Il mobbing in Italia e nel resto del mondo
Lo stress in ambito lavorativo ha suscitato e suscita ancora oggi l’interesse sia degli studiosi sia dell’opinione pubblica. Psicologia, medicina e sociologia, ma anche ingegneria ed economia, si sono confrontate nell’analisi del fenomeno ed hanno fornito contributi apprezzabili suggerendo modi di fronteggiare lo stress e prevenire i danni ad esso conseguenti.
Come si è detto, il lavoro forse è il più significativo ambito di realizzazione personale e relazionale. È palese, dunque, quanta affettività esso mobiliti e, in negativo, quali e quante frustrazioni e sofferenze possa causare.
Proprio a queste ultime si riferisce il termine mobbing[1].
Oggi il termine mobbing è entrato ormai nel linguaggio comune, ma trova la sua prima applicazione nell’ambito dell’etologia per descrivere un comportamento naturale, ma aggressivo ed ostile, messo in atto dal branco per estromettere un suo membro.
È bene subito chiarire che il mobbing è un fenomeno che si è sempre più sviluppato in ambito giuslavorativo, a partire dalla ormai sentenza del Tribunale di Torino, che ha avuto il merito di riconoscere per primo la sussistenza di una ipotesi di mobbing[2].
Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro è stato, alla fine degli anni ’80, lo psicologo tedesco Heinz Leymann, emigrato in Svezia e considerato il fondatore di questa nuova direzione di ricerca di Psicologia del Lavoro.
Tra tutti i modelli esistenti, uno tra i più completi ed esaurienti è il modello a quattro fasi di Leymann, il quale descrive il fenomeno mobbing attraverso uno schema sequenziale che differenzia i diversi stadi in cui si trova l’individuo mentre subisce le strategie di persecuzione del mobber.
La I Fase “Conflitto Quotidiano” del modello si basa sul presupposto che il conflitto nasce normalmente in tutti i posti di lavoro a causa di scontri di caratteri, di opinioni ed abitudini diverse, a causa di invidia o competizione. Tale conflitto è latente poiché non viene ancora esplicitato da nessuna azione o frase. Esso diviene mobbing solo se non viene risolto e se comunque diviene continuativo per almeno sei mesi.
La II Fase prevede l’inizio del mobbing vero e proprio e del terrore psicologico. Il conflitto quotidiano matura e diviene continuativo, vengono definiti e cristallizzati i ruoli di mobber e di vittima, il mobber agisce in modo sistematico ed intenzionale con strategie persecutorie ed il mobbizzato subisce la stigmatizzazione collettiva.
La III Fase si verifica nel momento in cui il mobbing trascende i limiti dell’ufficio/reparto in cui è nato e diventa di dominio pubblico. La vittima comincia ad accusare problemi di salute e si assenta ripetutamente dal lavoro per malesseri o visite mediche. Inoltre, manifesta un calo di rendimento così da dare il via ad indagini da parte dell’Amministrazione del Personale. Questa ultima può arrivare a considerare l’elemento dannoso e dispendioso per l’azienda e decidere di eliminarlo anche attraverso azioni non propriamente legali, con l’obiettivo di portarlo alle dimissioni spontanee.
La IV Fase prevede l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro, o per licenziamento o per dimissioni. Casi più gravi e violenti si verificano per suicidi (dovuto ad un crollo interiore e morale della persona) della vittima o invalidità permanenti (dovute a mancanza di concentrazione o sabotaggi). A volte capitano anche aggressioni verso il mobber. Il mobbing, in questa fase, ha raggiunto il suo scopo, cioè eliminare la vittima.
Il modello di Leymann è puramente descrittivo: esso presenta dei limiti, rintracciabili sia nella mancanza della dimensione soggettiva della vittima, sia nella mancanza di relazione logica tra le fasi (necessaria per parlare di “processo”). Inoltre, Leymann sembra basarsi sulla realtà svedese e tedesca, non permettendo l’applicazione del suo modello ad una realtà culturale e sociale come quella italiana, la quale presenta, rispetto agli altri paesi europei, delle peculiarità: in Italia per esempio un legame familiare molto forte può assorbire o al contrario enfatizzare le conseguenze del mobbing. In quest’ottica il modello di Leymann appare impreciso ed incompleto, lasciando aperti molti quesiti.
