di tutelare gli Stati che non potevano essere sanzionati per il normale funzionamento del loro ordinamento giudiziario. Spesso, infatti, le sanzioni previste all’interno dei singoli Stati comportano un certo grado di sofferenza e umiliazione ma finché ciò non sia intenzionalmente aggravato, non si può parlare di una responsabilità dello Stato per violazione del divieto di tortura[61].
Eppure, questo riferimento alle sanzioni legittime risultava piuttosto vago.
Per questo motivo, durante la fase di elaborazione della Convenzione, si era proposto di fare riferimento alle Regole Minime dell’O.N.U. per il trattamento dei detenuti, ma questa proposta aveva trovato la ferma oppressione di alcuni Paesi, soprattutto di cultura islamica, che prevedevano nel loro sistema giuridico pene corporali e capitali, crudeli e inumane.
Gli Stati oppositori, inoltre, affermavano che richiamare queste regole significava riconoscere il loro carattere vincolante, carattere che tuttavia non avevano in quanto erano state emanate dall’Assemblea Generale sotto forma di raccomandazioni.
Sotto questo profilo, l’art.1 presentava, dunque, una certa ambiguità perché non sarebbe possibile risalire a regole di condotta comuni tra gli Stati: questo faceva sì che alcune sanzioni venivano considerate lecite in alcuni Stati, in altri illecite.
Tuttavia, è stato correttamente osservato che questa ambiguità poteva essere però risolta considerando l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei trattati, secondo cui “un Governo non può giustificare la violazione delle disposizioni di un trattato di cui è parte invocando il proprio ordinamento nazionale. Le leggi nazionali devono essere comunque conformi agli scopi che la Convenzione si prefigge contro la tortura e il divieto di tortura è universale e assoluto e qualsiasi riferimento a pratiche limitate a certi contesti territoriali o culturali è del tutto ingiustificato”[62].
La Convenzione contro la tortura, inoltre, prevedeva, oltre alla definizione di tortura anche alcuni obblighi per gli Stati[63].
Essi dovevano, innanzitutto, prendere gli adeguati provvedimenti amministrativi, legislativi e giudiziari, ed ogni altro provvedimento efficace, per impedire la commissione di atti di tortura all’interno dei propri territori.
Ne derivava l’inderogabilità del divieto di tortura: esso non poteva essere derogato nemmeno in presenza di una circostanza eccezionale e nemmeno in caso di ordine proveniente da un superiore.
Emergeva, dunque, un obbligo di incriminazione che gravava sugli Stati e che sarebbe sancito dall’art. 3 della Convenzione: gli Stati avevano l’obbligo di sanzionare penalmente tutti gli atti di tortura, con pene adeguate, che tengano conto della gravità dei fatti commessi.
In secondo luogo, emergeva anche un obbligo di collaborazione: uno Stato aveva l’obbligo di estradare il presunto autore di una violazione, verso lo Stato che ne faceva richiesta, oppure aveva l’obbligo di esercitare la propria giurisdizione penale, alla luce del brocardo aut dedere aut judicare[64].
Quindi, la Convenzione impegnava gli organi nazionali dei vari Stati ad elaborare e ad adottare strumenti giuridici specifici per punire tutti coloro che avevano commesso atti di tortura[65].
La Convenzione si occupava anche di istituire e disciplinare un organo che potesse vigilare sul rispetto delle norme sancite al suo interno: il Comitato Contro la Tortura (C.A.T).
Si trattava di un organo collegiale, composto da dieci esperti indipendenti.
Essi venivano scelti tra persone di alta moralità che possedevano una competenza riconosciuta nel settore dei diritti dell’uomo; erano eletti per quattro anni dagli Stati contraenti e avevano il compito di rappresentare equamente gli Stati o gli interessi rappresentati.
Il C.A.T. aveva, innanzitutto, il compito di esaminare i rapporti periodici che gli Stati contraenti avevano l’obbligo di presentare ogni 4 anni; erano destinatari dei ricorsi interstatuali, cioè delle denunce presentate dai singoli Stati e anche dei ricorsi individuali, cioè delle denunce presentate dai singoli individui che lamentino di aver subito una tortura.
La competenza del C.A.T., tuttavia, non era automatica: ogni Stato doveva riconoscere la competenza del Comitato mediante un’apposita dichiarazione.
Esso aveva anche il potere di ricevere informazioni su presunte e persistenti violazioni del divieto e di svolgere un’inchiesta rigorosamente riservata nei confronti dello Stato interessato. Anche questa competenza aveva carattere facoltativo, in quanto gli Stati potevano escluderla mediante dichiarazione.
Infine, il C.A.T. svolgeva anche un’attività interpretativa a sostegno della Convenzione: formulava i Generals Comments, che contribuivano alla definizione del contenuto e della portata delle disposizioni convenzionali[66].
7. Il Protocollo Istanbul del 1999
Il 9 agosto del 1999 è stato presentato all’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite un documento redatto dagli Stati con la partecipazione di alcune Organizzazioni[67], il Manuale per un’efficace indagine e documentazione di tortura o altro trattamento o pena crudele, inumano o degradante delle Nazioni Unite, ricordato anche con il nome “Protocollo di Istanbul”[68].
Il manuale si apriva con questa considerazione: “La tortura suscita preoccupazione profonda nella comunità mondiale. Scopo di essa è distruggere deliberatamente non solo il benessere fisico o emotivo degli individui ma anche, in alcuni casi, la dignità e la volontà di intere comunità. Essa riguarda tutti i membri della famiglia umana poiché mette in discussione il significato stesso della nostra esistenza e la nostra speranza di un futuro migliore”.[69]
Lo scopo di questo testo era, tra l’altro, chiarita nella sua introduzione, in cui si legge che il Manuale “è inteso per servire da linee guida internazionali per la valutazione di persone che formulano accuse di presunte torture e maltrattamenti, per indagini su casi di presunte torture e per presentare rapporti sui relativi esiti alla magistratura o ad altri organi investigativi. Il presente manuale comprende i principi per una documentazione ed un’indagine efficace sulla tortura ed altri trattamenti o pene crudeli disumani o degradanti. Questi principi delineano gli standard minimi perché gli Stati garantiscano la documentazione efficace sulla tortura. Le linee guida contenute nel presente manuale non sono proposte come un protocollo rigido. Esse rappresentano piuttosto gli, standard minimi basati sui principi e dovrebbero essere usate, tenendo conto delle risorse disponibili” [70].
