Il minore reo e le misure penali di comunità

Il minore reo e le misure penali di comunità

Sommario: 1. Introduzione – 2. Dalla riforma dell’ordinamento penitenziario all’entrata in vigore della disciplina dell’esecuzione penale minorile – 3. Conclusioni

1. Introduzione

Con l’entrata in vigore del d.lgs. 121 del 2 ottobre 2018, a ben quarantatré anni dall’emanazione della legge 354/1975 (ordinamento penitenziario), anche la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni ottiene un provvedimento ad hoc.

Fino a quel momento la disciplina dedicata alla giustizia minorile era stata perlopiù frammentaria, a causa del disallineamento diacronico della normativa di settore, comportando un vuoto di garanzie proprio per il cittadino più bisognoso di tutele, in ragione della vulnerabilità determinata dalla minore età.

La giustizia minorile non è, invero, espressamente citata dalla Costituzione, se non nei riferimenti che indirettamente richiamano i rafforzati bisogni di tutela per questa categoria di detenuti, con riferimento agli artt. 2, 13, 27 e 31 della Carta.

Un primo e diversificato assetto fu dato dal regio decreto legge 1404/1934, istitutivo dei Tribunali dei minorenni, cui seguì nel 1971 un ulteriore provvedimento di riorganizzazione, con l’istituzione dei riformatori giudiziari, riformatori per corrigendi, carceri minorili e centri di osservazione.

Linfa vitale alla disciplina è stata data nel tempo dagli interventi della Corte Costituzionale che, con numerose pronunce, è riuscita ad armonizzare la materia ai principi costituzionali.

Con la pronuncia n. 25/64 la Consulta ha chiarito che la giustizia minorile deve avere una autonoma e particolare struttura per garantire la rieducazione dei minori. In seguito, con sentenza costituzionale n. 46/78, è intervenuta per affermare che per i minori deve rappresentare l’extrema ratio il ricorso al carcere, cui vanno preferite misure alternative o di diversion, secondo il principio di minore offensività della pena.

A caldeggiare una giustizia minorile specializzata ed autonoma rispetto alla disciplina per adulti, nonché ispirata ai principi di protezione dell’integrità psicofisica e alternatività della pena da calibrare sulle effettive esigenze del minore, sono state le fonti sovranazionali.

In particolare, le Regole penitenziarie dell’amministrazione della giustizia minorile del 1985 (cd. Regole di Pechino, la Convenzione ONU dei diritti del fanciullo del 1989 e la Direttiva 2016/800/UE, concernente le garanzie procedurali per indagati ed imputati minorenni.

In questo lungo periodo fiorisce anche una ricca produzione civilistica e penalistica a tutela della condizione del minore, si pensi, per esempio, in ambito civile alla riforma del diritto di famiglia e alle leggi sull’adozione; in ambito penalistico alla normativa di tutela contro abusi e sfruttamento sessuale (legge 66/1996), ispirate al principio guida del “best interests of the child, introdotto dalla Convenzione dei diritti del fanciullo quale architrave della politica di tutela del minore d’età.

2. Dalla riforma dell’ordinamento penitenziario all’entrata in vigore della disciplina dell’esecuzione penale minorile

Con l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario nel 1975  il minore era rimasto in ombra, fatto salvo qualche marginale richiamo in riferimento agli elementi del trattamento e con l’indicazione, contenuta nell’art. 79 della legge, che la disciplina si applicava anche nei confronti dei minori di anni diciotto, fino a quando non si fosse provveduto con apposita legge.

Il legislatore, dunque, si assumeva l’onere di colmare il vuoto normativo con la legge 354/75, pur implicitamente dichiarandone l’inadeguatezza.

Col d.p.r. 448/1988 finalmente si disciplinò il rito minorile, tuttavia limitatamente alla fase di cognizione del processo, senza riferimento alcuno all’esecuzione delle pene, che restavano ancorate alle disposizioni del codice penale, del codice di procedura penale e della legge 354/1975.

