Il matrimonio di una donna islamica con un italiano
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’ordine pubblico – 3. Le decisioni dei tribunali
1. Introduzione
A seguito dei recenti fenomeni migratori, l’Italia si sta confrontando con il problema dell’integrazione nel proprio sistema normativo e sociale di consuetudini e istituti palesemente in conflitto con la tradizione giuridica locale.
Il riferimento è, anzitutto, agli usi e alle norme islamiche, che i sempre più numerosi stranieri musulmani presenti nel territorio italiano vorrebbero rispettati.
Si tratta di valori, precetti e norme che investono la vita spirituale, ma spesso anche la vita familiare nei rapporti tra coniugi, genitori e figli e che hanno necessariamente risvolti nella vita sociale.
In particolare, ogni qualvolta una donna islamica voglia sposare un italiano l’ufficiale dello stato civile viene a trovarsi di fronte alla regola secondo la quale la donna musulmana non può sposare un non musulmano.
Tale divieto si fonda sul seguente versetto coranico: “Non date in spose donne credenti a idolatri finché essi non abbiano creduto, perché lo schiavo credente è meglio di un uomo idolatra, anche se questi vi piaccia” (Corano II, 221).
La ratio di tale divieto risiede nella constatazione che la donna viene, a seguito del matrimonio, inevitabilmente attratta nella famiglia del marito.
Non si vuole, dunque, che una donna musulmana esca dalla comunità islamica andando in sposa ad un uomo di diversa fede religiosa.
Nessuna legge, invece, impedisce agli uomini musulmani di sposare donne appartenenti ad altre fedi religiose.
In linea generale, i requisiti necessari per contrarre matrimonio sono disciplinati dalla legge nazionale di ciascuno dei nubendi.
Il primo comma dell’art. 23 della l. n. 218/1995, disponendo che “la capacità di agire delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale”, statuisce il dovere del rispetto degli ordinamenti dei paesi stranieri di appartenenza in relazione alle diverse azioni che il cittadino ha facoltà di compiere nello Stato.
Tale assunto si completa con il successivo articolo 27 secondo cui “la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio. Resta salvo lo stato libero che uno dei due nubendi abbia acquistato per effetto di un giudicato italiano o riconosciuto in Italia”.
Dunque, il diritto internazionale privato italiano rimanda, per la disciplina dei vari istituti di diritto di famiglia, al diritto dello stato nazionale degli interessati o, in via sussidiaria, al diritto dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata.
In presenza di rapporti familiari che interessino uno o più individui appartenenti a stati islamici, o che siano ivi prevalentemente localizzati, è la legge religiosa, cui molti stati islamici affidano la disciplina del diritto di famiglia, che il giudice italiano, o altra pubblica autorità viene chiamato ad applicare, dopo averne verificato la compatibilità con l’ordine pubblico.
Ai sensi dell’art. 116 del c.c. il cittadino straniero che intende contrarre matrimonio in Italia deve, in primo luogo, presentare una dichiarazione dell’autorità competente del suo paese attestante che, secondo la legge di quello stato, nulla osta al matrimonio; in secondo luogo deve rispettare alcune delle condizioni relative alla capacità di contrarre matrimonio dei cittadini italiani (libertà di stato, divieto di matrimonio per coloro che sono legati da vincoli di parentela e affinità).
La previsione del nulla osta non intende limitare, ma anzi facilitare l’esercizio della libertà matrimoniale costituendo la prova privilegiata della sussistenza in capo allo sposo straniero della condizione per contrarre matrimonio previste dalla sua legge nazionale.
Tale atto certificativo, con valore di nulla osta, incide sua sugli adempimento preliminari al matrimonio, quali le pubblicazioni, sia su quelli successivi, come la trascrizione.
Dall’analisi delle norme sostanziali si evince il comune rinvio alla legge nazionale dello straniero. Ma quest’ultima potrebbe non prevedere una norma analoga all’art. 116 c.c. e qualificare l’appartenenza di uno degli sposi ad un diverso credo religioso come un impedimento alle nozze e quindi legittimamente prescrivere il non rilascio del nulla osta.
2. L’ordine pubblico
In mancanza del nulla osta l’ufficiale dello stato civile non potrebbe procedere alla celebrazione del matrimonio, salvo assumersi la responsabilità di invocare il limite dell’ordine pubblico essendo il diniego del nulla osta su basi religiose contrario al principio di non discriminazione sancito dalla nostra Costituzione (art. 3) sia da numerosi trattati internazionali per la salvaguardia dei diritti umani.
Si ricorda, in particolare, l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione”, quale diritto di sposarsi e fondare una famiglia, garantito dall’art. 12, “deve essere assicurato senza discriminazione alcuna e segnatamente di sesso e di religione”.