Il documento dedicava il Capitolo II all’individuazione dei principi etici applicabili, riferendosi soprattutto ai medici legali, agli psicologi e agli psichiatri, o meglio, a tutti gli operatori sanitari che sono coinvolti nell’accertamento di un episodio di tortura.
Il capitolo III si occupava, invece, di disciplinare in maniera minuziosa l’iter da seguire: individuava le regole da osservare durante le indagini, durante i colloqui, durante la ricerca delle prove, i criteri utilizzabili per la valutazione delle stesse prove.
Il Manuale costituiva, dunque, un documento di grandissima importanza, in quanto forniva importantissime linee guida che, sebbene non vincolanti per gli Stati, potevano essere utilizzate non solo per uniformare l’attività di contrasto della tortura – condotta all’interno di ogni ordinamento nazionale – ma permetteva anche di riunificare in un unico testo gran parte dei principi sul tema, consolidatasi nella comunità internazionale.
8. Il divieto di tortura nel trattamento delle persone in vinculis
Gli Stati, dopo le varie esperienze di negoziazione affrontate a partire dal 1948, si erano resi conto che gli strumenti pattizi specifici, cioè riguardanti singoli diritti, risultavano più efficaci: erano meno generici e soprattutto più adattabili alle singole esigenze degli Stati.
Ogni Stato, infatti, caratterizzato da un contesto culturale e politico diverso, poteva avere una diversa sensibilità e quindi poteva anche non essere in grado di dare la medesima attuazione agli stessi diritti.
Proprio per questo motivo, era sorta l’esigenza di una settorializzazione della disciplina dei diritti umani. Da qui, l’adozione di documenti che si occupavano di un solo diritto, oppure si occupavano di tutelare un medesimo diritto ma in situazione ben specifiche[71].
Nel parlare del divieto di tortura, occorre prendere in considerazione anche ipotesi più specifiche, previste pur sempre all’interno della comunità internazionale e, in particolare, le ipotesi che riguardano i soggetti in vinculis, cioè i detenuti.
A questo proposito di grandissima importanza sono le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti[72].
Tale Documento, emanato dall’O.N.U. nel 1955, rappresentava la prima raccolta di principi internazionali da applicare per tutelare la persona umana, anche nel contesto carcerario.
Sebbene, tali principi non avessero natura vincolante, hanno stimolato gli Stati contraenti a garantire condizioni minime standard ai detenuti e a rinforzare la tutela dell’uomo all’interno di ciascun sistema penale.
A proposito del divieto di tortura, occorre richiamare l’art. 57 secondo cui: “[…] The prison system shall not, except as incidental to justifiable segregation or maintenance of discipline, aggravate the suffering inherent in such a situation[73]” che vietava di aggravare le sofferenze delle persone che si trovano in uno stato di detenzione, utilizzando un’espressione che verrà ripresa prima dalla Dichiarazione del 1975 e poi dalla Convenzione contro la Tortura del 1984.
L’esigenza di combattere incisivamente il fenomeno della tortura, con esplicito riferimento al contesto carcerario, era stata avvertita in modo così profondo che, con Risoluzione dell’Assemblea generale n. 34/169 del 17 dicembre 1979, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva adottato Il codice di condotta delle Nazioni Unite per i Funzionari che applicano la legge[74], destinato a disciplinate l’attività delle forze dell’ordine.
Significativo per la nostra trattazione è l’art. 5: “Nessun appartenente alle forze di polizia infliggerà, istigherà o tollererà atti di tortura o altri tipi di trattamento o pena crudeli, inumani o degradanti, né potrà invocare attenuanti come ordini superiori o circostanze eccezionali -– come lo stato di guerra o il pericolo di guerra imminente, le minacce alla sicurezza nazionale, l’instabilità politica o ogni altro tipo di emergenza pubblica – come giustificazioni della tortura o di altri tipi di trattamento o pena crudeli, inumani a degradanti”[75], dove per tortura, lo stesso codice rimandava alla definizione contenuta nella Dichiarazione del 1975.
Come sottolineato in dottrina, il divieto di tortura ha carattere assoluto: non si ammettevano deroghe dovute né a circostanze eccezionali di emergenza pubblica né l’obbedienza a ordini superiori[76].
Sul punto, i destinatari del divieto erano innanzitutto, certamente, gli Stati e le pubbliche istituzioni, in particolare quelle preposte a far applicare le leggi e ad assicurare l’ordine pubblico ma anche, altrettanto certamente, le singole persone che esercitano tali funzioni. Sorgerebbe, così, una duplice responsabilità che la dottrina definisce come istituzionale e personale[77].
Da qui, la legittimità a disobbedire ad un ordine volto a infliggere la tortura: in questi casi si trattava non di mera facoltà di disobbedire, ma di un obbligo, giuridico oltre che etico.
Un altro importante documento, emanato nel 1982, erano I Principi di etica medica relativi al ruolo del personale sanitario, in particolare medici, nella protezione dei prigionieri e dei detenuti contro la tortura e gli altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti delle Nazioni Unite[78].
Tale atto conteneva di sei disposizioni di natura inderogabile, dirette al personale sanitario in servizio negli istituti carcerari[79].
Lo scopo di detto atto era quello di sottoporre all’attenzione degli operatori sanitari le leggi morali che dovrebbero costituire le basi di un’attività professionale rispettosa della dignità di tutte le persone umane[80].
Fondamentale, all’interno di questo documento, era proprio il principio n. 2 secondo cui: “costituisce una violazione grave dell’etica medica e quindi degli accordi internazionali la condotta del personale sanitario e soprattutto dei medici che, attivamente o passivamente, si rendano complici, coautori o istigatori della tortura o altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”.
Un ancor più recente documento, adottato dalle Nazioni Unite il 14 dicembre del 1990 con la Risoluzione 45/111, era denominato I Principi fondamentali sul trattamento dei detenuti[81].
Lo scopo di questo corpus di principi era quello di rafforzare l’applicazione delle Regole Minime Standard.
Si trattava di un documento che, sebbene non citava espressamente il divieto di tortura, sanciva in modo espresso il rispetto della dignità e degli altri diritti umani e richiamava all’art. 5 tutti quei diritti cristallizzati nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e negli altri Patti delle Nazioni Unite.