Soltanto con la legge 103/2017 si previde la necessità di un urgente intervento legislativo in materia di esecuzione penale minorile, articolato su tre direttrici fondamentali: l’eliminazione di ogni automatismo o preclusione per la concessione di benefici o misure alternative; la previsione di misure alternative conformi alle istanze educative dei minori; il rafforzamento dei contatti col mondo esterno, quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale.

Le direttive della legge delega confluirono nel d.lgs. 121/2018, seppur con qualche criticità. Nel decreto sopravvivevano, infatti, gli automatismi preclusivi, ex art. 4 bis legge 354/1975, in relazione all’accesso ai benefici e mancava il riferimento all’affidamento in prova in casi particolari.

Il primo comma dell’art. 1 del d.lgs.121/18 specifica le fonti e fissa il principio di sussidiarietà, con espresso richiamo al codice di procedura penale, alla legge 354/1975, al d.p.r. 230/2000, al d.p.r. 448/1988 e al d.lgs. 272/1989.

Il secondo comma individua gli obiettivi dell’esecuzione penale minorile, statuendo che questa mira a favorire percorsi di giustizia riparativa e mediazione, a stimolare la responsabilizzazione, l’educazione ed il pieno sviluppo psicofisico del minorenne, a prepararlo alla vita libera e all’inclusione sociale, prevenendo anche la recidiva di reato.

Questi rilevanti obiettivi sono perseguiti dal legislatore col ricorso alle misure di comunità, cui affida il ruolo di protagonista dell’esecuzione penale minorile.

La centralità delle misure penali di comunità è già evidente nella collocazione topografica del decreto, al capo II, artt. 2-8, mentre il trattamento intramoenia è posto al capo IV.

Le misure penali di comunità sono modellate sugli istituti delle misure alternative disciplinate dalla legge 354/1975 e successive disposizioni, con poche varianti nella disciplina. L’inedita nomenclatura è spiegata nella relazione illustrativa al d.lgs. 121/2018, laddove si precisa che la denominazione “misure di comunità” è volta a sottolineare l’opzione di sistema e le prospettive verso cui tendere, atteso l’indefettibile ruolo di co-protagonista della comunità sociale. Con questa nuova disciplina il legislatore intende finalmente adeguare l’ordinamento interno alle fonti sovranazionali che promuovono una “giustizia penale idonea a tutelare i primari interessi del minore, dinanzi alle quali le istanze retributive devono arretrare”.

Il decreto 121/2018 regola le misure penali di comunità secondo un ordine di afflittività, prevedendo all’art. 4 l’affidamento in prova al servizio sociale, all’art. 5 l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, all’art. 6 la detenzione domiciliare e all’art. 7 la semilibertà, nonché l’affidamento in prova in casi particolari, sebbene non espressamente disciplinato, se non con una operazione di rinvio al d.p.r. 309/1990.

Degli istituti enunciati, l’unica novità è rappresentata dall’art. 5, che prevede la misura ibrida dell’affidamento in prova con detenzione domiciliare.

L’applicazione delle misure di comunità, demandata al Tribunale di sorveglianza per i minorenni competente per territorio (art. 697 c.p.p.), deve essere orientata da un duplice giudizio prognostico: in primis, verificare che la misura sia idonea a favorire l’evoluzione positiva della personalità ed un proficuo percorso educativo; in secundis scongiurare che il minore possa sottrarsi all’esecuzione o commettere altro reato.

Tutte le misure di comunità devono essere corredate da un programma d’intervento educativo (cd. PIE), che deve dettagliatamente specificare le attività istruttive, di formazione professionale o di utilità sociale che il minore deve seguire. A tal fine, un ruolo di co-protagonista è svolto dall’Ufficio dei servizi sociali per i minorenni (USSM), cui compete il compito di predisporre il PIE da proporre al Tribunale di Sorveglianza, formulato sulla base dell’osservazione della personalità, del grado di maturità, del contesto familiare e del tessuto sociale di provenienza, nonché acquisendo i dati giudiziari e penitenziari, psicologici e sanitari relativi al minore. Tali dati confluiscono, inoltre, nella cartella personale del minore, che lo accompagna durante il periodo della misura e che, in base alle previsioni della circolare DGCM 1/2013, va trasmessa al sistema informativo per i servizi minorili (SISM).