Detto principio di non discriminazione rientra dunque, attraverso l’adattamento alla Convenzione Europea con la l. n. 848/1955, nel nostro ordine pubblico: il suo eventuale misconoscimento, anche indiretto, potrebbe esporre il nostro paese al rischio di censure da parte della Corte Edu.
Nel caso di divieto della donna musulmana di sposare un non musulmano, l’ordine pubblico può giustificare la mancata produzione del nulla osta al matrimonio richiesto, a tutti gli stranieri, dall’art 116 del codice civile: la dispensa, da parte dell’ufficiale di stato civile, della produzione di tale documento, appare giustificata dal fatto che di fronte ad un matrimonio misto le autorità nazionali dei nubendi ne rifiutano il rilascio.
Il fine primario dell’ordine pubblico è quello di preservare l’armonia interna dell’ordinamento, precludendo l’applicazione da parte del giudice italiano di norme straniere suscettibili di produrre effetti inaccettabili, ossia effetti non compatibili con i principi etici, economici, politici e sociali che condizionano il modo di essere degli istituti del nostro ordinamento giuridico: in ogni campo della convivenza sociale, dalle relazioni familiari a quelle di lavoro a quelle commerciali.
Questo strumento trova espressione nell’art. 16 co. 1 della l. n. 218/1995 secondo cui “la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. In tal caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana”.
L’esempio degli impedimenti matrimoniali di ordine religioso, oltre ad essere di estrema attualità, testimonia la difficoltà di contemperare l’armonia interna e il rispetto delle diverse identità culturali. Se da un lato non è infatti concepibile una chiusura sistematica del nostro ordinamento di fronte a leggi che rispecchiano culture differenti, dall’altro il coordinamento tra i vari ordinamenti, che pure deve ispirarsi al rispetto delle diverse identità culturali, non può prescindere dal rispetto di alcuni principi universali di ordine pubblico “realmente internazionale” in quanto propri della Comunità degli Stati.
Tali principi, tra i quali sono da annoverare quelli che assicurano la tutela dei diritti inviolabili della persona, sanciti dalla Dichiarazione universale del 1948 e ripresi da molti trattati universali, dovrebbero essere presenti ai giudici di tutti gli Stati almeno di quelli i cui ordinamenti si conformano ai valori universalmente accettati.
Tra tali principi spiccano l’uguaglianza e la non discriminazione, in particolare a motivo del sesso o della religione. È questa una ragione ulteriore per cui il giudice italiano dovrebbe opporre il limite dell’ordine pubblico all’applicazione di leggi straniere, che prevedano impedimenti al matrimonio su basi religiose.
Del resto, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo aver sottolineato la differenza tra libertà di coscienza individuale e libertà di instaurare e mantenere rapporti di diritto privato, che in quanto tali coinvolgono l’organizzazione e il funzionamento della collettività statale, ha riconosciuto che uno Stato può legittimamente disapplicare al proprio interno regole di diritto privato (straniero) di origine religiosa che turbino l’ordine pubblico e i valori democratici dello Stato stesso, quali le regole che implicano discriminazioni, basate sul sesso o sulla religione, degli interessati.
Analogamente, presenti ai giudici di tutti gli Stati membri dell’Unione europea dovrebbero essere alcuni principi che costituiscono la ragion d’essere dell’Unione medesima e dell’appartenenza ad essa degli Stati, quello, per esempio, della parità di trattamento per i cittadini di tutti gli Stati membri. Come si legge nella Relazione Giuliano e Lagarde, esplicativa della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, è infatti “evidente che (l’espressione ordine pubblico) include l’ordine pubblico comunitario divenuto parte integrante dell’ordine pubblico degli Stati membri della Comunità europea”.
Il giudice, nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, deve tener conto delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto comunitario. Ciò peraltro non significa che soltanto quest’ultima specie di principi, in quanto internazionalmente condivisi, possa venire impiegata per dar corpo all’eccezione di ordine pubblico.
La clausola di ordine pubblico rappresenta un limite successivo rispetto all’operare del diritto internazionale privato.
Essa è infatti destinata a funzionare quando la norma di conflitto ha già condotto all’ordinamento straniero e all’interno di questo, seguendo i canoni di interpretazione che di quell’ordinamento sono propri, si è pervenuti all’individuazione della norma applicabile alla fattispecie.
È a questo punto che la clausola di ordine pubblico interviene richiedendo al giudice non già di esprimere un giudizio di valore, astratto e di principio, sulla “bontà” dell’ordinamento richiamato in generale e neppure sui contenuti della specifica disposizione di quell’ordinamento che dovrebbe applicarsi al caso di specie, bensì una valutazione concreta degli effetti, come del resto è detto testualmente nell’art. 16, che dall’applicazione della disposizione suddetta deriverebbero nel nostro ordinamento.
Sono questi effetti, appunto, l’altro polo del raffronto che la clausola di ordine pubblico prescrive al giudice di compiere. Se il giudice reputa che detti effetti urtino contro uno dei principi cardine del nostro ordinamento, non applica la disposizione straniera.
