Il nuovo codice antimafia: la documentazione antimafia

Il nuovo codice antimafia: la documentazione antimafia

Sommario: Introduzione – 1. La prevenzione – 1.1 Meglio prevenire o punire? – 2. Le misure di prevenzione – 2.1 Ontologia delle misure di prevenzione – 2.2 Dalla legislazione post-unitaria fino al decreto legislativo n. 159/2011 – 2.3 Critiche al decreto legislativo n. 159/2011 – 2.4 Aspetti meno convincenti del decreto legislativo n. 159/2011 – 2.5 Il piano straordinario contro le organizzazioni criminali: non solo una delega – 2.6 Una disciplina in fermento: lotta al terrorismo, anche internazionale – 2.7 Non solo critiche: i primi interventi ella giurisprudenza volti a migliorare il codice antimafia – 3. La documentazione antimafia – 3.1 Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della normativa fino al Codice Antimafia – 3.2 Criticità dell’articolo 89 bis del Codice Antimafia – 3.3 Cambiamento di rotta nell’applicazione della disciplina della documentazione antimafia: la sentenza del Consiglio di Stato sez. III, n. 565/2017 – 3.4 La documentazione antimafia e presunzione di mafiosità come limite al diritto di esercitare un’attività economica privata – 3.4.1 Rapporti tra privati e amministrazioni: la presunzione di mafiosità – 3.4.2 Casi in cui non bisogna acquisire la documentazione antimafia – 3.4.3 Validità e termini di rilascio della documentazione antimafia – 3.4.4 Le “white list” e la procedura per l’acquisizione della documentazione antimafia – 3.4.5 L’autocertificazione – Conclusioni

Introduzione

Ogni Stato di diritto ha quale fine ultimo il benessere sociale. I modi con cui questo obiettivo può essere perseguito sono molti: la prevenzione è sicuramente uno di questi.

Non bisogna confondere però la prevenzione di alcune fattispecie criminose, con la persecuzione delle stesse. Sul piano logico-strutturale dobbiamo distinguere due momenti che variano a seconda di dove poniamo il nostro angolo prospettico. Se ci soffermiamo su una condotta posta in essere da un soggetto in un momento antecedente alla possibile lesione di un determinato interesse, guardiamo il fenomeno criminoso dal punto di vista della prevenzione; mentre se la condotta in questione ha già leso un determinato interesse, ci riferiamo al fenomeno criminoso dal punto di vista della persecuzione.

Un ordinamento, per dirsi efficiente, deve creare strumenti preventivi, tali da stroncare sul nascere comportamenti che potrebbero arrecare offese agli interessi meritevoli di tutela di altri soggetti o dello Stato stesso.

La disciplina del diritto della prevenzione nel nostro ordinamento ha subito pesanti mutamenti, in relazione anche a quelli che sono stati i fenomeni eversivi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del secolo scorso: dai casi di criminalità organizzata di stampo mafioso fino al terrorismo anche internazionale. Il nostro legislatore, tramite gli strumenti di prevenzione, creati per far fronte ai fenomeni in questione, ha intaccato alcune libertà fondamentali. Queste ultime, originariamente, potevano essere limitate solo con lo strumento della sanzione penale, quindi con un provvedimento motivato da un’autorità giurisdizionale; ad oggi le cosiddette misure di prevenzione possono essere irrogate sia dall’autorità giurisdizionale che dagli organi di pubblica amministrazione.

Ciò ha creato un ampio ventaglio di metodi di prevenzione e di repressione tale per cui vi è molta confusione sull’uso delle sanzioni più “adeguate”, ma non solo, tale assortimento ha creato confusione anche sul piano del quantum probatorio necessario per irrogare determinate misure di prevenzione.

Anche il Codice Antimafia, che aveva suscitato tante aspettative, è stato oggetto di numerose critiche da parte di giurisprudenza e dottrina, le quali lo considerano una “sorta” di testo unico delle misure di prevenzione.