Per la definizione del PIE gli USSM svolgono, inoltre, le inchieste socio-familiari, coordinandosi, per il condannato, coi servizi socio sanitari territoriali, mentre, per il detenuto, con il gruppo di osservazione e trattamento dell’istituto penitenziario minorile (IPM).

Un decisivo ruolo proattivo è, altresì, svolto dallo USSM nell’individuazione del domicilio o altra situazione abitativa idonea all’esecuzione della misura di comunità da parte del condannato minore.

Gli elementi raccolti dall’USSM offrono al giudice una piattaforma cognitiva indispensabile per valutare la concessione della misura extramoenia. Inoltre, il Tribunale può assegnare poteri istruttori d’ufficio, per predisporre opportuni approfondimenti sanitari o sul tessuto socio-familiare, per esempio sui precedenti penali delle persone conviventi col minore.

La scelta della misura da applicare deve essere governata dall’idea guida del minor sacrificio (art. 2, comma 5, d.lgs. 121/2018) e del più rapido reinserimento sociale. A tal fine le prescrizioni contemplate nel PIE dovranno essere non confliggenti coi percorsi educativi in atto, né dovranno compromettere le esigenze di salute e di famiglia.

Quest’ultima è direttamente chiamata a partecipare al progetto educativo e, per renderne proficua la partecipazione, l’art. 3, comma 3, d.lgs. 121/2018, con richiamo espresso all’art. 32, comma 4, d.p.r. 448/1988, consente, nei casi di urgente necessità, di poter adottare in via provvisoria provvedimenti di matrice civilistica a tutela del minore.

Nel complesso, le previsioni degli artt. 2 e 3 del d.lgs. 121/2018, mirano a responsabilizzare il minore: la valenza pedagogica delle condotte attive, compendiate nel programma educativo affidato alla misura di comunità e contestualizzata nella trama dei rapporti socio-familiari, consente al minorenne di intraprendere un percorso di rieducazione, anzi educazione, essendo ancora in fase di consolidamento la sua personalità, così permettendogli anche un più rapido reinserimento nella società.

L’esecuzione extramoenia è governata dal principio di territorialità, per cui le misure di comunità sono eseguite nel contesto di vita del minore, per evitare lo sradicamento. A tale regola deroga, tuttavia, l’eventuale sussistenza di motivi contrari o elementi da cui desumere collegamenti con la criminalità organizzata, i cui contatti vanno recisi con determinazione.

Altra ipotesi di deroga è costituita dalla sussistenza di rapporti familiari insanabilmente conflittuali o connotati da grave marginalità sociale, parimenti deleteri rispetto al percorso di risocializzazione cui è chiamato il minore. In tali casi l’USSM valuterà l’assegnazione in comunità, case famiglia o altre soluzioni possibili, raccordandosi con enti locali e servizi socio-sanitari territoriali.

Le suddette ipotesi derogatorie non appaiono assistite da un sufficiente grado di determinazione, non essendo stati previsti canoni esegetici restrittivi, nel segno di una più estesa discrezionalità valutativa in capo al giudice, in base al principio di rifiuto di automatismi in ambito minorile.

Tale principio è stato anche alla base della sentenza 263/2019, con cui il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art.2, d.lgs. 121/2018, laddove si escludeva la concessione delle misure ai minori condannati per i reati di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Tali automatismi preclusivi sono, infatti, antinomici allo spirito che deve guidare l’esecuzione penale minorile, le cui misure vanno calibrate sulla personalità del minore, senza aprioristiche predefinizioni.

Tra le misure di comunità, quella che più riflette le istanze pedagogiche e risocializzanti, è l’affidamento in prova al servizio sociale, prima del catalogo proprio perché connotata da un grado di minore afflittività.