Resta così aperto il problema della determinazione della specifica regola che il giudice, non potendo evidentemente rifiutarsi di giudicare, dovrà porre a base della propria decisione.
3. Le decisioni dei tribunali
Nella prassi, l’ufficiale dello stato civile, ai sensi dell’ art. 98, co. 1, c.c. rifiuta la pubblicazione delle nozze, costringendo così i nubendi a ricorrere alla magistratura.
Diversi sono i casi in cui cittadine di Paesi musulmani, che volevano contrarre matrimonio con italiani, si sono viste rifiutare dall’autorità consolare presente nel nostro Paese il nulla osta, per la mancanza di atti comprovanti l’avvenuta conversione all’Islam del futuro sposo; conseguenza di questa circostanza è proprio il diniego dell’ufficiale dello stato civile italiano di procedere alla pubblicazione del matrimonio.
Ex art. 98, co. 2, è però possibile fare ricorso contro tale diniego, affinché l’autorità giudiziaria possa valutare i motivi che sono stati alla base della decisione del pubblico ufficiale.
L’orientamento ormai consolidato è quello di accogliere i ricorsi proposti sulla base della constatazione che nel caso di specie il riconoscere efficacia alla legge straniera regolatrice le condizioni per contrarre matrimonio comporterebbe una lesione dell’ordine pubblico, in quanto pretendere la conversione all’islam dello sposo come condizione per l’ottenimento del nulla osta, significherebbe violare il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa e il diritto a non subire discriminazione per motivi di religione, diritti sanciti rispettivamente dagli artt. 19 e 3 della Costituzione.
Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi sono noti ormai una decina di decreti emessi dai vari tribunali, con cui viene disposta la pubblicazione delle nozze con dispensa dalla produzione del certificato di cui all’art. 116, primo comma, c.c.
Con circolare dell’ 11-09-2007 n. 46, il Ministero dell’Interno ebbe a segnalare come le Autorità straniere di alcuni paesi, in particolare il Marocco, rilasciassero il nulla osta al matrimonio subordinandola alla specifica condizione della conversione del nubendo, non appartenente allo Stato emittente il nulla osta, alla fede musulmana.
“A tal proposito si fa presente che l’ufficiale dello stato civile non dovrà tener conto di una simile condizione in quanto palesemente contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Infatti la normativa costituzionale prevede l’assoluta libertà di fede religiosa e non consente di limitare in alcun modo l’istituto del matrimonio in dipendenza della fede religiosa di uno o di entrambi i coniugi. Pertanto l’ufficiale di stato civile dovrà procedere alle pubblicazioni di matrimonio senza tener conto della condizione relativa alla fede religiosa, eventualmente contenuta in detti nulla-osta”.
Datosi, infatti, che in Italia la normativa costituzionale prevede e garantisce l’assoluta libertà di fede religiosa, la condizione della conversione all’islamismo non può costituire un vincolo alla capacità matrimoniale di alcuno; tale pretesa costituisce, infatti, elemento contrario ai principi di eguaglianza e libertà di culto previsti dalla legislazione italiana.
La Convezione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, ratificata e resa esecutiva con la l. 14-03-1985 n. 132, sancisce il dovere di predisporre misure adeguate per eliminare le discriminazioni nei confronti della donna in tutte le problematiche riconducibili alla libertà matrimoniale e ai rapporti familiari, assicurando anche il diritto di contrarre matrimonio, di scegliere liberamente il proprio congiunto e di contrarre matrimonio soltanto con libero e pieno consenso.
A livello politico nel 2005 è stata istituita una Consulta per l’islam italiano presso il ministero dell’Interno. Alla Consulta, composta da uomini e donne di cultura e religione islamica, da studiosi ed esperti, sono stati attribuiti compiti di ricerca e approfondimento, di formulazione di pareri e proposte “al fine di favorire il dialogo istituzionale come le comunità musulmane d’Italia, migliorare la conoscenza delle problematiche di integrazione allo scopo di individuare le più adeguate soluzioni per un armonico inserimento delle comunità stesse nella comunità nazionale, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica”.
Il 7 marzo 2006 è stato elaborato in seno alla Consulta il “Manifesto dell’islam in Italia”.
Nel Manifesto viene dichiarato “il valore universale che sancisce la piena eguaglianza e gli stessi diritti tra uomo e donna” e che rispetto alla donna venga dichiarato esplicitamente il principio di non discriminazione “qualunque sia la motivazione addotta”.
La Consulta chiede espressamente “che vengano adottati i necessari provvedimenti giuridici e normativi atti a tutelare le donne immigrate musulmane da ogni forma di violenza e discriminazione all’interno della famiglia, sia all’interno di alcune comunità”.
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Silvia Causa
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