Il giudicato penale: fra ne bis in idem ed efficacia extrapenale
L’analisi del momento esecutivo di una sentenza penale e – oggetto della presente disamina – gli effetti che la stessa va ad esplicare, necessitano di una digressione che spieghi a grandi – grandissime – linee, l’iter che conduce al momento stesso.
Un procedimento penale ha inizio in seguito alla venuta a conoscenza di una notizia di reato che dà l’inevitabile avvio alla prima fase dello stesso, ergo alla fase delle indagini preliminari. Il momento formale di inizio è da rinvenirsi, ex art. 335 c.p.p., nella sua iscrizione all’interno del registro notizie di reato mentre quello sostanziale è, invero, di difficile individuazione, dal momento che un P.M. potrebbe, per svariate ragioni, iniziare ad indagare anche senza averla regolarmente iscritta (questo, meramente, per guadagnare ulteriore tempo, considerando che tale fase non può prolungarsi sine die ma ha una sua – ragionevole – durata).
Tale fase consta di una serie di atti e di fatti concatenati fra di loro – “concatenati” poiché avvinti da un nesso logico – in cui tanto una Polizia giudiziaria (nei limiti) quanto un P.M. (con i suoi limiti) – cui si è oggi aggiunto anche un difensore – hanno facoltà di svolgere determinati atti stabiliti tassativamente dalla legge per poter verificare la fondatezza o meno della notizia di reato pervenuta.
Supponiamo lo svolgimento di tanti o di tutti degli atti che la legge mette a disposizione, supponiamo un P.M. che termina la fase delle indagini preliminari ma che non decide di procedere con una richiesta di archiviazione bensì con un esercizio dell’azione penale, ex art. 50 c.p.p.
Siamo subentrati in un vero e proprio processo penale: il P.M. è convinto non soltanto della lesione ad un bene giuridico ma ha anche verosimilmente individuato il presunto autore della stessa.
Supponiamo ora lo svolgimento dei tre – ordinari – gradi di giudizio ovvero all’ipotesi in cui i termini per poter impugnare siano (ad es. dopo lo svolgimento del solo primo grado di giudizio) scaduti senza che l’imputato si sia tempestivamente attivato: cosa avviene ora?
Siamo nell’ambito del diritto dell’esecuzione: esecuzione che rappresenta la fase immediatamente successiva all’irrogazione della pena, nel corso della quale viene data concreta attuazione alle statuizioni contenute nella sentenza.
Esecuzione che reca con sé due importanti tematiche: non solo le modalità esecutive di una sentenza (Chi la deve eseguire? Come va eseguita?) ma anche cosa avviene dopo che la sentenza sia stata effettivamente eseguita, ergo la tematica del Diritto penitenziario (Come viene regolata la vita all’interno dell’istituto penitenziario? Come viene realizzata la funzione rieducativa della pena?).
Ma abbiamo tralasciato il passaggio intermedio: anzitutto quando può essere eseguita una sentenza ed in secondo luogo, quali sono gli effetti di una sentenza penale? Siamo approdati al nodo cruciale della trattazione: il Giudicato penale.
Procedendo con ordine, a rigor di logica occorre chiedersi quando, anzitutto, una sentenza possa essere eseguita.
In un ordinamento giuridico marchiato dalla presunzione di non colpevolezza dell’imputato e dalla possibilità di usufruire di ben tre gradi di giudizio, la fase esecutiva ha inizio nel momento in cui la sentenza diviene irrevocabile, nel senso che non è più soggetta a impugnazione.
Il quando una sentenza acquisti tale veste ci viene esaustivamente offerto dall’art. 648 c.p.p., secondo cui: “Sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Se l’impugnazione è ammessa la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. Il decreto penale di condanna è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile.”
La norma de qua è abbastanza esaustiva e chiara da sé e merita poche spiegazioni che, comunque, è opportuno operare.
Il primo periodo dell’articolo è piuttosto intuitivo: la sentenza diviene irrevocabile nel momento in cui sono stati “inutilmente” esperiti tutti e tre i gradi, ordinari, di giudizio che l’ordinamento mette a disposizione. Da sottolineare “ordinari”, poiché come già annunciato nella stessa norma, debbono essere stati esperiti tutti i gradi di giudizio fatta eccezione per la revisione, mezzo di impugnazione straordinario proprio perché esperibile solo in seguito al passato in giudicato della sentenza.