 Il criterio oggettivo per l’accesso alla misura è legato alla condanna a pena massimo di quattro anni, a differenza dei tre previsti dall’omologa misura alternativa per adulti (art. 47 legge 354/1975), sulla cui disciplina si modella (invero anche per l’adulto esteso a quattro anni nei casi di cui all’art. 47, comma 3 bis, ordinamento penitenziario).

Questa misura presenta caratteri di notevole flessibilità, lasciando al giudice il compito di individuare il corredo di prescrizioni che il minore dovrà eseguire, e l’attività di utilità sociale (volontariato o lavoro di pubblica utilità) idonea ad attenuare il disvalore sociale del reato commesso.

Il preventivo consenso del minore è indispensabile a garantire una condotta collaborativa, presupposto irrinunciabile per l’esito positivo della misura. Con l’ordinanza che dispone l’affidamento in prova ai servizi sociali potrà, inoltre, prevedere prescrizioni facoltative di assistenza familiare ed il ruolo di assistenza e controllo che l’USSM dovrà esercitare.

L’art. 8, cpv, del d.lgs 121/2018 riconosce al Magistrato di Sorveglianza la possibilità di modificare d’ufficio le prescrizioni e di disporre in via provvisoria la sospensione della misura, trasmettendo immediatamente gli atti al Tribunale di Sorveglianza che decide entro trenta giorni.

Rispetto alla misura della misura in prova al servizio sociale, anche il direttore dell’ufficio del servizio sociale può autorizzare deroghe temporanee ai precetti, in base a motivi d’urgenza, dandone notizia immediata al Magistrato di sorveglianza.

Tale previsione rende la disciplina della misura particolarmente dinamica e rispondente alle esigenze educative e risocializzanti del minore, anche per lo stretto legame collaborativo con la comunità sociale.

Per quanto concerne l’affidamento in prova in casi particolari, pur essendo tale misura contemplata dall’art. 2, comma 1, d.lgs. 121/2018, si rinvia per la disciplina alle regole dettate per i condannati tossicodipendenti o alcoldipendenti (art. 49 d.p.r. 309/1990). La misura può essere richiesta in ogni momento, quando deve essere scontata una pena detentiva non superiore a sei anni, e al Tribunale di Sorveglianza è demandato il giudizio prognostico circa l’attitudine della misura a consentire il recupero psicofisico, tenuto conto del programma terapeutico e socio-riabilitativo del minore.

Va precisato che, al fine di assicurare la continuità dell’iter educativo, il Magistrato di Sorveglianza può ordinare la prosecuzione della misura, anche qualora il condannato abbia positivamente completato il programma terapeutico.

Diverse critiche sono state mosse dalla dottrina in riferimento alla misura dell’affidamento in prova in casi particolari per i minori. In primo luogo per l’assenza di una specifica disciplina nel decreto 121/2018, che pertanto inficia il carattere di specialità della disciplina rispetto alla dimensione minorile (così come pure per l’assenza di un istituto di affidamento in prova per patologie psichiatriche, che avrebbe consentito un idoneo trattamento medico del minore). In secondo luogo per l’ingiustificato mancato richiamo, ex art. 90 d.p.r. 309/1990, dell’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena per il tossicodipendente che si sottopone a trattamento terapeutico, in tal modo creando un’insanabile ed ingiustificata disparità di trattamento a danno dei minori.

Con l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, ai sensi dell’art. 5 del decreto, s’introduce un’inedita modalità esecutiva di affidamento in prova con l’obbligo di non allontanarsi dal domicilio in determinati giorni della settimana. Tale misura, pur non rinunciando alle finalità tipiche dell’affidamento in prova, consente di irrobustire le prescrizioni che limitano la libertà di movimento, allestendo un efficace presidio teso a scongiurare recidive.

Così come previsto dall’art. 4 d.lgs. 121/2018, anche in questo caso la misura è applicabile quando la pena detentiva (anche residua) da scontare non supera i quattro anni.

Nel “numerus clausus” concepito dal Legislatore del 2018, la misura di comunità della detenzione domiciliare riveste funzione residuale, in quanto meno idonea a perseguire il fine risocializzante e rieducativo che orienta la disciplina dell’esecuzione penale minorile.