Nemmeno la recente riforma del Codice Antimafia è stata in grado di colmare quei vulnus di tutela che ancora oggi sono presenti all’interno del testo normativo. Si è cercato di dare un riordino alla disciplina, ma l’intervento riformatore a mio avviso è stato molto cauto e si è limitato a semplificare l’irrogazione di alcune misure di prevenzione.

La mia breve trattazione parte da una generale definizione delle misure di prevenzione, procedendo nello studio comparativo del sistema preventivo antecedente al 2011, passando per l’emanazione del Codice Antimafia, fino ad arrivare all’attuale riforma del 2017. Il cuore pulsante del lavoro si basa sull’analisi dettagliata della documentazione antimafia nelle sue forme della comunicazione e dell’informazione antimafia.

1. La prevenzione

1.1 Meglio prevenire o punire?

La prevenzione dei reati è un compito fondamentale di ogni società organizzata. E come tale compito debba e possa essere svolto, senza sfigurare il volto di uno Stato democratico di diritto, è tuttavia questione di estrema complessità e delicatezza che impone un difficile equilibrio tra esigenze di garanzia ed esigenze di efficacia.

Karl Binding, noto giurista tedesco, famoso per la sua teoria della “giustizia del contrappasso”, in merito al principio di legalità, nel suo corollario della tassatività, affermava che: “tra le onde della vita quotidiana il legislatore lascia giocare davanti ai suoi piedi le azioni, che dopo raccoglie con mano pigra per elevarle a fattispecie normative. In principio egli ne percepisce soltanto le forme di manifestazione più grossolane. Ciò che è sofisticato e più raro egli non lo percepisce o non lo sa cogliere. Questo spesso ha un contenuto assai più rilevante[1]. Questa metafora del Binding, analizzata in chiave liberal-democratica, ci aiuta a capire come, non sempre è facile per il legislatore contemperare esigenze garantistiche con esigenze di efficacia.

Un ordinamento giuridico affinché possa definirsi tale, non deve auspicare alla perfetta gemellanza tra efficacia delle istituzioni e rispetto dello stesso, ma deve essere caratterizzato da una duttilità tale da poter cambiare in relazione a quelle che sono le esigenze della società. Certo si può affermare che il nostro legislatore sul tema della prevenzione ha dimostrato poca flessibilità.

Ictu oculi, il nostro sistema preventivo, è caratterizzato da una forte ambiguità, infatti sono molte, le misure di prevenzione contenute nel Codice Antimafia che formalmente hanno natura amministrativa, ma sostanzialmente le possiamo qualificare penali visto che presentano un elevato tasso di invasività e di restrittività, tanto che dovremmo aggiornare tutta la manualistica relativa alla disciplina penalistica, inserendo il c.d. “terzo binario”.

Il verbo prevenire, deriva dal latino “praevenire”, e può significare “giungere prima” o ancora “preparare i rimedi contro danni, disgrazie, reati et similia”. Il significato della locuzione verbale non ha guidato neanche lontanamente i vari legislatori che si sono susseguiti dagli anni ’50 del secolo sorso fino ai giorni nostri.

Non di rado, si è arrivato ad un sistema caotico e confusionario che non ha tenuto in considerazione i vari principi della nostra Carta Fondamentale. Anzi spesso si sono trovati vari escamotage, varie scappatoie, per rendere la questione della prevenzione legittima dal punto di vista costituzionale.

Cesare Beccaria partendo dal quesito “meglio prevenire che punire”, affermava che il fine principale di ogni buona legislazione era quello di prevenire piuttosto che punire[2]. L’opinione espressa circa 250 anni fa da Beccaria fu accolta, trovando numerose conferme da parte di Bricola e Nuvolone, i quali, pur partendo da posizioni completamente diverse tra loro, convenivano che la prevenzione è una componente ontologicamente necessaria di ogni società democratica.

