Il nuovo art. 612-ter c.p. sul cd. revenge porn

Il nuovo art. 612-ter c.p. sul cd. revenge porn

Sommario: 1. Premessa – 2. Cosa si intende per “revenge porn”? – 3. Il revenge porn in Italia – 4. Analisi della nuova fattispecie normativa: riflessioni e criticità – 5. Conclusioni

1. Premessa

Lo scorso 2 aprile, con 461 voti a favore e nessun contrario, la Camera dei Deputati ha approvato l’emendamento sul cd. revenge porn, nell’ambito dell’esame del disegno di legge recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (C. 1455-A​ e abb.)”.

Tale proposta di legge, ribattezzata “Codice Rosso”, ha il dichiarato scopo di combattere la violenza di genere, attraverso l’inasprimento delle pene attualmente previste per una serie di reati considerati particolarmente riprovevoli (tra i vari, i delitti di violenza sessuale, atti persecutori e maltrattamenti in famiglia) e l’introduzione nel corpo del codice penale di nuove fattispecie di reato, tra le quali spicca l’art. 612-terrubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”:

“1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
2. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o il video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.
3. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.
4. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.
5. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio
.”

La novella fattispecie criminosa nasce dall’esigenza di tutelare un sempre maggior numero di casi di diffusione di materiale riguardante situazioni di estrema intimità sul web, senza che sia prestato il consenso del protagonista dell’immagine o del video. Questo fenomeno è stato denominato revenge porn e, negli ultimi anni, è risultato essere in forte crescita, fino ad essere percepito anche in Italia come una problematica di grave allarme sociale, in particolar modo a seguito di alcune vicende di cronaca che verranno esposte nel prosieguo della trattazione.

2. Cosa si intende per “revenge porn”?

La locuzione inglese revenge porn (anche revenge pornography) può essere tradotta come “vendetta porno” e indica l’attitudine di una persona alla divulgazione in Internet di materiale pornografico, senza il consenso della persona cui il contenuto si riferisce. L’associazione dei termini “vendetta” da un lato e “porno” dall’altro, lascia da subito intendere l’utilizzo distorto che il soggetto fa di fotografie o video compromettenti e ad esplicito contenuto sessuale – di norma – in suo possesso, attraverso l’immissione nel web degli stessi (e dunque alla mercé di un indefinito numero di utenti), di modo che vi sia la diffusione virale di documenti che dovrebbero rimanere strettamente privati. L’effetto che si ottiene è assimilabile ad una violenza psicologica o all’abuso della persona e, proprio per questo motivo, in senso ampio si è parlato anche di “stupro virtuale”, ponendo l’una a fianco dell’altra, la lesione della libertà sessuale e quella della libertà di autodeterminazione della persona, le quali vengono trasposte in una dimensione non più reale ma digitale.

3. Il revenge porn in Italia

Attualmente, il revenge porn è previsto come reato in diversi Paesi, tra i quali la Germania, il Regno Unito, l’Australia, il Canada e diversi Stati degli USA.

Al fenomeno in discorso, in Italia è tristemente legata la recente storia di Tiziana Cantone, una giovane donna di circa 30 anni originaria del napoletano, morta suicida il 13 settembre 2016. La donna era stata vittima di revenge porn, a seguito della diffusione – poi divenuta incontrollata – di alcuni filmati hard che la riguardavano e, successivamente, non aveva retto la pubblica derisione che ne era scaturita. Nel dettaglio, la vicenda ha origine da alcuni giochi sessuali cui Tiziana si era prestata per amore del suo convivente Sergio. Quest’ultimo – è tutt’ora controverso se vi fosse o meno il consenso di lei – aveva inviato i video porno via whats appad alcuni amici (successivamente querelati dalla Cantone ed indicati come i responsabili della diffusione indiscriminata dei video) che, a loro volta, li avevano inoltrati ad altre persone. Nello stesso modo in cui si propaga un’epidemia, i filmati erano quindi approdati in breve tempo nei cellulari di mezza Italia e venivano divulgati nelle sconfinate praterie di Internet. In conseguenza di ciò, Tiziana, che non riuscì a reggere l’umiliazione ed il senso di vergogna, psicologicamente e moralmente distrutta, si tolse la vita.

Un’ulteriore caso che, con tutta probabilità, ha accelerato l’iter per l’approvazione dell’art. 612-ter c.p., ha riguardato la deputata del Movimento 5 Stelle Giulia Sarti. La giovane parlamentare è stata infatti recentemente bersaglio di un attacco hacker con contestuale divulgazione in Internet di alcune vecchie immagini che la ritraevano in contesti estremamente intimi. Tutta la politica italiana ha espresso la propria solidarietà ed il proprio appoggio alla Sarti, affinché simili vigliaccherie non restino più impunite.