Attraverso questo richiamo, il corpus stabiliva, seppur indirettamente, di vietare l’uso della tortura nei confronti dei detenuti e costituiva un’ulteriore dimostrazione della sensibilità degli Stati nel garantire i diritti delle persone in vinculis[82].
Alla luce di tali regole, nel 1991 la delegazione della Costa Rica aveva proposto di inserire un meccanismo di visite periodiche nei luoghi di detenzione, allo scopo di prevenire le torture che venivano commesse nei luoghi di prevenzione[83].
Pertanto, era stato elaborato un progetto, presentato alla Commissione per i diritti umani, che ne affidava l’esame ad un Gruppo di lavoro appositamente costituito[84].
Il progetto prevedeva la creazione di un nuovo sistema di controllo che si aggiungeva a quelli già esistenti, a carico non del bilancio O.N.U. ma dei singoli Stati che ratificavano il documento; prevedeva e disciplinava lo svolgimento di visite e l’acceso in tutti i luoghi di detenzione, senza che fosse necessaria la previa autorizzazione dello Stato interessato.
In seguito ad un iter di quasi dieci anni, il Gruppo di elaborato un sistema, poi approvato per consensus dalle Nazioni Unite. In questo modo, il 18 dicembre 2002 è stato emanato il Protocollo facoltativo alla Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani e degradanti[85].
L’art. 1 del Protocollo affermava che “lo scopo del presente Protocollo è l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone sono private della libertà, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” [86].
Per realizzare questo obiettivo, era stato istituito un Sotto-Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, nell’ambito del già esistente Comitato, con il compito di effettuare direttamente visite negli Stati contraenti, di cooperare con gli organismi ispettivi nazionali e di assisterli nell’espletamento delle loro funzioni.
Esso aveva il diritto di accedere, senza limitazioni, a tutti i luoghi dove si trovano le persone detenute sul territorio degli Stati contraenti; di intrattenersi con tali persone senza testimoni anche con l’ausilio di un interprete; di mettere a punto un programma di visite regolari al cui termine redige un rapporto confidenziale.
Lo Stato contraente aveva, così, l’obbligo di prendere in considerazioni le comunicazioni e le considerazioni ivi contenute. All’interno di ciascuno Stato ratificante dovevano essere creati meccanismi nazionali di prevenzione, in particolare organismi ispettivi nazionali con poteri del tutto analoghi a quelli previsti per il Sotto-Comitato.
In questo modo non solo si cercava di stimolare l’attività di prevenzione degli Stati ma si prevedeva anche un meccanismo di controllo diretto (internazionale e nazionale) dei luoghi di detenzione, a garanzia dei diritti dei soggetti in vinculis[87].
9. Altri Documenti
Superata la fase di definizione e delineazione dei diritti, affinché questi fossero effettivamente tutelati, era necessario prevedere un adeguato meccanismo di controllo delle autorità pubbliche e di coloro che potessero violare i predetti diritti.
Si sentiva l’esigenza di introdurre i diritti internazionali protetti negli ordinamenti nazionali dei vari Stati contraenti e si sentiva l’esigenza di attribuire agli organi giurisdizionali nazionali la competenza di decidere sui casi di violazione dei diritti sanciti.
Per vigilare sul comportamento dei vari Stati, anche a livello internazionale, sono stati costituiti organi competenti in materia di diritti umani[88].
Fino agli anni ’90, si tendeva ad accertare solo la responsabilità dello Stato, in quanto garante primario dei diritti umani, che veniva condannato al ripristino del diritto leso oppure ad una riparazione pecuniaria nei confronti della vittima.
Tale obbligo era considerato più come un risarcimento che come una vera e propria sanzione penale. Tuttavia, era difficile porre a carico di uno Stato le conseguenze delle violazioni: ciò ha fatto sorgere l’esigenza di istituire meccanismi giurisdizionali a livello internazionale per non lasciare del tutto impuniti gli autori delle violazioni.
Si trattava, però, di un’esigenza che – dapprima- ha riguardato non tanto il settore dei diritti umani ma piuttosto quello del diritto penale e che ha permesso lo sviluppo di un diritto penale internazionale[89].
Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati vincitori hanno dato vita ai Tribunali Militari di Norimberga e di Tokio, competenti a giudicare i crimini commessi durante la guerra da singoli individui, in quanto, spesso, essi avevano agito conformandosi agli ordini ricevuti dai vertici dello Stato.
Tale sviluppo ha, poi, permesso la creazione della Corte penale Internazionale, che consentiva di garantire anche i diritti umani contro eventuali violazioni non solo imputabili allo Stato, ma imputabili anche ai singoli individui.
Il diritto internazionale – che alle origini riguardava solo i crimini di guerra – si era esteso fino a ricomprendere anche il genocidio e i crimini contro l’umanità.
Gli Statuti dei Tribunali, rifacendosi alle Convenzioni sopra citate, sancivano espressamente il divieto di tortura, che così troverebbe un ulteriore fondamento del suo carattere universale e inderogabile all’interno della comunità internazionale[90].
A questo proposito, va ricordato – in primis – lo Statuto del Tribunale Internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia a partire dal 1991[91].
L’art. 2 di tale statuto stabiliva: “I crimini su cui il Tribunale giudica sono i seguenti: Gravi infrazioni alle Convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto di guerra. Il Tribunale internazionale è abilitato ad incriminare le persone che commettono o danno l’ordine di commettere delle infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, vale a dire i seguenti atti diretti contro delle persone o dei beni protetti ai sensi della Convenzione di Ginevra pertinente […] la tortura o i trattamenti inumani, compresi gli esperimenti biologici; il fatto di causare intenzionalmente delle grandi sofferenze o di attentare gravemente all’integrità fisica o alla salute[92]”.
Attraverso il richiamo operato alle Convenzioni di Ginevra, si colpirebbero tutte quelle forme di tortura o trattamenti inumani e degradanti che sono commessi nei confronti dei soggetti tutelati dalle Convenzioni del 1949 e ogni volta che la tortura viene inflitta ai civili in tempo di guerra.
In realtà, l’ambito di tutela offerto da questo documento era davvero molto ampio, in quanto permetteva di sanzionare la tortura alternativamente o cumulativamente come crimine di guerra, crimine contro l’umanità o come crimine di genocidio. Essa è oggetto di giudizio dinnanzi alla Corte suddetta in tutte le sue configurazioni, come reato – mezzo e come reato – offesa.