Anche in questo caso, la misura della detenzione domiciliare è plasmata sul modello della disciplina per adulti, introdotta con la legge Gozzini (legge 663/1986) e successivamente novellata dalla legge Simeone-Saraceni (legge 165/1998) e dalla legge Finocchiaro (legge 40/2001). La misura, concedibile per pena non superiore ai tre anni, va espiata nella propria abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura.

Il Tribunale di Sorveglianza, nel definire prescrizioni e modalità operative, rinvia, inoltre, espressamente alla disciplina degli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.). Tale rinvio, pur avendo l’indubbio pregio di circoscrivere le ulteriori limitazioni alla libertà di movimento, crea disorientamento per la rigidità della misura volta a soddisfare cautele ad personam distanti ed inconciliabili con le finalità pedagogiche di una misura di comunità da parametrare al programma educativo del minore.

Il richiamo, in via sussidiaria, alla disciplina della legge 354/1975, consente, attraverso una ricostruzione esegetica della misura della detenzione domiciliare per i minori, di ritenere estensibili ai minori anche le discipline di cui agli artt. 47 ter, comma 1 ter (detenzione surrogatoria), 47 quinquies (detenzione domiciliare speciale), ma non ex art 47, comma 1 bis (detenzione domiciliare generica), in quanto inconciliabile con le finalità pedagogiche, al pari delle previsioni di cui alla legge 199/2010 (pene detentive brevi), peraltro non richiamata dal d.lgs. 121/2018.

La misura penale di comunità della semilibertà (art. 7 d.lgs. 121/2018), modellata sull’analogo istituto per adulti previsto dall’art. 50 legge 354/1975, presenta carattere di maggior afflittività ed aspetti scarsamente pedagogici.

Il favor minoris prevede la concessione dopo aver scontato un terzo della pena, a differenza del criterio stabilito per gli adulti (metà della pena). La semilibertà non costituisce una vera e propria misura detentiva, ma una modalità esecutiva che consente il graduale reinserimento nella società. Anche in questo caso, il Tribunale di Sorveglianza individua una serie di prescrizioni da inserire nel progetto educativo, indicando attività da svolgere all’esterno e le fasce orarie che il minore semilibero è tenuto ad osservare. Inoltre, per incoraggiare il consolidamento delle relazioni socio familiari ed agevolare lo svolgimento delle attività esterne, il minore semilibero (o giovane adulto semilibero) potrà essere collocato in apposite sezioni o istituti, al fine di accelerare il positivo processo risocializzante.

3. Conclusioni

In conclusione, dalla disamina delle misure penali di comunità, il nodo problematico che emerge è quello connesso alla mancata approvazione della proposta di disancorare l’applicazione del quantum della pena cui il minore è condannato, per poterne estendere la sfera di operatività.

Ma, a dispetto di tale nota critica, le misure penali di comunità confermano il loro ruolo di cuore pulsante del neonato ordinamento dell’esecuzione penale minorile, quale significativo strumento risocializzante in grado di offrire ai minori chance di recupero alla legalità e alla costruzione di progetti di vita, sottraendoli all’emarginazione e alla devianza, coerentemente esaudendo il principio di protezione della gioventù, sancito dall’art. 31, comma 2, della Carta Costituzionale.

 

 

 

 

 


Bibliografia
1) F. Della Casa, G. Giostra, “Manuale di diritto penitenziario”, Cedam
2) A. Macrillò, “La nuova esecuzione penale minorile”, Maggioli Editore
3) L. Caraceni, M.G. Coppetta, “L’esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni”, Giappichelli Editore, Torino
4) AA.VV., “Giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo”, Giuffrè Francis Lefebvre, III ed.
5) A. Di Tullio D’Elisiis, La giustizia penale minorile. Il minore autore di reato, ed. Nuova Giuridica
6) G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, “Compendio di procedura penale”, Cap 12 Conso-Grevi – processo minorile, CEDAM, 2016
7) L. Caraceni, Vicende esecutive delle misure penali di comunità, ed. Giappichelli, 2019
8) https://www.diritto.it/le-misure-penali-di-comunita-il-procedimento-di-sorveglianza/
9) O. Murro, “Misure penali di comunità e minori: infondata la questione sull’illegittimità dei limiti di pena per l’accesso”, nota a sent. Cost. n. 231/21, https://www.penaledp.it/category/dalle-corti/corte-costituzionale/.