D’altra parte, uno Stato democratico, un ordinamento giuridico che si limitasse alla sola repressione dei reati, rischierebbe di essere un sistema giuridico che arriva sempre troppo tardi, quando ormai beni giuridici fondamentali del singolo, o della collettività quali la vita, la sicurezza pubblica, la concorrenza, la trasparenza dei mercati e la salubrità dell’ambiente, potrebbero risultare irrimediabilmente compromessi.

Se, quindi, nessuno dubita sulla necessità, sul bisogno, di prevenire in tempo alcuni comportamenti che potenzialmente potrebbero ledere i beni giuridici fondamentali, le controversie sorgono non appena si passi ad individuare gli strumenti mediante i quali tale prevenzione debba attuarsi.

Essa, potrebbe essere prima di tutto realizzata attraverso interventi di tipo legislativo, amministrativo e più in generale con interventi di tipo sociale, rispettosi dei principi costituzionali, rivolti alla collettività intera, i quali siano finalizzati a rimuovere le cause remote della criminalità.

Beccaria auspicava ad un sistema preventivo basato sulla centralità e sul ruolo che avrebbe dovuto avere la legge in tal senso. Egli sosteneva che per prevenire i delitti, bisognava creare delle leggi chiare e semplici, e che tutta la forza della nazione doveva essere condensata a difenderle e che nessuna parte di essa doveva essere impegnata a distruggerle; l’azione dei magistrati doveva essere orientata all’osservanza delle leggi piuttosto che alla corruzione; senza dimenticare inoltre che un altro mezzo di prevenzione era quello di “ricompensare la virtù e che finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione”[3].

Prevenzione è anche quella che orienta le misure che prescindono dalla commissione di un fatto di reato. Tuttavia, l’attenzione dei giuristi e del legislatore, sembra concentrarsi sulla sola prevenzione rivolta a controllare e gestire la pericolosità di determinati individui, ritenuti potenziali autori di reato[4].

In tal senso, i concetti della pericolosità, della prevenzione e anche del rischio, inteso come probabile verificazione dell’evento rischioso, si uniscono mantenendo la loro identità strutturale, co-agendo per un unico fine. Detto ciò, della prevenzione potrebbero emergere due idee e cioè: una collegata all’idea di rischio, e una collegata all’idea di controllo sociale[5]. Richiamando la seconda idea di prevenzione ossia quella del controllo sociale, non si può non prendere in considerazione l’opera di David Garland, “La cultura del controllo”.

Interessa in questa sede come Garland abbia rilevato la tendenza di molte società avanzate, di affrontare i pericoli legati alla criminalità attraverso la cultura del controllo; il presupposto è che nelle società tardo-moderne il crimine e la punizione fanno sempre notizia e le decisioni, a livello organizzativo, sono spesso reattive e politiche. Le politiche del controllo attualmente in auge sono diverse da quelle del secolo scorso e sono diverse da quelle che ci si sarebbe aspettati. L’idea della protezione oggi è diventata l’alfa e l’omega della politica penale reclamando nuove forme di difesa che, nella nostra legislazione, si concretizzano sempre più in mezzi di prevenzione quali, i “compliance programs” introdotti dalla normativa sugli infortuni sul lavoro, o nell’ambito della Pubblica Amministrazione a prevenzione di fenomeni corruttivi[6]. Per questo motivo la prevenzione è collegata “a filo doppio” ai concetti di protezione e di sicurezza.

2. Le misure di prevenzione

2.1 Ontologia delle misure di prevenzione.

Le misure di prevenzione, sono misure special-preventive, considerate di natura formalmente amministrativa, dirette ad evitare la commissione di reati da parte di determinati soggetti considerati pericolosi. La loro caratteristica peculiare è quella di essere applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato, onde la denominazione di misure ante o praeter delictum. La distinzione tra prevenzione ante-delictum e repressione-prevenzione penale, è andata sviluppandosi specialmente nel corso del secolo scorso, sotto l’influenza delle concezioni penalistiche di orientamento liberale. Ed invero, mentre nel diritto penale pre-moderno venivano elevate a fattispecie di reato soprattutto condotte sintomatiche di una condizione soggettiva di pericolosità, per esempio il vagabondaggio e l’oziosità, pur in assenza di fatti oggettivamente lesivi di beni giuridici, a partire dalla seconda metà dell’ottocento le figure di pericolosità sociale connesse alle mere caratteristiche soggettive vengono espunte dai codici penali per essere trasferite in un autonomo diritto della prevenzione[7].