La tortura veniva considerata reato – offesa quando violava direttamente le norme internazionali che vietavano di commettere atti contrari alla dignità umana (tortura come crimine di guerra); veniva considerata reato – mezzo quando costituiva una modalità per realizzare un obiettivo ulteriore (ad esempio la tortura inflitta come mezzo per realizzare un genocidio).
Si osservava che la tortura (come reato a forma libera) poteva essere realizzata anche attraverso altri crimini, come la riduzione in schiavitù, lo stupro, attraverso la sperimentazione biologica che provoca gravi sofferenze, cioè attraverso quei reati che tendono all’umiliazione della vittima. In questo modo, si avrebbe un ulteriore estensione dell’ambito di applicazione del divieto[93].
Per quanto riguarda la responsabilità penale degli autori, erano considerati punibili non solo quei soggetti che hanno materialmente agito, ma, alla luce dell’art. 7 anche “Chiunque abbia pianificato, incitato a commettere, ordinato, commesso o in ogni altra maniera abbia aiutato o incoraggiato a pianificare, preparare o eseguire un crimine tra quelli vietati. non costituisca una scriminante, né un’esimente, né addirittura un’attenuante il fatto di rivestire ufficialmente la carica di Capo di Stato o di Governo, né di alto funzionario di Stato; inoltre, la condotta posta in essere da un subordinato non solleva da responsabilità penale il suo superiore se questi sapeva o aveva motivo di sapere che il subordinato si sarebbe apprestato a commettere tale atto o lo aveva già commesso e il superiore non abbia preso le misure necessarie e ragionevoli ad impedire che l’atto fosse commesso o a punirne i colpevoli. Di contro, il fatto di aver agito in esecuzione di un ordine di un Governo o di un superiore non esonera l’autore da responsabilità, ma può soltanto essere considerata come attenuante se il Tribunale Internazionale lo considera conforme alla giustizia” [94].
In questo modo veniva ulteriormente confermato il carattere inderogabile del divieto di tortura, che non poteva ricevere alcuna giustificazione dal fatto che sia frutto di un ordine[95].
Era, così, garantita, infine, la primazia delle decisioni della Corte che, in ogni stato e grado del processo, può chiedere ufficialmente alle giurisdizioni nazionali di spogliarsi della competenza in suo favore, ai sensi dello statuto e del suo regolamento. Le decisioni della Corte, in questo modo, finivano per prevalere su tutte le norme nazionali, garantendo anche l’uniformità della disciplina in materia di divieto di tortura[96].
Un altro documento fondamentale da ricordare nell’ambito del Diritto Penale Internazionale era lo Statuto del Tribunale per il Rwanda, adottato con la Risoluzione O.N.U. n. 955 l’8 novembre 1994. Anche in questo documento la tortura veniva contrastata in tutte le sue manifestazioni, come crimine contro l’umanità (art. 3), come reato – mezzo in tema di genocidio (art.2) e in riferimento all’art. 3 comune alle convenzioni di Ginevra, secondo uno schema che ricorda quello presente nello Statuto della Corte del 1991 e che conferma il carattere assoluto e inderogabile del divieto[97].
Infine, va anche menzionato lo Statuto della Corte Penale Internazionale (C.P.I.)[98], adottato il 3 aprile del 1998. Il divieto di tortura viene innanzitutto sancito, seppur indirettamente, nell’art. 6 relativo al genocidio: qui si riprenderebbe la nozione di tortura intesa come reato – mezzo prevista dallo Statuto del Tribunale per i crimini commessi in Jugoslavia[99].
In secondo luogo, il divieto in questione veniva espressamente fissato anche dall’art. 7, nella parte relativa ai crimini contro l’umanità, stabilendo che: “per «tortura» s’intende l’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, ad una persona di cui si abbia la custodia o il controllo; in tale termine non rientrano i dolori o le sofferenze derivanti esclusivamente da sanzioni legittime, che siano inscindibilmente connessi a tali sanzioni o dalle stesse incidentalmente occasionati”.[100]
Una definizione che ricorda, senza dubbio, quella contenuta nella Convenzione del 1948, sia per quanto riguarda gli aspetti contenutistici sia per quanto riguarda l’individuazione delle ipotesi che non rientrano nel divieto.
È anche vero, però, che in questo contesto, la tortura veniva in rilievo in quanto commessa a danno di popolazioni civili: affinché si potesse trovare tutela dinnanzi alla Corte Internazionale, occorreva la presenza sia degli elementi caratterizzanti la fattispecie di tortura, sia quelli propri dei crimini contro l’umanità.
Il divieto di tortura, infine, era ulteriormente sancito nell’art. 8, che richiamava le Convenzioni ginevrine del 1949 e condannava il compimento di atti di tortura o di trattamenti inumani, compresi gli esperimenti biologici.
Attraverso questi tre articoli e le altre disposizioni sul tema, contenute nello Statuto della Corte Penale Internazionale, si affermava un divieto assoluto e universale, all’interno di un organo che aveva carattere permanente e che poteva vigilare costantemente sui diritti in esso sanciti.
Tale universalità viene confermata anche dal fatto che vengono colpite tutte le possibili manifestazioni di tortura, in tutti i diversi campi in cui si possono verificare[101].
10. Alcuni casi pratici
Dopo aver preso in considerazione alcune delle principali fonti del diritto internazionale in materia di divieto di tortura, ho ritenuto opportuno procedere all’esame di alcuni dei tantissimi casi pratici esaminati dagli organi giudiziari o dagli organi specificamente costituiti dalle convenzioni, per sottolineare l’applicazione pratica del divieto in questione.
Una delle prime decisioni in materie di divieto di Tortura risale al 1980, emanata dalla Corte d’Appello degli Stati Uniti del Secondo Circuito e diventata, ben presto, un caposaldo nella giurisprudenza del C.A.T.: il caso Filartiga v. Peña-Irala.[102]
L’importanza di questa sentenza si deve al fatto che essa fissava il principio secondo cui le Corti federali degli Stati Uniti potevano punire i cittadini non americani per gli atti illeciti, commessi al di fuori del territorio statunitense, in violazione del diritto internazionale o di qualsiasi altro trattato di cui gli Stati Uniti sono parte. In questo modo si estendeva la giurisdizione delle Corti Federali agli illeciti commessi in tutto il mondo.
Per comprendere la decisione del C.A.T., appare opportuno ripercorrere brevemente il caso.
