Il dovere istruttorio ex officio del Giudice in tema di protezione internazionale

Il dovere istruttorio ex officio del Giudice in tema di protezione internazionale

Abstract: La Cassazione, con ordinanza n. 29285 del 12.11.2019, ha statuito che, in materia di protezione internazionale, incombe sul Giudice chiamato a pronunciarsi sulla relativa domanda il potere-dovere di attivarsi ex officio per addivenire ad una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza dell’istante, onde valutare correttamente se sia fondata la ricostruzione dei fatti da questo prospettata, spiegando poi chiaramente il modus con cui ha assolto a tale dovere.

La vicenda oggetto del giudizio della Suprema Corte trae origine dal ricorso presentato da un cittadino del Gambia volto ad ottenere, ex multis, il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Nel proprio ricorso l’istante sosteneva di aver lasciato il proprio Paese in quanto, essendo stato accusato della sparizione di due fucili appartenenti alla Polizia, per la quale lavorava come addetto alla custodia delle armi, temeva di essere arrestato e posto in stato di detenzione senza la previa garanzia di un giusto processo.

Con decreto n. 3850/2018, il Tribunale di Milano, malgrado avesse ritenuto credibili le vicende personali riferite dal ricorrente, respingeva il ricorso.

Riteneva infatti il Giudice meneghino che nel presente caso non si potesse ravvisare l’esistenza di un danno grave, né l’impossibilità di ricevere protezione dalle autorità statuali, in quanto non erano state individuate fonti che potessero indicare sanzioni specifiche per il comportamento negligente tenuto dal richiedente.

Avverso detto decreto, il cittadino gambiano presentava ricorso per cassazione eccependo, tra l’altro: a) violazione degli artt. 14, comma 1, lett. b) d.lgs. 251/2007, e 8, comma 3, d.lgs. 25/2008; b) illogicità, contraddittorietà e mera apparenza della motivazione.

Quanto sopra era basato sul fatto che il giudice aveva rigettato la richiesta di protezione sussidiaria per non essere riuscito ad individuare sanzioni specifiche previste a fronte del comportamento negligente tenuto dal richiedente, malgrado avesse accertato la credibilità del ricorrente, anche rispetto al danno ch’egli subirebbe in caso di rimpatrio, senza però dare conto degli accertamenti eseguiti.

Esaminata la questione, la Corte ha ritenuto fondato il ricorso.

Il giudice della nomofilachia esordisce con un richiamo alla propria posizione relativamente all’art. 8, comma 3, d.lgs. 25/2008, il quale, nella parte in cui dispone che ciascuna domanda deve essere esaminata sulla base di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale del Paese d’origine del richiedente asilo, deve essere interpretato nel senso che «l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale[1]» qualunque sia la forma di protezione internazionale richiesta[2]. In particolare, aggiunge il Supremo Collegio, l’obbligo di acquisizione di tali informazioni comporta un dovere per il giudice di «svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale[3]».

Secondo la Cassazione, dunque, sul giudice chiamato a pronunciarsi su una domanda di protezione internazionale (nella species di protezione sussidiaria) ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. 25/2008, sussiste un obbligo (rectius potere-dovere) di adoperarsi attivamente per l’acquisizione di informazioni aggiornate relative al Paese di provenienza dell’istante, diversamente da quanto avviene nel processo civile ordinario, ne quale l’onere di fornire al giudicante gli elementi di prova su cui basare il proprio convincimento incombe sulle parti.

La Corte, però, non si ferma e ritiene di dover censurare il Tribunale di Milano anche sotto l’aspetto della motivazione.

Chiarito, infatti, che sussiste in capo al decidente un potere-dovere di attivarsi per l’acquisizione delle informazioni necessarie ai fini della propria decisione, la Cassazione soggiunge come «Al fine di ritenere adempiuto il dovere di cooperazione istruttoria, il giudice è tenuto ad indicare specificamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto[4]».

Nello specifico gli ermellini individuano una violazione dell’art. 14, comma 1, lett. b), d.lgs. 251/2007 nella parte in cui il Tribunale, premessa l’intrinseca credibilità del narrato del ricorrente, ha escluso che ricorressero i presupposti per la concessione della protezione sussidiaria – sostenendo tra l’altro che non sono state individuate fonti che potessero indicare sanzioni specifiche per il comportamento negligente tenuto dal richiedente – senza procedere ad una rigorosa indicazione delle fonti in base alle quali avesse svolto l’accertamento richiesto e per non avere lo stesso «esplicitato se e come sia stato attivato il potere istruttorio per acquisire le notizie ed informazioni necessarie per valutare la sussistenza del rischio paventato dal ricorrente» (così l’ordinanza in commento).

Ad avviso della Suprema Corte, questa circostanza integra un vizio motivazionale, nella species di motivazione meramente apparente, non palesandosi la motivazione stessa idonea a far conoscere l’iter seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento[5].

Pertanto, la Corte ha cassato il decreto e rinviato ad altra sezione del Tribunale di Milano.


[1] Cass., 21 novembre 2018, n. 30105.
[2] Cfr. Cass., SS.. UU., 3 novembre 2016, n. 22232.
[3] Cass., 25 luglio 2018, n. 19716
[4] Così, testualmente, la pronuncia in commento.
[5] Sulla motivazione apparente, si veda Cass., SS.. UU., 3 novembre 2016, n. 22232.

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