Il dolo e la sua graduazione
L’art. 43 c.p., al primo comma, stabilisce che “ Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
Senza dubbio la volontà e la previsione dell’evento cui è teleologicamente orientata la condotta sono gli elementi caratteristici dell’elemento psicologico, ma, al fine di analizzare lo stesso in maniera completa, è necessario chiarire preliminarmente cosa si intende per evento. Infatti è possibile che l’evento si intenda come naturalistico o giuridico.
Intenderlo come naturalistico vuol dire fare riferimento alla modificazione della realtà esterna causata dalla condotta ed in tal senso, affinché il soggetto sia in dolo è necessario che si rappresenti e voglia anche l’evento naturalistico. Il problema a questo punto riguarderebbe il reati di mera condotta in cui l’evento non si verifica necessariamente. In tal senso la dottrina, al fine di sostenere la tesi dell’evento naturalistico, stabilisce che per capire cosa è o non è oggetto di dolo bisogna riferirsi ad altre norme attraverso una rappresentazione sistematica, quali ad esempio l’art. 59 c.p., sulle cause di giustificazione, che trova applicazione anche se il soggetto non le aveva previste o conosciute, perciò non sono oggetto di dolo; l’art. 47 c.p., comma 1, secondo il quale l’errore sul fatto esclude il dolo, perciò il soggetto deve rappresentarsi tutti gli elementi del fatto; l’art. 59 c.p., comma 4, secondo il quale il dolo è escluso se vi è supposizione erronea della presenza di una causa di giustificazione. Insomma un’analisi fondata su un principio di simmetria mediante il quale tutto ciò che caratterizza il reato deve stare nella testa del soggetto.
Per evento giuridico invece si intende l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Qualora si ammetta tale interpretazione si stabilisce che il soggetto debba rappresentarsi tutti gli elementi che concorrono a definire l’offesa.
Ad ogni modo le due impostazioni cambiano solo ai fini interpretativi.
Affinché il soggetto possa intendersi in dolo è necessario che si rappresenti tutti gli elementi della fattispecie oggettiva (condotta, nesso causale, evento). Il fatto che la condotta debba essere sorretta dal dolo si interseca con i concetti di coscienza e volontà e la rappresentazione e volizione della condotta sono rispettivamente indicatori di un momento intellettivo ed uno volitivo. Ma qual è la condotta che deve essere voluta? La condotta tipica. E dunque qual è la condotta tipica?
Riguardo la condotta si distinguono in dottrina due grandi famiglie: reati a forma vincolata e reati a forma libera. Mentre per i primi risulta di più semplice comprensione l’individuazione della condotta tipica perché stabilita proprio dalla norma, per i secondi la si intende come quell’ultima condotta con la quale si innesca un meccanismo causale non più dominabile dal soggetto agente.
Non bisogna dimenticare però l’esistenza dei presupposti di un reato, ovvero quegli elementi di fatto o diritto che devono preesistere rispetto alla condotta (es: nel furto, l’altruità del bene; aborto, la condizione di gravidanza) e ci si chiede se essi siano o meno oggetto di dolo. La risposta è facilmente deducibile ed è affermativa. Ritenerli non oggetto di dolo infatti sarebbe incostituzionale in violazione del principio di colpevolezza che concorre a delineare il disvalore delle azioni, perché se nel furto il soggetto non si rappresenta l’altruità del bene non sarebbe punibile. Ovviamente il dolo , in tal senso, necessiterebbe della mera rappresentazione per configurarsi.
Giungiamo al nocciolo della questione e ricordiamo che il nostro ordinamento conosce tre forme di dolo: intenzionale, diretto, eventuale.
Il dolo intenzionale riguarda il soggetto che agisce al fine di realizzare un determinato evento ed è la forma più grave di dolo.
Il diretto e l’eventuale hanno in realtà la medesima matrice perché, per entrambi, il soggetto si rappresenta gli elementi oggettivi del reato ma non agisce al fine di realizzare quel determinato evento, ma per realizzare un’altra finalità. Se quest’ultima se la rappresenta in termini di certezza si avrà dolo diretto, se solo con una certa probabilità, dolo eventuale.
Di regola la tripartizione rileva in relazione alla graduazione della pena, perché vige, nel nostro ordinamento, il principio di equipollenza delle forme di dolo, poiché nonostante talune deroghe, tutti i reati sono compatibili con tutte le forme di dolo previste dall’ordinamento.
Per percepire la differenza tra dolo specifico ed intenzionale, sulla base dell’assunto per il quale l’elemento soggettivo è il medesimo, bisogna concentrarsi sull’elemento oggettivo, perché mentre il dolo specifico si assume anche qualora la finalità non si realizza, non essendo essa elemento costitutivo del reato, il dolo intenzionale necessita della realizzazione della finalità voluta.
Riguardo il dolo eventuale è necessario un ulteriore approfondimento avendo implicazioni complicate che riguardano anche la colpa cosciente. Per quest’ultimo argomento quindi sarà redatto un articolo specifico in questa stessa sede.
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Felicita La Peccerella
Dott.ssa in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a ciclo unico presso l'Università di Roma "La Sapienza")
Formazione specialistica approfondita attraverso un corso intensivo di preparazione alla magistratura (Scuola Greco-Pittella, Roma)
Praticante Avvocato presso il Foro di Benevento
Esperta in Psicologia Giuridica in ambito civile e penale (adulti e minori) in seguito ad un Master Universitario di II livello (Istituto Skinner- Università Europea di Roma)
Socia dell'associazione CAMMINO (Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni)
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