I coniugi Filártiga, cittadini del Paraguay, sostennero che il 29 marzo 1976 il loro figlio diciassettenne Joelito Filártiga, fu rapito e torturato a morte dall’ispettore generale della polizia di Asuncion, in quel momento Américo Norberto Peña-Irala (Peña). Sostennero che il figlio Joelito era stato maltrattato perché il padre era un oppositore di lunga data del Governo del Presidente paraguaiano Alfredo Stroessner, che governava il Paese dal 1954. All’epoca dei fatti tutte le parti vivevano in Paraguay.
Dopo che le parti erano giunte negli Stati Uniti (separatamente e per motivi differenti), la famiglia Filártiga denunciò Peña dinanzi alle corti americane sostenendo che Peña aveva ingiustamente torturato Joelito, cagionandone la morte. Per questo, i familiari della vittima avevano chiesto il pagamento di ingenti somme a titolo di danni compensativi e punitivi.
A sostegno della giurisdizione federale, la famiglia Filártiga si appellò all’Alien Tort Claims Act, uno statuto federale del 1789, che conferiva ai cittadini stranieri il diritto di agire per azioni illecite che violavano il diritto internazionale. Tra le richieste sollevate dinnanzi alla corte, i coniugi Filártiga chiedevano se un atto di tortura violasse la legge delle nazioni.
La Corte d’appello americana, secondo circuito, aveva stabilito che – sebbene i Filártiga siano cittadini non americani ma del Paraguay e sebbene il reato sia stato commesso sul territorio dello Stato di origine (proprio in Paraguay) – la famiglia era autorizzata a presentare ricorso dinanzi ai tribunali statunitensi perché la tortura era una violazione delle leggi delle nazioni.
La Corte d’appello aveva, inoltre, dichiarato che la libertà dalla tortura era garantita dal diritto internazionale consuetudinario. Il paragrafo 5 della sentenza affermava che “il divieto in quanto tale è chiaro e inequivocabile e non ammette alcuna distinzione tra trattamento di stranieri e cittadini”. La Corte d’appello ha, per di più, dichiarato che “un atto di tortura commesso da un funzionario statale contro uno detenuto in detenzione vìola le norme stabilite dal diritto internazionale dei diritti umani, e quindi dalla legge delle nazioni“.
Per quanto riguarda gli autori di torture in generale, la Corte aveva addirittura dichiarato che il torturatore era “hostis humani generis”, un nemico di tutta l’umanità.
Un altro caso importante era stato esaminato dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, noto come E. Quinteros e M. C. Almeida de Quinteros c. Uruguay[103].
L’importanza di questa decisione risiede nel fatto che, per la prima volta, si riconosceva che anche la sofferenza psicologica può essere considerata come tortura.
Nello specifico il caso riguardava la figlia ricorrente, Elena, che era stata arrestata dalle forze militari uruguaiane, detenuta in un luogo segreto e torturata. Il comitato, con la Comunicazione n. 107/1981, ha riconosciuto anche la tortura psicologica subita dalla madre.
Infatti, al paragrafo 14 della Comunicazione si legge che “Il Comitato comprende l’angoscia e lo stress causati alla madre dalla scomparsa di sua figlia e dalla continua incertezza riguardo al suo destino e alla sua ubicazione. L’autore ha il diritto di sapere cosa è successo a sua figlia. Sotto questi aspetti, anche lei è vittima delle violazioni dell’Alleanza sofferta in particolare dalla figlia, dell’articolo 7. In questo modo, il Comitato non solo cominciava a specificare quali sofferenze psicologiche potevano integrare la tortura, ma riconosceva anche la punibilità delle torture psicologiche.
Un altro caso importante è stato il caso Ashurov c.Tajikistan[104], relativo al divieto di sottoporre a tortura soggetti in vinculis, risolto con la Comunicazione 1348/2005 del Comitato dei Diritti umani delle Nazioni Unite.
Il ricorso era stato presentato dal padre di un cittadino tagiko di origine uzbeka, una minoranza etnica presente sul territorio, condannato in Tagikistan a 20 anni di carcere in seguito ad una rapina a mano armata. Nel ricorso si leggeva che, al momento della detenzione, il figlio del ricorrente non essendo stato informato dei suoi diritti e non essendo supportato dalla presenza di un interprete (dovutogli perché non comprendeva le accuse mosse in lingua originale), era sottoposto a torture e costretto a confessare la rapina a mano armata.
In particolare, il soggetto arrestato era stato privato del cibo e del sonno; era stato posto in manette attaccate ad una batteria, le cui scosse elettriche venivano applicate ai genitali e alle dita; era stato sistematicamente, percosso.
Il Comitato ha riconosciuto che tali atti integravano il reato di tortura e come tali erano vietati alla luce dell’art. 7 del Trattato sui Diritti Politici e Civili.
Si trattava di un divieto che il Comitato per i diritti Umani delle Nazioni Unite ha ribadito anche nel caso Grille Motta c. Uruguay[105] risolto con la Comunicazione 11/77 . Il ricorso era stato presentato da un cittadino uruguayano residente in Messico, arrestato da un gruppo di poliziotti di Montevideo, che affermava essere stato torturato per 50 giorni e testimoniava l’applicazione di scosse elettriche, l’uso del “submarino” (mettendo la testa incappucciata del detenuto in acqua sporca), l’inserimento di bottiglie o barili di fucili automatici nel suo ano ed era stato costretto a rimanere in piedi, incappucciato e ammanettato e con un pezzo di legno conficcato nella sua bocca, per diversi giorni e notti.
Il Comitato, con la comunicazione suddetta, ha sottolineato che si trattava di comportamenti vietati in quanto l’Uruguay aveva anche aderito al Patto Internazionale dei diritti politici e civili, per cui tali condotte comportavano una espressa violazione di obblighi internazionali.
Sul tema della natura assoluta e cogente del divieto di tortura, occorre ricordare la celebre sentenza (IT-95-17/1)[106] emessa dal Tribunale penale per la ex Jugoslavia il 10 dicembre del 1998.
La questione riguardava A. Furundžija, comandante di una delle unità speciali delle forze armate operanti in Bosnia Erzegovina, che durante il conflitto nella ex Jugoslavia avrebbe commesso atti di tortura e, in particolare, di stupro a danno della popolazione locale.