4. Analisi della nuova fattispecie normativa: riflessioni e criticità

Il revenge porn sarà quindi presto reato anche nel nostro Paese.

A questo punto, appare opportuna qualche breve riflessione di carattere giuridico sul delitto in esame.

In primo luogo, il reato trova la sua collocazione sistematica nella sezione III, titolo XII, libro II c.p., tra i delitti contro la libertà morale della persona, intesa come libertà di autodeterminazione del soggetto, tutelata dall’art. 13 Cost., in quanto ricompresa nel novero delle libertà personali dell’individuo[1]. Tuttavia, la norma in esame può essere considerata una fattispecie plurioffensiva, tendendo la stessa alla protezione di ulteriori beni giuridici, quali l’onore, il decoro, la reputazione e la privacy, in particolare quella attinente alla dimensione sessuale, la quale è senza dubbio una delle sfere più intime della natura umana.

Da subito, risulta apprezzabile la continuità ideologica che il legislatore ha voluto preservare, introducendo la nuova fattispecie criminosa dopo l’art. 612-bisc.p., che punisce il delitto di atti persecutori, più comunemente conosciuto come stalking. Difatti, può ritenersi che entrambe le figure delittuose si rivolgano in particolar modo alle donne, le quali sono spesso vittime di comportamenti che incidono sulla la loro libertà psichica, coartandola, attraverso atti ed intimidazioni di vario genere e natura. Come anticipato, è infatti soprattutto a loro che il legislatore si rivolge mediante l’introduzione del revenge porn.

L’art. 612-terc.p. configura un reato comune, poiché realizzabile da chiunque e di mera condotta, descrivendo il legislatore in maniera analitica le condotte materiali costituenti reato, senza contemplarne le conseguenze che da esse potrebbero scaturire. Il delitto è punito a titolo di dolo generico.

La norma si apre con una clausola di riserva che fa salva l’applicazione dei reati puniti più gravemente rispetto ai quali si pone dunque come fattispecie sussidiaria (ad esempio in relazione al delitto di cui all’art. 600-terc.p. in materia di pornografia minorile, che prevede la reclusione da sei a dodici anni e la multa da 24.000 a 240.000 Euro), dopodiché il legislatore elenca in maniera specifica le singole condotte tipiche. Sotto il profilo oggettivo, quindi, il reato de quo si consuma quando l’agente, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde video o immagini a sfondo sessuale, senza che vi sia il consenso di coloro che ivi sono rappresentati. La pena è della reclusione da uno a sei anni unitamente alla multa da 5.000 a 15.000 Euro.

L’oggetto della condotta sono, appunto, video o immagini a “contenuto sessualmente esplicito”, che siano destinati a rimanere privati: dalla terminologia utilizzata, emerge l’intenzione del legislatore di utilizzare una formula ampia che sia in grado di adattarsi all’evolversi del comune sentimento sociale, determinato in base al periodo storico e ai valori culturali della società di riferimento. Sul punto, si pone, un primo problema di carattere interpretativo. Se è vero che spetterà al Giudice del merito, interpretare la legge e riempirne il contenuto, è anche vero che l’espressione adoperata dal legislatore rischia inevitabilmente di collidere con il principio di determinatezza, corollario del principio di legalità exart. 25, co. 2 della Costituzione. È ragionevole attendersi che in futuro potrebbero porsi questioni di legittimità costituzionale per indeterminatezza della fattispecie (l’immagine di una donna ritratta in topless può essere considerata “a contenuto sessualmente esplicito”?).

Dall’analisi di questo primo comma si evince che il soggetto agente può avere realizzato in prima persona il materiale incriminato: ponendo il caso in cui egli compaia assieme ad altri, il reato sussisterebbe comunque, in mancanza dell’autorizzazione da parte degli ulteriori soggetti. Inoltre, l’agente può procurarsi le immagini o i video anche mediante sottrazione degli stessi a chi legittimamente li detiene e dunque, contro la sua volontà.