Da quanto sopra riportato ne deriva un quadro di riferimento così riassumibile: alle misure di prevenzione di carattere extra penale, ossia misure di polizia, spetta la funzione di arginare la pericolosità sociale di determinate categorie di soggetti, evitando che tale pericolosità possa sfociare nella concreta commissione di fatti delittuosi; al diritto penale spetta invece il compito di reprimere comportamenti che costituiscono già reato.

Ma, a dispetto della semplice schematizzazione effettuata, il sistema della prevenzione ante-delictum ha vissuto e continua a vivere una vicenda assai tormentata.

Dal 1865, anno in cui venne emanata la legge di pubblica sicurezza che ha rappresentato in buona parte il modello di tutta la legislazione successiva, perdura infatti la disputa sulla legittimità, nell’ambito di uno Stato democratico quale il nostro, di misure restrittive delle libertà del cives che prescindono dalla commissione di un fatto di reato: misure che, appunto perché spesso basate su semplici sospetti, o indizi di pericolosità, continuano a sollecitare la facile obiezione di risolversi in “pene del sospetto”, “stampelle di un apparato che non riesce a ripercorrere la via maestra del giudizio per l’accertamento del reato [8]”.

Mentre per l’applicazione della sanzione il presupposto è la commissione di un determinato reato, per cui difficilmente le sanzioni possono essere oggetto di strumentalizzazione, per quanto concerne le misure di prevenzione, i fatti da accertare non sono altro che indici di un pericolo, sintomi di una potenziale situazione pericolosa. Difficilmente, tali indici, potranno essere indicati con esaustività e chiarezza, all’interno di una norma legislativa. Per cui, le misure di sicurezza, non sono in funzione di una certezza giuridica integrale, come accade per le pene. D’altronde è insito nella natura delle misure di prevenzione, il fatto di proiettarsi per l’avvenire, e solo se i vari comportamenti umani potessero prevedersi con sicurezza matematica anche nel caso della prevenzione, il giudizio sarebbe certo, potrebbe compiersi con una elevata probabilità di certezza[9].

Ma è difficile ipotizzare una conclusione simile, proprio perché in questa sede rileva tutto in misura potenziale; è difficile parlare di certezza se a livello embrionale si analizzano comportamenti che hanno di per sé elementi, ovvero indizi di pericolosità ed alla base non vi è nessuna concretezza di commissione di un determinato fatto.

La differenza tra le funzioni attribuite dal legislatore alle sanzioni penali, e le funzioni attribuite alle misure di prevenzione è chiara nella teoria più che nella pratica e cioè: la differenza sostanzialmente è chiara ma i mezzi con cui la funzione preventiva vuole attuarsi fanno sorgere moltissimi dubbi.

Nella relazione del Guardasigilli che accompagna il codice penale, è detto che tra le funzioni principali della pena c’è quella della prevenzione generale che si esercita con la minaccia e con l’esempio[10]. Idea di base è che l’uomo in quanto essere razionale, ex ante, prima di agire valuta gli aspetti negativi e positivi della sua azione, e rinuncia al crimine ogniqualvolta il bilanciamento tra i pro e i contra, lo porti a prendere in considerazione che, la rappresentazione anticipata della pena superi l’attrattiva dei guadagni connessi al fatto delittuoso. Ne deriva quindi quella che è la funzione della pena ossia, morale, pedagogica e perfino di orientamento culturale dei consociati verso valori protetti dall’ordinamento.