La corte, innanzitutto, ha chiaramente sostenuto l’idea secondo cui gli atti di tortura commessi durante un conflitto armato costituiscono una violazione delle norme del diritto internazionale: nel paragrafo 139 afferma che “il divieto di tortura previsto nel diritto internazionale umanitario rispetto a situazioni di conflitto armato è rafforzato anche dall’insieme delle norme pattizie sui diritti umani, e tali norme vietano la tortura sia in tempo di pace che in tempo di guerra”.
In questo modo, il Tribunale non solo finiva per riconoscere la responsabilità del Furundžija, ma affermava anche che il divieto di tortura costituiva jus cogent, cioè una norma imperativa che non ammetteva alcuna deroga.
Secondo la corte, infatti, “Il principio in questione non può essere oggetto di deroga da parte degli Stati mediante trattati internazionali o consuetudini generali che non hanno la stessa forza normativa. Il divieto è ora diventato uno dei fondamentali standard della comunità internazionale e ha lo scopo di produrre un effetto deterrente nella misura in cui segnala a tutti i membri della comunità internazionale e agli individui sui quali essi hanno autorità che il divieto di tortura è un valore assoluto dal quale nessuno deve discostarsi”.
La corte aggiungeva anche che, alla luce di questo valore, il divieto avrebbe lo scopo di delegittimare a livello internazionale qualsiasi atto legislativo, amministrativo o giudiziario interno che ammetteva la tortura; che se venivano commessi atti di tortura sulla base di queste misure interne, l’autore poteva essere considerato penalmente responsabile delle violazioni commesse in uno Stato estero o nel proprio Stato, in seguito ad un cambio di regime; che ogni Stato ha il diritto di compiere indagini all’interno della propria giurisdizione e può punire gli autori.
In questo modo si affermava la natura universale del divieto di tortura.
Le numerose fonti internazionali che sono state esaminate costituiscono il frutto di una esigenza fondamentale: tutelare l’uomo dalla tortura, un fenomeno considerato spregevole dalla comunità internazionale. Ed è proprio per questo che se ne occupano diverse branche del diritto: dal diritto umanitario al diritto internazionale penale.
Credo che ormai, al giorno d’oggi, siamo tutti concordi nel ritenere che il divieto di tortura appartenga allo ius cogens: sarebbe possibile provarne la natura cogente considerando proprio i numerosi testi che sono stati elaborati, la cospicua attività degli organi delle Nazioni Unite (di cui ho riportato solo alcuni tra i casi più celebri) e dei Tribunali.
La stessa comunità internazionale considera certi crimini più gravi rispetto ad altri e, per questo, si preoccupa di contrastarli con fermezza.
Tra questi, senza dubbio la tortura ha un posto di grande rilevanza, dato che viene definita sia come “crimine contro l’umanità”, sia come “crimine contro la persona”.
Tra queste due definizioni, utilizzate l’una nel diritto umanitario, l’altra nel diritto internazionale penale, vi è secondo me un punto di convergenza: si tratta di un “crimine contro l’uomo”, un atto volto a ridurre, a sminuire, ad eliminare la dignità propria dell’essere umano, sia nella sua esistenza individuale sia nella sua esistenza sociale.
Senza la dignità, l’identità viene cancellata. E proprio per questo, ritengo che la tortura sia un crimine doppiamente odioso e ripugnante.
[1] S. ZAPPALLA’, La tutela Internazionale dei diritti umani: Tra sovranità degli Stati e governo mondiale, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 8.
[2] Si tratta di una organizzazione regionale panamericana istituita nel 1948, risultato di un processo di integrazione iniziato già nel 1889. Si dotò di istituzioni proprie, quali la Commissione, la Corte interamericana e una propria Carta dei diritti intramericana. Al momento della sua costituzione, l’OSA era composta da 21 Stati; oggi costa di 35 Stati indipendenti e ha garantito lo status di osservatore a 63 Stati e all’Unione Europea. Tra gli Stati membri:Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Domicia, Ecaudor, El Salvador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, REp. Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grandine, Saint Lucia, Stati Uniti, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay, Venezuala. Per questi riferimenti cfr www.unidp-centrodirittiumani.it.
[3] A tal proposito occorre ricordare la Risoluzione del 22 giugno del 1977 (VII-O/77), con cui gli Stati incaricavano la commissione interamericana di preparare uno studio per presentare i loro obblighi derivanti dagli impegni assunti con la Dichiarazione e la Risoluzione 371(VIII- O/78N) del 1 luglio 1978, che si riferisce agli impegni internazionali di uno stato membro per rispettare i diritti riconosciuti della Dichiarazione Americana.
[4] F. NAPOLITANO, La dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo, la promozione e protezione dei diritti umani nel sistema interamericano dell’organizzazione degli Stati Americani, in Sistema interamericano di promozione dei diritti umani, www.unidp-centrodirittiumani.it.
[5] Ibidem.
[6] F. NAPOLITANO, La dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo, la promozione e protezione dei diritti umani nel sistema interamericano dell’organizzazione degli Stati Americani, in Sistema interamericano di promozione dei diritti umani, www.unidp-centrodirittiumani.it.
[7] Il testo originale della Dichiarazione è disponibile in www.ohcr.org.
[8] “Tutti gli esseri umani hanno il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza della sua persona”.
[9] “Ogni persona ha il diritto alla protezione della legge dagli attacchi abusivi al suo onore, alla sua reputazione e alla sua vita privata e familiare”.
[10] Per il testo originale della Dichiarazione cfr. http://www.un.org/en/universal-declaration-human-rights/.
[11] A. SACCUCCI, Profili di Tutela dei diritti umani: Tra nazioni unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 39 – 40.
[12]C. ZANGHI’, “La Protezione internazionale dei diritti dell’uomo”, Giappichelli Editore, Torino, 2001, p. 26 – 30.
[13] “No one shall be subjected to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”.
[14] A. PAPISCA, La Dichiarazione Universale dei diritti umani commentata dal Prof. Antonio Papisca, art 5 – senza deroghe, in http://unipd-centrodirittiumani.it/it/dossier/la-dichiarazione-universale-dei-diritti-umani-commentata-dal-prof-antonio-papisca/3.
[15] C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, p. 1, in www.diritto.it.
[16] Ibidem.
[17] A. PAPISCA, La Dichiarazione Universale dei diritti umani commentata dal Prof. Antonio Papisca, art 5 – senza deroghe, in http://unipd-centrodirittiumani.it/it/dossier/la-dichiarazione-universale-dei-diritti-umani-commentata-dal-prof-antonio-papisca/3.