[1] Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni. Regio Decreto-Legge convertito con modificazioni   dalla L. 27 maggio 1935, n. 835 (in G.U. 12/06/1935, n. 137)
[2]      Corte Costituzionale, sent. n. 25/64, “La giustizia minorile ha una particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni”, in Consulta on line, https://www.giurcost.org/decisioni/1964/0025s-64.html
[3]      Corte Costituzionale, sent. n. 46/78, “Il largo ricorso alla sospensione condizionale della pena ed al perdono giudiziale nell’ambito della giustizia minorile (cfr. sentenze Corte cost. nn. 108 del 1973 e 154 del 1976) conferma non soltanto la tendenza generale a considerare come ultima ratio il ricorso all’istituzione carceraria per questa fascia di minorenni, ma sottolinea con forza la necessita di valutazioni del giudice fondate su prognosi ovviamente individualizzate in ordine alle prospettive di recupero del minore deviante” (..) in www.giurcost.org/decisioni/1978.
[4]      Le Regole Penitenziarie Europee, in http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/92.pdf
[5]    Direttiva (UE) 2016/800 Del  Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, in  https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT.
[6]      Il “best interest of the child” è un concetto riconosciuto a livello internazionale. Tale principio, affermatosi già nel corso del XIX secolo in alcuni Stati nazionali quale criterio a cui fare riferimento nelle decisioni giudiziali relative a minori, è giunto a consolidarsi, sul finire del ‘900, anche a livello sovranazionale, come un principio fondamentale unanimemente riconosciuto. Si è così assistito ad una sostanziale evoluzione della concezione del minore, il quale, da soggetto “passivo” è assurto al ruolo di “soggetto attivo”, titolare di diritti propri.
Tale principio è stato consacrato nell’ art. 3 della Convenzione di New York del 1989. Si tratta della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), che sancisce gli obblighi cui gli Stati aderenti devono attenersi nei confronti dei minori ed istituisce, a garanzia di un’efficacia effettiva, anche un apposito organo di controllo: il “Comitato dei diritti del fanciullo”.
Alla Convenzione di New York dell’‘89 hanno aderito tutti gli Stati membri dell’Onu (ad oggi ben 194 Paesi), ad eccezione degli Stati Uniti e il 27 maggio 1991 essa è stata ratificata anche dall’Italia con la legge n°176.
[7] G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Compendio di procedura penale, Cap 12, “Processo minorile”, CEDAM, 2016.
[8]      “La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 (recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103»), stabilendo che la disciplina prevista dall’art. 4-bis comma 1 ord. pen. per i reati “ostativi” non può applicarsi con riguardo alla concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio nei confronti dei condannati minorenni”, Corte cost., sent. 5 novembre 2019 (dep. 6 dicembre 2019), n. 263, Pres. Carosi, Red. Amato, in https://www.sistemapenale.it/it/scheda/scheda-corte-cost-263-2019-illegittima-ostativita-benefici-penitenziari-condannati-minorenni.
[9]      Legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1986 n. 241- S.O., http:// www.osservatorioantigone.it/new/76-archivio/259-legge-66386-cd-gozzini
[10]   Legge 8 marzo 2001, n. 40 (legge Finocchiaro), “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 56 del 8 marzo 2001 Art. 1. (Rinvio dell’esecuzione della pena), http: //www.parlamento.it/parlam/leggi/01040l.htm

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Domenica Di Rocco

Laureata con lode in giurisprudenza, abilitata all'esercizio della professione forense, dipendente del Ministero della Cultura, tante passioni: legalità e diritti civili, psicologia e arte, innovazione e bellezza in tutte le sue espressioni.

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