Invece, nel caso delle misure di prevenzione, il fine è quello di evitare la commissione di un reato da parte di soggetti che vengono considerati pericolosi, per cui si crede che la prevenzione generale non possa funzionare solo con la comminazione della pena, ma è necessario incentivare la prevenzione speciale. Incentivo che prescinde dal pregresso fatto di reato e che assume una forma afflittiva.

A questo punto la quaestio iuris che molti in dottrina si sono posti e che in modo unanime hanno risolto è, ma qual è la reale funzione delle misure di prevenzione personali?  Nonostante la loro denominazione formale, le tradizionali misure di prevenzione c.d. personali, si pensi al confino di polizia nelle svariate etichettature assunte nel tempo, non siano mai riuscite a sortire, a produrre un effetto preventivo/rieducativo; anzi, di fatto le misure di prevenzione in questione sono state usate come strumento di controllo sociale di tipo sostanzialmente repressivo[11]. E ciò per un originario vizio che attiene alla tradizionale strutturazione normativa delle fattispecie di pericolosità, che possiamo inquadrare in due modelli distinti e cioè: per un verso, il legislatore, in linea astratta ha introdotto delle fattispecie di pericolosità che potevano rientrare nell’area teoricamente riservata alla prevenzione ante-delictum in quanto incentrate su elementi, su caratteristiche di personalità del soggetto sintomatiche di potenziale comportamento deviante, ma in sede di tipizzazione concreta il legislatore stesso ha finito col considerare tipologie soggettive come nel caso paradigmatico degli “oziosi e vagabondi”, di dubbia consistenza criminologica e dai limiti incerti, per cui la qualifica di pericolosità ha finito con l’essere fittiziamente e ideologicamente sovrapposta a soggetti emarginati censurabili soltanto in base a un opinabile giudizio di demerito sociale.

Per un altro verso invece, non poche delle fattispecie preventive si sono atteggiate, si pensi all’ipotesi emblematica dei soggetti notoriamente dediti a traffici illeciti, a fattispecie indiziarie di sospetti aventi appunto una funzione di surrogato rispetto a una repressione penale e non, inattivabile per mancanza di normali riscontri probatori[12].

Ancora, c’è da dire che nel tempo il legislatore ha esasperato l’intervento preventivo, naturalmente a scapito di quello punitivo, con l’obiettivo di fronteggiare ondate di criminalità. Tutto ciò ha significato una cosa, è stato svilito il ruolo del diritto penale, con la conseguenza che vi è una certa sfiducia sulla deterrenza della sanzione, e naturalmente una crescente tendenza ad applicare misure sanzionatorie di più facile e immediata applicazione, a pena di dilatare i confini di operatività delle misure di prevenzione, e accentuare la discrezionalità del giudice[13] ovvero dell’autorità amministrativa che irroga il provvedimento di prevenzione.

La funzione delle misure di prevenzione è stata criticata sotto svariati punti, ove spesso è stata coinvolta anche, ed era naturale che fosse cosi, la pericolosità in quanto mezzo necessario per l’applicazione delle misure.

Infatti si è detto che il concetto di pericolosità, se calato nella dimensione dogmatica, va a creare dei micro-sistemi normativi caratterizzati da un forte disvalore soggettivo dei tipi che la volontà del legislatore ha deciso di stigmatizzare in qualche modo. Ancora, possiamo affermare che in queste sede un ruolo predominante lo gioca il potere politico, poiché la scelta dei “tratti somatici del soggetto pericoloso” è effettuata dalla politica; è la politica a dirci quali soggetti debbano essere considerati pericolosi. Cosicché i vari problemi di costituzionalità delle misure di prevenzione sono nati dal fatto che la politica ha plasmato il soggetto pericoloso da cui la società deve difendersi, con un procedimento di “etichettamento” normativo. Per cui quando la società si trova a fronteggiare il soggetto pericoloso cosi come plasmato dal potere politico, essa fronteggia sé stessa da pericoli che spesso sono soltanto percepiti e non effettivi, con la conseguenza che è possibile che, per evitare i cosiddetti “mala”, si addivenga a una soluzione ancora peggiore[14].