In generale, in merito all’elemento del consenso richiamato dalla norma in discorso, secondo la giurisprudenza consolidata, ai fini della validità, questo deve essere manifesto, libero, attuale e prestato da una persona capace d’intendere e di volere. Deve, inoltre, avere ad oggetto un diritto disponibile. Come noto, il consenso dell’avente diritto costituisce una causa di giustificazione prevista dall’art. 50 c.p., la quale elimina il carattere antigiuridico del fatto tipico, “giustificandolo” e rendendolo conforme all’ordinamento. Nel delitto di revenge porn, la mancanza del consenso costituisce un elemento oggettivo strutturale necessario al configurarsi della fattispecie criminosa: per tale ragione è possibile affermare che la predetta scriminante non è compatibile con il reato in commento (ad una simile conclusione è giunta la Corte di Cassazione in tema di violenza sessuale)[2].

Ancora, sempre in relazione al requisito della mancanza del consenso, viene in rilievo un secondo nodo interpretativo, vale a dire il problema della revoca del consenso in un momento successivo al perfezionarsi della fattispecie in esame. Si consideri, infatti, il caso in cui la persona offesa presti inizialmente il proprio consenso per poi cambiare idea, negando qualsiasi autorizzazione e tutto ciò successivamente alla condivisione su larga scala di immagini o video che la riguardano. Il soggetto attivo sarà comunque punibile? Al riguardo, potrebbe porsi addirittura un’ipotesi di abuso del diritto, nel caso in cui la persona offesa – magari a meri fini risarcitori – faccia valere in giudizio esclusivamente il suo diritto alla revoca del consenso. In effetti, nei suoi confronti si produrrebbe comunque un danno all’immagine potenzialmente irreparabile, senza contare le conseguenze sul piano psicologico. Solo la concreta applicazione della norma da parte dei Tribunali nazionali potrà fornire una risposta a tale quesito interpretativo.

Il secondo comma dispone l’applicazione della stessa pena prevista per il primo comma anche a chi riceve o acquisisce (ipotesi diverse dalla sottrazione, nella quale manca la volontà di cedere il bene, come avviene nel furto) immagini o video a tema sessuale, cui consegue la diffusione (“invia, consegna, cede, pubblica o diffonde…”) senza il consenso delle persone alle quali il contenuto si riferisce ed “al fine di recare loro nocumento”.

La giurisprudenza di legittimità ha fornito una precisa definizione di “nocumento”, che consiste in “un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non, cagionato sia alla persona alla quale i dati illecitamente trattati si riferiscono sia a terzi quale conseguenza della condotta illecita.”[3].

Viene qui introdotto il dolo specifico in capo al soggetto attivo del reato, il quale agisce con il fine specifico di recare un pregiudizio alla persona offesa. In base ad una prima interpretazione, si nota come il legislatore abbia rivolto la sua attenzione a quelle situazioni in cui le immagini o i video compromettenti sono legittimamente detenuti dall’agente – che potrebbe anche essere una persona di fiducia – che, ad un certo punto, decide di farne un uso distorto e non autorizzato. Sotto un punto di vista di tipo sociologico-educativo, il secondo comma sembra avere l’intento di aumentare la soglia di attenzione da parte del consociato qualora ci si presti a “giochetti sessuali” o simili, ponendo l’accento sui possibili risvolti negativi che potrebbero derivarne.

Il terzo comma prevede un aggravamento di pena nel caso in cui l’agente sia un soggetto cd. qualificato, ossia “coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa” in ragione, da un lato, della maggiore riprovevolezza dell’atto e dall’altro, dell’aumento della funzione deterrente rispetto a probabili strategie di vendetta messe in atto dall’ex. Anche per l’espressione “relazione affettiva” possono svolgersi le medesime considerazioni di cui sopra, in tema di indeterminatezza (una frequentazione di qualche mese può già qualificarsi come “relazione affettiva”?).

La pena è altresì aumentata se il fatto è commesso mediante l’uso di strumenti informatici o telematici, poiché, in questo caso, la diffusione di immagini o video diventa incontenibile, potendo raggiungere un numero elevatissimo di destinatari. Internet, infatti, presenta due facce molto diverse l’una dall’altra: se da un lato ci permette di poter acquisire qualsiasi tipo di informazione nel minor tempo possibile o di mantenere contatti con altre persone da un capo all’altro della Terra, dall’altro lato è divenuto, negli ultimi anni, terreno fertile per innumerevoli nuove figure criminose, stante la difficoltà nell’operare un pieno controllo della dimensione digitale.

Nello specifico, il comma in esame introduce un’aggravante speciale (o specifica) ad efficacia comune: non essendo individuata dalla norma l’esatta misura dell’aumento, ai sensi dell’art. 64 c.p., il Giudice potrà aumentare la pena prevista per il reato semplice fino ad un terzo (non può comunque superare gli anni 30 di reclusione)[4].