[18] C. ZANGHI’, La Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Editore, Torino, 2001, p. 53.
[19] E. RIGA, Il diritto internazionale umanitario nei conflitti interni, in Periodico mensile dell’Archivio Disarmo, n°8, 2003, www.archiviodisarmo.it.
[20] Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze Armate in campagna; Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate sul mare; Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra; Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Per il testo originale delle Convenzioni cfr. International Commitee of the Red Cross, https://www.icrc.org/eng/assets/files/publications/icrc-002-0173.pdf.
[21] Le quattro convenzioni di Ginevra contengono un articolo comune, l’articolo 3, che riguarda i conflitti armati a carattere non internazionale, che si verificano nel territorio di uno degli stati contraenti. Tale articolo contiene un insieme di divieti inderogabili, in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza.
[22] “To this end, the following acts are and shall remain prohibited at any time and in any place whatsoever with respect to the above-mentioned persons: a) violence to life and person, in particular murder of all kinds, mutilation, cruel treatment and torture”, p. 35; p. 61, p. 81, p.151.
[23] E. RIGA, Il diritto internazionale umanitario nei conflitti interni, in Periodico mensile dell’Archivio Disarmo, n°8, 2003, www.archiviodisarmo.it.
[24] E. RIGA, Il diritto internazionale umanitario nei conflitti interni, in Periodico mensile dell’Archivio Disarmo, n°8, 2003, www.archiviodisarmo.it.
[25] Ibidem.
[26] Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate sul mare; Ginevra 1949.
[27] “Any attempts upon their lives, or violence to their persons, shall be strictly prohibited; in particular, they shall not be murdered or exterminated, subjected to torture or to biological experiments; they shall not wilfully be left without medical assistance and care, nor shall conditions exposing them to contagion or infection be created”.
[28] F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 28.
[29] Ibidem.
[30] “No physical or mental torture, nor any other form of coercion, may be inflicted on prisoners of war to secure from them information of any kind whatever. Prisoners of war who refuse to answer may not be threatened, insulted, or exposed to any unpleasant or disadvantageous treatment of any kind”.
[31] “The High Contracting Parties specifically agree that each of them is prohibited from taking any measure of such a character as to cause the physical suffering or extermination of protected persons in their hands. This prohibition applies not only to murder, torture, corporal punishment, mutilation and medical or scientific experiments not necessitated by the medical treatment of a protected person, but also to any other measures of brutality whether applied by civilian or military agents”.
[32] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 57 – 58.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35]S. ZAPPALLA’, La tutela Internazionale dei diritti umani: Tra sovranità degli Stati e governo mondiale, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 116.
[36]C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 57 – 58.
[37]C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, in https://www.diritto.it, p. 2.
[38] Ibidem.
[39] C. ZANGHI’, La Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2001, p. 97 – 106.
[40] Per il testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx.
[41] “No one shall be subjected to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment. In particular, no one shall be subjected without his free consent to medical or scientific experimentation”.
[42] C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, in www.diritto.it, p. 2.
[43] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 85 -90.
[44] Ibidem.
[45] A. SACCUCCI, Profili di tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 115 – 116.
[46] Ibidem.
[47] Per il testo originale della Dichiarazione cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/DeclarationTorture.aspx.
[48] “For the purpose of this Declaration, torture means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted by or at the instigation of a public official on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or confession, punishing him for an act he has committed or is suspected of having committed, or intimidating him or other persons. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to, lawful sanctions to the extent consistent with the Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners”.
[49] A. SACCUCCI, Profili di tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 115 – 116.
[50] C. DANISI, “Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo”, in www.diritto.it, p. 3 – 4.
[51] Ibidem.
[52]A. SACCUCCI, “Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa”, Cedam, Padova, 2005, p. 116.
[53] Per il testo originale della Convenzione cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CAT.aspx.
[54] C. DANISI, “Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo”, in www.diritto.it, p. 3.
[55] A. SACCUCCI, Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 116 – 117.
[56] “For the purposes of this Convention, the term “torture” means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanctions.
This article is without prejudice to any international instrument or national legislation which does or may contain provisions of wider application”, in United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CAT.aspx
[57] Per la ricostruzione che segue nel testo, cfr. CARMELO DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, www.diritto.it, p. 11.
[58] C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, www.diritto.it, p. 11.
[59]A. SACCUCCI, Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 117.
[60] Ibidem.
[61] C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, www.diritto.it, p. 11.
[62] C. DANISI, Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo, www.diritto.it, p. 11.
[63] A. SACCUCCI, “Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa”, Cedam, Padova, 2005, p. 118.
[64] A. SACCUCCI, Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 118.
[65] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 42.
[66] A. SACCUCCI, Profili si tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 119 -120.
[67] Action for Torture Survivors (HRFT) Geneva; Amnesty International, London; Association for the Prevention of Torture, Geneva; Behandlungszentrum für Folteropfer, Berlin; British Medical Association(B MA), London; Center for Research and Application of Philosophy and Human Rights; Hacettepe University, Ankara; Center for the Study of Society and Medicine, Columbia University, New York; The Center for Victims of Torture (CVT), Minneapolis; Centre Georges Devereux, University of Paris VIII, Paris; Committee against Torture, Geneva; Danish Medical Association, Copenhagen; Department of Forensic Medicine and Toxicology, University of Colombo, Colombo; Ethics Department, Dokuz Eylül Medical Faculty, Izmir; Gaza Community Mental Health Programme, Gaza; German Medical Association, Berlin; Human Rights Foundation of Turkey (HRFT), Ankara; Rights Watch, New York; Indian Medical Association and the IRCT, New Delhi; Indochinese Psychiatric Clinic, Boston; Institute for Global Studies, University of Minnesota, Minneapolis; Instituto Latinoamericano de Salud Mental, Santiago, Chile; International Committee of the Red Cross, Geneva; International Federation of Health and Human Rights Organizations, Amsterdam; International Rehabilitation Council for Torture Victims (IRCT), Copenhagen; Johannes Wier Foundation, Amsterdam; Lawyers Committee for Human Rights, New York; The Medical Foundation for the Care of Victims of Torture, London; Physicians for Human Rights Israel, Tel Aviv; Physicians for Human Rights Palestine, Gaza; Physicians for Human Rights USA, Boston.
[68] Per il testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, www.ohchr.org.