Per cui l’idea di prevenzione deve essere attuata con il maggior equilibrio possibile.

2.2 Dalla legislazione post-unitaria fino al decreto legislativo n. 159/2011.

“Col passare del tempo le misure praeter-delictum si sono affermate come istituti diretti a garantire le esigenze di prevenzione della collettività rispetto a determinate categorie di persone socialmente pericolose. Le finalità di prevenzione dell’autorità di pubblica sicurezza sono garantite limitando, con diversi gradi di intensità, la libertà della persona, avvantaggiando il controllo e la vigilanza dei vari organi preposti a prevenire la commissione di reati. Ne consegue quindi che la funzione preventiva ed il mancato accertamento della commissione di un fatto-reato, costituiscono le principali ragioni della natura amministrativa riconosciuta per lungo tempo alle misure di prevenzione”[15]. Però è anche vero che se la natura amministrativa delle misure in questione è certa, soprattutto per quelle di competenza dell’autorità amministrativa, ad esempio l’avviso orale del questore ai sensi dell’articolo 3 del d.lgs 159/2011, è invece più che dubbia per quelle “giurisdizionalizzate”, che si atteggiano nella sostanza a sanzioni penali anomale.

In sintesi misure personali di carattere preventivo, sganciate totalmente dall’accertamento della responsabilità penale, perciò sottratte al principio di legalità e irrogate dall’autorità di pubblica sicurezza, sono state introdotte in tempi passati nell’ambito di una funzione di polizia di sicurezza, finalizzata ad effettuare un controllo più penetrante a soggetti che potevano creare diversi pericoli, all’ordine costituito[16]: risulta però doveroso puntualizzare che, per un determinato periodo di tempo, una funzione preventiva è stata teorizzata solo ed esclusivamente con riferimento a misure applicate nei confronti della persona e non del suo patrimonio.

Nella legislazione post-unitaria, istituti inquadrabili oggi nell’ambito delle misure di prevenzione si rinvengono essenzialmente nella legislazione sul brigantaggio del 1863, la c.d. Legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica. L’intervento legislativo, in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino, i quali garantivano il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinnanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale, venne concepito per debellare il fenomeno del brigantaggio. La summenzionata legge oltre ad introdurre il reato di “brigantaggio”, i cui trasgressori sarebbero stati giudicati dai tribunali militari, introdusse per la prima volta il reato di camorrismo, prevedendo altresì il “domicilio coatto”.

Sul territorio delle varie province infestate dal brigantaggio, venivano istituiti, in applicazione della legge Pica, i tribunali militari ai quali venne attribuita la competenza in subiecta materia.

Due anni più tardi venne adottato il Testo Unico di Pubblica Sicurezza che, mediante fattispecie di mero sospetto, puniva con l’ammonizione la condizione dei vagabondi recidivi, oziosi e sospetti di alcuni reati, oltre che il dissenso politico[17]. Con il nuovo Testo Unico di P.S. approvato con Regio Decreto n. 6144 del 1889, l’ammonimento menzionato precedentemente veniva esteso anche ai “diffamati”, e cioè a coloro i quali erano stati additati da voci correnti nel pubblico come colpevoli di alcuni reati, anche qualora da tali accuse fossero stati prosciolti per insufficienza di prove; infatti ai sensi dell’articolo 164 del Regio Decreto n. 773 del 1931, “il Questore con rapporto scritto, motivato e documentato, denuncia al Prefetto per l’ammonizione, gli oziosi, i vagabondi abituali validi al lavoro non provveduti di mezzi di sicurezza  o sospetti di vivere col ricavato di azioni delittuose e le persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente. Sono altresì denunciati per l’ammonizione i diffamati per i delitti di cui all’articolo seguente. La denuncia può essere preceduta da una diffida alle persone suindicate, da parte del Questore”[18]. “Il domicilio coatto veniva applicato agli ammoniti dopo due contravvenzioni all’ammonizione ovvero dopo due condanne, sempre sussistendo la condizione della pericolosità per la sicurezza pubblica”[19].