In Italia si inizia a parlare di mobbing solo negli anni ’90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege, che nel 1996 ha fondato a Bologna, la prima associazione italiana contro mobbing e stress.
Per tale motivo Ege ha elaborato una variante del modello leymanniano, introducendo il punto di vista del soggetto che partecipa al processo e legando ogni singola fase a quella precedente e alla successiva. Il modello di Ege appare pertanto molto più ricco, chiaro e fluido e maggiormente adeguato alla situazione italiana. Qui, infatti, la conflittualità tra i lavoratori viene considerata una condizione normale di lavoro, per cui il conflitto quotidiano non può essere il punto di partenza del mobbing.
Ege aggiunge una pre-fase detta “Condizione Zero” in cui il conflitto è generalizzato (tutti contro tutti), senza la designazione di una vittima precisa. Il conflitto non è latente poiché si manifesta (saltuariamente) attraverso piccoli diverbi, discussioni o ripicche. Nessuna azienda italiana sfugge a questa situazione, che rappresenta pertanto la regola. Nella condizione zero nessuno ha la volontà di distruggere qualcun altro, ma solo di elevarsi sugli altri.
Fase I: Il conflitto mirato. In questa fase già si parla di mobbing. Infatti il conflitto quotidiano e fisiologico si trasforma, poiché l’obiettivo è quello di distruggere l’avversario. Viene designata la vittima e si dirige su di essa la conflittualità generale.
Fase II: L’inizio del mobbing. Gli attacchi da parte del mobber suscitano senso di disagio e fastidio. La vittima si interroga sul mutamento e sull’inasprimento delle relazioni lavorative. Questa fase corrisponde alla seconda fase di Leymann.
Fase III: Primi sintomi psico-somatici. Questa fase si colloca tra l’inizio del mobbing e la sua manifestazione pubblica. La vittima comincia ad avvisare problemi di salute (insonnia, problemi digestivi, senso di insicurezza) che si possono protrarre anche per lungo tempo.
Fase IV: Errori ed abusi dell’amministrazione del Personale. Il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito da errori di valutazione dell’ufficio del Personale, spesso dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno e delle sue caratteristiche. Quindi i provvedimenti presi il più delle volte risultano inadatti e dannosi per la vittima.
Fase V: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. Il mobbizzato entra in una fase di vera disperazione, accusando forme depressive, credendosi la causa dei suoi problemi e avvertendo un senso di impotenza verso la situazione. Spesso si cura con psicofarmaci e sedute terapeutiche, ma queste hanno un effetto puramente palliativo, non eliminando il problema sul lavoro.
Fase VI: Esclusione dal mondo del lavoro. Questa fase rappresenta l’esito ultimo del mobbing e corrisponde alla quarta fase di Leymann (per cui valgono le stesse considerazioni esposte sopra).
Anche in questa elaborazione, come in quella base di Leymann, possono verificarsi variazioni, per cui alcune fasi possono mancare e il mobbing può concludersi prima della fase cronica, relativamente alla particolare storia di ogni vittima.
Per la Cassazione civile, sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785, “Per “mobbing” (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio[3].
Il mobbing può essere definito come quel fenomeno di violenza morale, che si connota in modo peculiare per essere posto in essere, in modo reiterato per un apprezzabile lasso di tempo, da uno o più soggetti interni al contesto aziendale, superiori o colleghi del mobbizzato, con la finalità ultima di addivenire alla sua espulsione reale o estromissione virtuale dal contesto lavorativo, risultato perseguito mediante una serie di soprusi e di condotte tese a depauperare il suo valore professionale, ad umiliarlo e ad emarginarlo, inducendo nella vittima processi di autocolpevolizzazione e svalutazione delle proprie capacità e provocando un deterioramento delle sue condizioni lavorative”, e pertanto deve essere escluso nel caso in cui non sussistano fatti esorbitanti da una fisiologica conflittualità nei normali rapporti di ufficio[4].