Per esser chiari: un soggetto in seguito all’ultimo grado di giudizio, ergo in conseguenza dell’ultima sentenza emessa ad opera della Corte di Cassazione, viene attinto da ordine di esecuzione. Se in seguito alla stessa dovessero, a titolo esemplificativo (poiché non è l’unico caso), essere emersi degli elementi – rectius, delle prove – tali da mettere in discussione quanto emerso sino a quel momento e che ha portato alla condanna dello stesso, si può chiedere la revisione del processo.
Secondo e terzo periodo ci pongono invece di fronte all’altra eventualità e cioè all’ipotesi in cui, in seguito a sentenza di condanna in primo grado, al condannato (che ancora non deve scontare la sua pena) viene dato un congruo lasso di tempo – lasso di tempo che varia a seconda che la motivazione della sentenza sia contestuale alla lettura (quindi, alla pubblicazione) della stessa oppure no – per poter impugnare; termini che dovrebbero essere perfettamente conosciuti dai soggetti legittimati e decorsi inutilmente i quali la sentenza diviene irrevocabile con conseguente esecuzione della stessa.
Ai fini della disamina dell’argomento oggetto di trattazione, la tematica –estremamente vasta – dell’esecuzione, ci interessa nei limiti di cui sopra.
Ora, la sentenza è passata in giudicato, è divenuta irrevocabile quindi è conseguentemente esecutiva.
Ma ponendoci con lo sguardo un attimo prima rispetto al momento esecutivo vero e proprio, qual è l’effetto di una sentenza penale? Cosa comporta esattamente, tanto nell’ambito penale quanto in quello extrapenale?
Vi è da precisare come si tratti di tematiche completamente diverse: <<a ben vedere, se l’esecuzione costituisce la concreta attuazione da parte degli organi dello Stato preposti, anche contro la volontà dell’interessato, del comando espresso nel dispositivo del provvedimento giurisdizionale esulerebbero[i]>> <<dal “campo” esecutivo sia il ne bis in idem, sia la c.d. efficacia extrapenale del giudicato i quali non rappresentano una specifica statuizione della sentenza, ma conseguono ex lege al provvedimento inteso come “fatto giuridico” o all’”accertamento” ivi contenuto>>.[ii]
<<Il libro X del codice, tuttavia, include anche gli effetti che il giudicato è destinato a produrre sul piano sostanziale nell’ambito dell’esecuzione ed in omaggio a tale sistematica – sia pur con la doverosa premessa che si tratta di fenomeni differenti rispetto a quelli afferenti all’attuazione del comando contenuto nel provvedimento da eseguire – occorre comunque attenersi>>.[iii]
Ergo, giungendo al nocciolo della questione, il giudicato penale produce due diversi effetti: il primo è di carattere negativo e ci immette all’interno del principio del c.d. “Ne bis in idem”, ex art. 649 c.p.p. secondo cui l’imputato che è stato già giudicato, a prescindere da quale sia la formula della decisione, non può essere sottoposto ad un secondo procedimento per il medesimo fatto, ancorché diversamente qualificato “per titolo, grado o circostanza”.
Da quanto su esposto, emerge un primo importante ordine di problema relativo non tanto al bis quanto piuttosto all’idem factum poiché, quando si può effettivamente stabilire che un fatto sia identico ad un altro?
L’art. 649 c.p.p. ci dice che ancorché venga modificato il titolo, il grado ovvero le circostanze del reato ciò che rileva è che la condotta, che dovrebbe in ipotesi esser giudicata in due differenti processi, è identica.
In secondo luogo, il bis cui la norma fa riferimento è certamente quello penale in cui è stata già emessa una sentenza avente ad oggetto lo stesso, identico, fatto.
Che il bis si riferisse esclusivamente ad un processo penale è stato da sempre un punto fermo tanto della nostra dottrina quanto della giurisprudenza; dottrina e giurisprudenza il cui principio è stato però puntualmente demolito dalla Corte di giustizia europea e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui, il ne bis in idem, opera anche con riferimento a decisioni in sede amministrativa. Rilevano infatti talune fattispecie di reato punite tanto nell’ambito amministrativo che in quello penale; ora, quando sullo stesso fatto può essere applicata tanto la sanzione amministrativa che quella penale e i due procedimenti hanno per oggetto la medesima condotta, chi per primo applica la sanzione ha consumato il potere repressivo.
E infine, qual è la sentenza che vincola il giudice italiano? Rectius, da chi deve essere stata emessa questa sentenza affinché il giudice venga vincolato da essa? Anche in questo caso l’art. 649 c.p.p. tace sul punto ma sottintende che debba trattarsi di sentenza emessa dalla giurisdizione italiana.
A questo punto, può esistere un ne bis in idem internazionale? E per meglio intenderci: se Tizio commette il reato di traffico di stupefacenti fra Italia, Francia e Germania e per puro caso viene arrestato in Italia, Tizio, può subire un secondo processo, per lo stesso identico fatto, in Germania o Francia?