Con la legge n. 316 del 1894, ossia la legge Crispi, fu esteso il domicilio coatto a tutti coloro che venivano considerati pericolosi per la sicurezza pubblica e che avevano subito una condanna per reati contro l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o per reati commessi con l’uso di materie esplodenti.

Nel 1926 venne approvato il nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, con la finalità di estendere le misure preventive, rendendole uno strumento cardine del controllo poliziesco del Fascismo. Il nuovo Testo Unico prevedeva che la nuova misura del confino comune, ossia quella misura volta a combattere in maniera radicale il reato associativo mafioso, venisse affiancata dal “confino politico”, irrogato per motivi politici e cioè, per impedire la propaganda ostile al regime da parte di persone che non avessero commesso reati contro l’ordine pubblico. Quale era il procedimento che seguiva l’irrogazione della misura? Un qualunque cittadino, di qualunque comune italiano, poteva sporgere denuncia al Questore di polizia su qualunque cittadino ritenuto dal “denunciante” pericoloso ovvero potenzialmente pericoloso per la pubblica sicurezza. Il Questore inviava la denuncia al Prefetto, il quale inoltrava tutto ad una Commissione, la quale quest’ultima interrogava il denunciato e lo invitava a “presentare discolpe in congruo termine”, così da poterne valutare gli addebiti. Arrivati a questa fase, il denunciato poteva essere mandato al confino tramite ordinanza, ovvero qualora la Commissione non aveva deciso di confinare il soggetto, poteva essere diffidato o ammonito dalla Commissione stessa o direttamente dal Questore a cui veniva rinviato il caso. Nel caso in cui per il soggetto fosse stata decisa la pena del confino, la Commissione inoltrava al Ministero Dell’Interno il fascicolo che lo riguardava con la richiesta di inviarlo in un “comune del Regno diverso dalla residenza abituale, ovvero in una colonia di confino”. Con il nuovo Testo Unico, la misura del confino sostituiva la misura del domicilio coatto. Inoltre, per il confino venivano negate tutte quelle garanzie di ordine procedurale che l’ordinamento previgente prevedeva in relazione al domicilio coatto, compresa la possibilità di difendersi davanti la commissione provinciale[20] formata dal Prefetto, Questore, Procuratore del Re, Comandante dei Carabinieri e Ufficiale superiore della Milizia. Per cui tale misura di polizia corredava quella che era la funzione punitiva dello Stato, non lasciando la società indifesa da soggetti che, pur non avendo commesso fatti di reato, oggettivamente presentavano caratteristiche ed elementi indizianti di pericolosità; elementi volti a sovvertire l’ordine e la pubblica sicurezza.

Per tale motivo la misura venne impiegata indiscriminatamente contro tutti coloro per i quali non sarebbe stato possibile perseguirli con i metodi ordinari della giustizia a causa della non provata reità[21]. Successivamente con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza, adottato nel 1931, sostanzialmente la disciplina delle misure di prevenzione rimase invariata, l’unica modifica che venne apportata è stata quella di estendere la possibilità di ammonire gli “avversari” politici e destinarli al confino, e si ribadì inoltre, la possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per l’assegnazione al confino attribuito alla Commissione Provinciale.

Bisogna anche menzionare il fatto che alcuni anni dopo, e cioè nel 1934 venne adottato un nuovo Regio Decreto Legge n. 1034, poi convertito in Legge n. 835 del 1935, istitutivo tra le altre cose anche del Tribunale per i Minorenni, il quale introdusse delle misure di prevenzione a carattere “speciale”, e cioè misure nei confronti di minori traviati.

