Il licenziamento per inidoneità fisica del lavoratore: quali condizioni?
Con l’assai recente pronuncia n. 18556 del 10 luglio 2019 la Suprema Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) è tornata a pronunciarsi su un tema particolarmente delicato e discusso dagli interpreti, ossia le condizioni di legittimità di un provvedimento espulsivo comminato dal datore di lavoro in ragione della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni per le quali era stato precedentemente assunto.
Occorre, in tal senso, premettere che, come è noto, tra le varie ipotesi di licenziamento appositamente disciplinate dal Legislatore, accanto al caso in cui il lavoratore ponga in essere condotte di rilievo disciplinare (circostanza che si presta alla comminazione di un recesso per giustificato motivo soggettivo ovvero per giusta causa), al datore è, altresì, concesso di allontanare il prestatore di lavoro per giustificato motivo oggettivo, ossia ogniqualvolta ciò sia reso necessario dall’insorgenza di particolari “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (si veda, in questo senso, l’articolo 3 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, rubricata “Norme sui licenziamenti individuali”). Ebbene, nonostante ad una prima lettura del quadro normativo di riferimento le ragioni legittimanti quest’ultima tipologia di licenziamento parrebbero risultare sempre estranee alla persona del lavoratore, occorre sottolineare come, invero, la stessa disciplina si applichi, altresì, ad ulteriori ipotesi nell’ambito delle quali si verifichi effettivamente un inadempimento del contratto di lavoro da parte del dipendente, ma detta circostanza non possa, per varie ragioni, essere imputabile a quest’ultimo; e, in questo senso, l’eventualità più frequentemente oggetto di contenzioso attiene, appunto, alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni. Si segnala, al riguardo, che ulteriori – e totalmente esemplificative – fattispecie sono rappresentate dal ritiro della patente di guida di un soggetto chiamato all’utilizzo di veicoli per l’esecuzione della propria prestazione o, ancora, al caso del ritiro del porto d’armi, ad esempio, di una guardia giurata.
Orbene, nell’ambito della controversia in commento, una società veniva a conoscenza del fatto che un proprio dipendente fosse divenuto inidoneo in maniera permanente all’esecuzione di buona parte delle proprie mansioni e, segnatamente, dell’attività di “montaggio, stampaggio metallico, rifilatura flessibile ed integrale, schiumatura flessibile ed integrale in situ” e ciò in virtù dell’accertamento di una particolare patologia. Il datore, pur potendo dar luogo ad una riorganizzazione del lavoro che consentisse al dipendente di svolgere – in un reparto diverso rispetto quello in cui era addetto – quanto meno le mansioni non incompatibili con la malattia insorta, decideva, in ogni caso, di licenziare il soggetto per giustificato motivo oggettivo. A tale scelta, conseguiva la proposizione di un ricorso innanzi al giudice del lavoro da parte del lavoratore, il quale otteneva un’effettiva tutela in primo grado, ma, in sede di impugnazione, la pronuncia veniva riformata dalla Corte d’Appello, che dichiarava la legittimità del provvedimento espulsivo intimato dalla società.
Investita della questione, la Corte di Cassazione è stata, in primo luogo, chiamata a dirimere la questione circa il peso da attribuire alla richiamata possibilità di riorganizzazione da parte del datore e al sacrificio che, in generale, possa imporsi a quest’ultimo. A tale proposito, il supremo giudice ha affermato che “in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore” è senz’altro sussistente un obbligo posto in capo alla società di dar luogo ad una “previa verifica… della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro”, tuttavia a ciò non consegue la necessaria imposizione di sacrifici eccessivi. Infatti, continua la Corte, detti adattamenti organizzativi devono comportare “un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa”. Peraltro, occorre prendere in considerazione anche gli altri lavoratori alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, i quali non devono risultare particolarmente penalizzati dalla nuova scelta organizzativa. Al riguardo, invero, la Cassazione ha espressamente puntualizzato che la riorganizzazione non può che essere (ove possibile) realizzata nel “rispetto dei colleghi dell’invalido”.
Ancorando i principi richiamati al caso concreto, dunque, la Suprema Corte ha avuto modo di constatare, da un lato, l’impossibilità di assegnare nuove mansioni al lavoratore in oggetto senza una totale riorganizzazione del reparto di riferimento da parte dell’impresa; operazione che, secondo il giudice, non avrebbe potuto esserle imposta, a meno di incorrere in una “indebita ingerenza nell’insindacabile valutazione rimessa al datore di lavoro e tutelata dall’art. 41 Cost.”. Sotto altro profilo, poi, la stessa scelta avrebbe comportato una penalizzazione degli altri prestatori e, nello specifico, “un aggravamento della posizione dell’intero gruppo degli altri addetti… tenuti alla rotazione su postazioni più impegnative, con il conseguente maggior rischio a loro carico”.
Alle citate argomentazioni è seguito il rigetto del ricorso promosso dal dipendente e, quindi, la conferma della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato.
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Fabio Goffi
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