Supponiamo che la sentenza sia stata emessa definitivamente in Italia, è possibile riconoscere il ne bis?
La risposta ci viene offerta nuovamente dalla Corte di giustizia europea che ha stabilito come, esattamente al pari delle persone che, in seguito all’accordo di Schengen possono liberamente circolare, così anche le decisioni.
Il che vuol dire, conseguentemente, che le decisioni emesse nell’ambito di uno Stato membro vanno a vincolare gli altri Stati.
E passiamo ora all’analisi dell’altro effetto del giudicato penale, quello di carattere positivo, ergo, agli effetti extrapenali della sentenza.
Anzitutto, in via di principio, le sentenze che possono vincolare il giudice civile ovvero amministrativo sono quelle emesse all’esito del dibattimento che possono essere di assoluzione ovvero di condanna.
Occorre analizzarle singolarmente, poiché foriere di diverse conseguenze.
Partendo dalle sentenze di condanna, ciò che può andare a creare un vincolo al giudice extrapenale sono gli accertamenti effettuati in sede penale per poter arrivare all’emissione della sentenza; in questo caso, l’accertamento del fatto stesso, ergo, che l’imputato lo ha commesso.
Per cui, ex art. 651 c.p.p., la sentenza di condanna emessa all’esito del dibattimento pregiudica – sempre – l’imputato e il vincolo posto al giudice extrapenale è rappresentato dall’accertamento di cui sopra ancorché, si badi bene, il danneggiato non si sia neppure costituito parte civile. Ergo, al danneggiato, una sentenza di condanna, gioverà sempre.
Ma, come ben noto, l’art. 186 c.p.p. statuisce come anche in sede penale esista la responsabilità civile. Abbiamo quindi aggiunto, sulla scena del processo, il c.d. “responsabile civile”, ove per responsabile civile noi intendiamo una parte assolutamente eventuale del processo e cioè colui che, se citato, è obbligato a risarcire il danno cagionato dal soggetto autore del reato, l’imputato. Si tratta di un soggetto che, pur non avendo contribuito alla realizzazione del reato deve provvedere al risarcimento: il responsabile civile è difatti obbligato in solido con l’imputato (es: il genitore con il figlio).
In passato, l’accertamento penale fatto nei confronti dell’imputato era pregiudizievole, sempre, anche nei confronti del responsabile civile.
Oggi, è possibile che quella determinata sentenza lo pregiudichi ma a patto che abbia presenziato al contraddittorio fra le parti, ergo, sia stato citato ovvero vi abbia partecipato volontariamente.
Passiamo ora all’analisi dell’emissione di una sentenza di assoluzione, che deve però essere in questo caso osservata dall’angolo prospettico del danneggiato.
Anzitutto, una sentenza di assoluzione vincola il giudice civile allorquando il danneggiato sia stato citato in sede penale e abbia deciso di non costituirsi parte civile; il che vuol dire, essere consapevole di subire anche gli effetti di una – eventuale – sentenza di assoluzione.
Se, invece, avendo già intrapreso azione civile in sede civile decidesse, nel momento di citazione, di non trasferire azione civile in sede penale, non verrebbe mai intaccato dalla decisione emessa in ambito penale. Se, viceversa, dovesse decidere di trasferire la sua azione, sarebbe ben consapevole di subire – in ogni caso – gli effetti del giudicato.
Inoltre, se il danneggiato riceve notifica per poter partecipare al processo penale e la sua azione non si è ancora prescritta, deve esercitare l’azione civile prima che venga emessa sentenza penale, poiché altrimenti la sua azione verrà sospesa e subirà integralmente gli effetti del giudicato penale.
Una piccola attenzione va inoltre e infine riservata all’art. 651-bis c.p.p., introdotto a seguito dell’art. 131-bis c.p.p., rubricato “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”.
Ora, la sentenza di non luogo a procedere che viene emessa per particolare tenuità del fatto, benché di assoluzione, contiene al suo interno l’accertamento della sussistenza di un fatto penalmente rilevante per cui il legislatore attribuisce comunque efficacia extrapenale alla decisione di “non rilevanza penale”.
[i] A. DIDDI, L’esecuzione e il diritto penitenziario, Pacini Giuridica, 2017, p. 23.
[ii] B. LAVARINI, L’esecutività della sentenza penale, Giappichelli, 2004, p.2.
[iii] A. DIDDI, L’esecuzione e il diritto penitenziario, Pacini Giuridica, 2017, p. 23.
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Domenica Gasparro
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