Così come il comma che lo precede, anche il quarto comma dell’art. 162-terc.p. prevede un aggravamento di pena, questa volta quando il fatto è commesso nei confronti di una persona che si trovi in condizioni di inferiorità fisica o psichica ovvero di una donna in stato di gravidanza. Il legislatore considera qui il caso in cui la persona offesa sia un soggetto debole e quindi bisognoso di maggiore protezione da parte dell’ordinamento. In particolare, trattasi di una circostanza aggravante ad effetto speciale, la quale determina quindi un aumento di pena superiore ad un terzo (“…da un terzo alla metà…”)[5].

La disposizione si chiude con il quinto comma, che ricalca sostanzialmente l’ultimo capoverso dell’art. 612-bisc.p. sul delitto di atti persecutori. In particolare, il reato di revenge pornè perseguibile, di regola, a querela della persona offesa, proposta entro il termine di sei mesi dal giorno della notizia che costituisce reato (in luogo dell’ordinario termine di tre mesi previsto dall’art. 124 c.p.). La remissione della querela può essere effettuata solo in sede processuale.

Tuttavia, qualora la persona offesa versi in condizioni di inferiorità fisica o psichica oppure si trovi in stato di gravidanza (casi del comma quarto), il legislatore ha previsto la procedibilità d’ufficio per il reato in discorso.

Allo stesso modo, si procede d’ufficio anche quando vi è connessione con altro delitto procedibile d’ufficio (le ipotesi di connessione sono descritte dall’art. 12, co. 1, lett. a), b), c), c.p.p.).

5. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni svolte sino ad ora, il tentativo del legislatore di criminalizzare la pubblica condivisione di materiale a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso dell’interessato, parrebbe ben riuscito. L’ottica è certamente quella di combattere tempestivamente l’insorgenza di continue nuove forme di abuso, violenza e coartazione psicologica perpetrate, per ciò che qui interessa, sempre più spesso attraverso i canali telematici.

L’avvento della novella legislativa raccoglie molteplici condotte che sino ad oggi trovavano, in parte, la loro collocazione in diverse disposizioni del codice (ad esempio, art. 528 c.p. “Pubblicazioni e spettacoli osceni”[6]o l’art. 595 c.p. “Diffamazione”[7]) nonché in altre leggi speciali (si veda l’art. 167 del codice della Privacy)[8]. Tuttavia, l’esigenza di una normativa ad hoc era da tempo avvertita dalla collettività, dato che la lacuna legislativa non può essere considerata di poco conto.

Non resta, a questo punto, che attendere l’approvazione della legge da parte del Senato.

 


[1]Corte Costituzionale, sentenza n. 30, 22 marzo 1962
[2]Cass. Pen., Sez. III, sentenza  n. 2400, 5 ottobre 2017: “L’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto lamancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale. (Fattispecie in cui l’imputato aveva desunto dal ritorno del coniuge nella casa familiare anche la sua volontà di riprendere le loro relazioni intime)”.
[3]Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 15221, 23 novembre 2016
[4]Manuale di diritto penale, G. Marinucci – E. Dolcini, ed. III, p. 474
[5]Manuale di diritto penale, G. Marinucci – E. Dolcini, ed. III , p. 475
[6]Art. 528 c.p.“Chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000.”
[7]Art. 595 c.p. “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.”
[8]L’art. 167 del codice della Privacy,  rubricato “trattamento illecito di dati” recita “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, operando in violazione di quanto disposto dagli articoli 123, 126 e 130 o dal provvedimento di cui all’articolo 129 arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi. 2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2 sexies e 2 octies, o delle misure di garanzia di cui all’articolo 2 septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’articolo 2 quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni. 3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena di cui al comma 2 si applica altresì a chiunque, al fine di trarre per se’ o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trasferimento dei dati personali verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale al di fuori dei casi consentiti ai sensi degli articoli 45, 46 o 49 del Regolamento, arreca nocumento all’interessato. 4. Il Pubblico ministero, quando ha notizia dei reati di cui ai commi 1, 2 e 3, ne informa senza ritardo il Garante. 5. Il Garante trasmette al pubblico ministero, con una relazione motivata, la documentazione raccolta nello svolgimento dell’attività di accertamento nel caso in cui emergano elementi che facciano presumere la esistenza di un reato. La trasmissione degli atti al pubblico ministeroavviene al più tardi al termine dell’attività di accertamento delle violazioni delle disposizioni di cui al presente decreto. 6. Quando per lo stesso fatto è stata applicata a norma del presente codice o del Regolamento a carico dell’imputato o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria dal Garante e questa e’ stata riscossa, la pena è diminuita.”.

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