Tuttavia, allo stato attuale, pochi paesi europei hanno adottato norme specifiche, preferendo misure di carattere regolamentare come carte sociali, codici etici di comportamento, linee guida e adozione di buone prassi.
In Svezia esistono delle “Disposizioni relative alle misure da adottare contro forme di persecuzione psicologica egli ambienti di lavoro” che attribuiscono al datore di lavoro l’obbligo di prevenire e combattere il mobbing e lo ritengono responsabile in caso di mancata tutela del lavoratore.
In Germania, dove non esiste una normativa specifica, sono diffusi sul territorio centri d’ascolto a cui rivolgersi in caso di molestie morali nelle aziende di maggiori dimensioni. È previsto il prepensionamento a carico dell’azienda per i dipendenti riconosciuti vittime di mobbing.
Negli Stati Uniti, a livello federale, non esistono leggi che proibiscono il Mobbing.
In Francia, il 17 gennaio 2002, viene promulgata una legge n. 2003-73 che, oltre a fornire la precisazione di molestie morali, contempla sanzioni di carattere penale per il mobber e prevede un ruolo specifico del medico del lavoro nel controllo del lavoro.
In Italia, invece, non esiste una legislazione specifica in materia di mobbing e quindi il fenomeno non è configurato come fattispecie tipica di reato a sé stante. Il quadro di riferimento cui si può fare riferimento: Costituzione: artt. 32, 35,41,42; Codice Civile: artt. 2087, 2043, 2049,; Legge n. 300/1970 “Statuto dei Lavoratori” art. 13; ed infine d.lgs. n. 626/1994.
Gli atti di mobbing possono però rientrare in altre fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali le lesioni personali gravi o gravissime, anche colpose che sono perseguibili di ufficio e si ritengono di fatto sussistenti nel caso di riconoscimento dell’origine professionale della malattia.
Si può distinguere tra mobbing orizzontale, quando le aggressioni o vessazioni provengono da persone che sono colleghi di lavoro della vittima, e mobbing verticale, quando l’aggressione è provocata dal datore di lavoro, pubblico o privato, o altro superiore gerarchico.
Sulla scena del mobbing recitano tre tipologie di attori: i mobbers sono coloro che compiono le azioni vessatorie; le vittime o mobbizzati sono coloro che subiscono i comportamenti persecutori; gli spettatori sono coloro che non sono direttamente coinvolti nel comportamento vessatorio ma il cui comportamento può influire sullo sviluppo del mobbing.
In alcuni casi il mobber è l’azienda stessa e la strategia persecutoria assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata.
Siamo di fronte a quello che viene chiamato Bossing, una vera e propria politica di Mobbing, compiuta dai quadri o dai dirigenti dell’azienda con lo scopo preciso di indurre il dipendente divenuto scomodo alle dimissioni, al riparo da qualsiasi problema di tipo sindacale.
A causa della diffusione sempre crescente dei fenomeni di mobbing, l’Unione Europea nel corso dell’ultimo decennio ha prodotto vari interventi volti alla tutela dei lavoratori, interventi che si sono concretizzati principalmente attraverso due importanti iniziative.