[69] “Torture is a profound concern of the world community. Its purpose is to destroy deliberately not only the physical and emotional well-being of individuals but also, in some instances, the dignity and will of entire communities. It concerns all members of the human family because it impugns the very meaning of our existence and our hopes for a brighter future”.
[70] “Quences, but no international guidelines for documentation were available prior to the development of this manual. The Istanbul Protocol: Manual on the Effective Investigation and Documentation of Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment is intended to serve as international guidelines for the assessment of persons who allege torture and ill-treatment, for investigating cases of alleged torture and for reporting findings to the judiciary or any other investigative body. This manual includes principles for the effective investigation and documentation of torture”.
[71] S. ZAPPALLA’, La tutela Internazionale dei diritti umani, Tra sovranità degli Stati e governo mondiale, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 46 – 47.
[72] Su tale documento cfr. C. CIAVARELLA, Le raccomandazioni delle Nazioni Unite per una coerente strategia di riforma del sistema di applicazione delle misure alternative alla detenzione, in www.giustizia.it, p. 1.
[73] Testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/TreatmentOfPrisoners.aspx.
[74] Per il testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/LawEnforcementOfficials.aspx.
[75] “No law enforcement official may inflict, instigate or tolerate any act of torture or other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment, nor may any law enforcement official invoke superior orders or exceptional circumstances such as a state of war or a threat of war, a threat to national security, internal political instability or any other public emergency as a justification of torture or other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”.
[76] ANGELA COLELLA, La repressione penale della Tortura: riflessioni de iure condendo, in Diritto penale Contemporaneo, Milano, 22 luglio 2014, p. 12, www.penalecontemporaneo.it.
[77] M. MASCIA, Contro la tortura: norme specifiche per più coerenti politiche dei diritti umani, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, anno III, n. 1/1989, p. 68 – 69.
[78] Per il testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/MedicalEthics.aspx.
[79] A. COLELLA, La repressione penale della Tortura: riflessioni de iure condendo, in Diritto penale Contemporaneo, Milano, 2014, p. 12, www.penalecontemporaneo.it.
[80] M. MASCIA, Contro la tortura: norme specifiche per più coerenti politiche dei diritti umani, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, anno III, n. 1/1989, p. 68 – 69.
[81] Per il testo originale cfr. United Nations Human Rights Office of the High Commisioner, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/BasicPrinciplesTreatmentOfPrisoners.aspx.
[82] J. KLEINIG, Prisoner’s Rights, Routledge Taylor e Francis Group, New York, 2016, p. 408 – 421.
[83] A. SACCUCCI, “Profili di tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa”, Cedam, Padova, 2005, p. 121 – 124.
[84] Ibidem.
[85] Per il testo originale cfr. in United nations human rights office of the high Commissioner, http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/OPCAT.aspx.
[86] “The objective of the present Protocol is to establish a system of regular visits undertaken by independent international and national bodies to places where people are deprived of their liberty, in order to prevent torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”.
[87] A. SACCUCCI, Profili di tutela dei diritti umani tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa, Cedam, Padova, 2005, p. 121 – 124.
[88] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 64-66.
[89] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p.64-66.
[90] F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p 81 – 94.
[91] Per il testo originale cfr. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, www. http://www.icty.org.
[92] “The International Tribunal shall have the power to prosecute persons committing or ordering to be committed grave breaches of the Geneva Conventions of 12 August 1949, namely the following acts against persons or property protected under the provisions of the relevant Geneva Convention […] torture or inhuman treatment, including biological experiments, wilfully causing great suffering or serious injury to body or health”.
[93] F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 81 – 94.
[94] “A person who planned, instigated, ordered, committed or otherwise aided and abetted in the
planning, preparation or execution of a crime referred to in articles 2 to 5 of the present Statute, shall be individually responsible for the crime. The official position of any accused person, whether as Head of State or Government or as a responsible Government official, shall not relieve such person of criminal responsibility nor mitigate punishment. The fact that any of the acts referred to in articles 2 to 5 of the present Statute was committed by a subordinate does not relieve his superior of criminal responsibility if he knew or had reason to know that the subordinate was about to commit such acts or had done so and the superior failed to take the necessary and reasonable measures to prevent such acts or to punish the perpetrators thereof. The fact that an accused person acted pursuant to an order of a Government or of a superior shall not relieve him of criminal responsibility, but may be considered in mitigation of punishment if the International Tribunal determines that justice so requires”.
[95] F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 81 – 94.
[96] Ibidem.
[97] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p.68 – 69.
[98] Per il testo originale cfr. in International Criminal Court, www.icc-cpi.int.
[99] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 73 -75.
[100] “Torture” means the intentional infliction of severe pain or suffering, whether physical or mental, upon a person in the custody or under the control of the accused; except that torture shall not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to, lawful sanctions”.
[101] C. ZANGHI’, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 73 -75.
[102]Testo integrale in International Criminal database, http://www.internationalcrimesdatabase.org.
[103]Testo integrale in United nations human rights office of the high commissioner, http://www.ohchr.org.
[104] Testo integrale in World court, easy search, advanced research, http://www.worldcourts.com.
[105] Testo integrale in World court, easy search, advanced research, http://www.worldcourts.com.
[106] Testo integrale in International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, www. http://www.icty.org.
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Veronica Schirripa
Dott.ssa Veronica SchirripaLaureata presso l'Università degli studi di Catania nel 2018 con Tesi sperimentale in diritto penale “Il reato di Tortura tra fonti sovrannazionali e diritto interno" (relatrice: Prof. Rosaria Sicurella).
Durante il percorso accademico, la grande passione per i diritti umani e il diritto internazionale l'ha spinta a partecipare ad uno stage al palazzo delle Nazioni Unite (New York) in occasione del CWMUN 2016, organizzato dall'associazione Diplomatici, nella qualità di delegate as Namibia; ad assistere nel 2017 alle discussioni del Parlamento Europeo sul tema della lotta alla criminalità e agli hate speeches.
Ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e Forensi di Catania “A. Galati", conseguendo il Diploma nel 2020 con tesi di Diritto Civile “Gli obblighi del sanitario" (Relatore: prof Giovanni Di Rosa).
Durante il percorso post-accademico ha svolto un periodo di stage presso la Procura Generale della Repubblica, presso la sede di Catania.
Abilitata all'esercizio della professione forense.
Svolge l'attività di consulente presso lo Studio Di Paola & Partners.
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