In primo luogo, il 3 marzo 1996, nove Stati membri del Consiglio d’Europa hanno firmato a Strasburgo la nuova versione della Carta Sociale Europea. L’obiettivo della Carta Sociale nel suo nuovo testo è quello, oltre di riprendere i diritti già figuranti nella precedente Carta (quali, tra gli altri, il diritto a condizioni di lavoro equo, il diritto alla sicurezza e all’igiene nel lavoro, il diritto alla protezione alla salute) di instaurare nuovi diritti quale il diritto alla dignità nel lavoro. In proposito, l’articolo 26 della Carta Sociale ha affermato che “allo scopo di assicurare l’esercizio effettivo del diritto di ogni lavoratore alla protezione della loro dignità al lavoro, le Parti si impegnano, in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori:
a promuovere la sensibilizzazione, l’informazione e la prevenzione in materia di assillo sessuale sul luogo di lavoro o in relazione con il lavoro, ed a prendere ogni misura appropriata per proteggere i lavoratori contro tali comportamenti;
a promuovere la sensibilizzazione, l’informazione e la prevenzione in materia di atti condannabili o esplicitamente ostili ed offensivi diretti in modo ripetuti contro ogni lavoratore sul luogo di lavoro o in relazione con il lavoro, e a prendere ogni misura appropriata per proteggere i lavoratori contro tali comportamenti. Il paragrafo 2 non copre l’assillo sessuale”.
In secondo luogo, il Parlamento Europeo ha approvato il 20 settembre 2001 la Risoluzione (2001/2339(INI)) avente ad oggetto il mobbing sul posto di lavoro.
In particolare, il documento, dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia e sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, ha esortato gli Stati membri sia a rivedere sia a completare la propria legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie mobbing.
Più specificamente, nella Risoluzione si manifesta la necessità di intervenire per combattere il fenomeno del mobbing in ogni modo, anche, e soprattutto, evitando che esso si manifesti, operando quindi principalmente con la prevenzione.
La stessa risoluzione, inoltre, ha invitato gli Stati membri all’elaborazione, con l’ausilio delle parti sociali, di idonee strategie di lotta contro il mobbing e, in generale, contro la violenza sul posto di lavoro.
Il documento, infine, aveva invitato la Commissione a presentare, entro il mese di marzo 2002, un Libro verde recante un’analisi approfondita della situazione relativa al mobbing in Italia e in ogni Stato membro e, successivamente, entro il mese di ottobre 2002, un “Programma d’azione” contenente le misure comunitarie contro il mobbing. Nonostante ciò, sia il Libro verde sia il Programma d’azione non risultano, alla data attuale, essere stati ancora presentati. La risoluzione non è stata seguita da una direttiva europea, che obbligasse gli Stati membri a legiferare in tema di mobbing.
Di recente, il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione (2004/2205(INI)) sulla promozione della salute e della sicurezza sul lavoro, nella quale si invita la Commissione ad includere nel programma di azione alcuni dei problemi di genere, quali il mobbing. Nella Risoluzione, in particolare, si invita la Commissione ad analizzare più attentamente la possibilità di presentare un approccio globale alla salute sul luogo di lavoro che comprenda tutte le forme di rischio, come, tra le altre, il mobbing. Infine, si invitano le parti sociali degli Stati membri a sviluppare le proprie strategie, sia a livello bilaterale che europeo, per combattere il mobbing e la violenza sul luogo di lavoro ed a scambiare esperienze in materia sulla base del principio della migliore prassi.
[1] Mobbing, parola coniata dall’etologo Konrad Lorenze, trae origine dal verbo inglese to mob, che significa attaccare, assalire. Tale termine, tuttavia, ha origini ben più remote e deriva dal latino, mobile vulnus, ovvero plebe in tumulto. Era un termine usato in senso dispregiativo, senza indicare la presenza di azioni fisicamente violente. Cfr., P.G. Monateri, M. Bona, U. Oliva, Mobbing: vessazioni sul lavoro, Giuffrè, 2000.
[2] Sentenza Tribunale di Cassino del 16/09/1999 “la sussistenza di un’ipotesi di mobbing allorché il dipendente è oggetto si soprusi da parte dei superiori ed in particolare allorché vengano poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e nei casi più gravi ad espellerlo, pratico il cui effetto è di intaccare l’equilibrio psichico del prestatore”.
[3] Cass. 26 marzo 2010, n. 7382; Cass. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass. 25 settembre 2014, n. 20230.
[4] Tribunale di Cassino, sentenza 18 dicembre 2002
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Davide Alfieri
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