Le cose cambiarono notevolmente con l’avvento della Costituzione, perché molte norme contenute nel Testo Unico, non rispettavano alcuni principi della Carta Fondamentale, sicché venne a delinearsi uno stridente contrasto con il sistema delle misure di prevenzione.

Questo portò la Consulta ad emanare una sentenza, la n. 2 del 1956 con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune norme del Testo Unico e pose alcuni principi fondamentali che ancora oggi sono alla base del sistema preventivo. La Consulta in un punto della summenzionata sentenza affermò che le norme relative ai provvedimenti del rimpatrio con foglio di via obbligatorio e della conseguente diffida, non contrastino, salvo in alcuni punti, con l’articolo 13 della Costituzione. Questa disposizione però non va intesa quale garanzia di indiscriminata e illimitata libertà di condotta del cittadino, tanto è vero che la stessa Costituzione, nello stesso articolo 13 e nei successivi contempla e disciplina varie situazioni e fissa espressamente i limiti[22]. Ciò che però stride con l’articolo 13 è anzitutto il potere di ordinare la traduzione del rimpatriando, perché ciò viola quella libertà personale che è garantita da tale articolo. Altro principio contenuto nella sentenza della Consulta è il fatto che l’irrogazione della misura di prevenzione si debba basare, non più su sospetti, ma su fatti ad esempio: il procedimento del rimpatrio obbligatorio, perché sia legittimo, deve essere giustificato da fatti concreti, che rientrino nelle limitazioni indicate dall’articolo 16 della Costituzione, e non da meri sospetti. Il sospetto, anche se fondato, non basta, perché, muovendo da elementi di giudizio vaghi o incerti, lascerebbe aperto l’adito ad arbitrii, e con ciò si trascenderebbe quella sfera di discrezionalità che pur si deve riconoscere come necessaria all’attività amministrativa, perché le leggi e tanto meno la Costituzione, non possono prevedere o disciplinare tutte le mutevoli situazioni di fatto né graduare in astratto e in anticipo le limitazioni poste all’esercizio dei diritti[23].

Altro principio fondamentale che la Consulta ha reso esplicito nella sentenza è l’obbligo di motivare il provvedimento di irrogazione della misura di prevenzione, infatti l’esigenza di contemperare il margine di discrezionalità con l’esigenza che i provvedimenti si fondino sopra fatti concreti rende inerente alla natura della norma contenuta nell’articolo 157, legge di Pubblica Sicurezza, l’obbligo di motivazione, quale implicito elemento dell’ordine di rimpatrio[24].

Al riguardo si osserva, in primo luogo, che l’articolo 16 della Costituzione esclude espressamente che le limitazioni alla libertà di circolare possano essere determinate da ragioni politiche; dal che discende che il provvedimento del rimpatrio debba specificare i motivi, per dare modo alle stesse Autorità di Pubblica Sicurezza e, soprattutto, all’Autorità Giudiziaria di accertare che il rimpatrio non sia stato disposto per ragioni politiche o per altri motivi non previsti dall’articolo 16 della Costituzione e dall’articolo 157 della legge di Pubblica Sicurezza, cioè illegalmente[25].

In secondo luogo, la motivazione appare necessaria per consentire al cittadino l’esercizio del diritto di difesa. Tale diritto è riconosciuto dall’articolo 24 della Costituzione per i procedimenti giudiziari e non può dubitarsi che il cittadino debba in ogni caso essere posto in grado di difendersi legalmente contro qualsiasi provvedimento dell’autorità; il che non può avvenire se non gli vengono contestati i motivi, cioè i fatti, che lo hanno provocato[26].

Dunque la Consulta, con questa pronuncia ha sancito in modo lapidario quali devono essere i compiti delle varie autorità, rompendo totalmente i ponti col passato, poiché i vari principi riconosciuti nella sentenza, non venivano rispettati dalle varie autorità amministrative e giudiziarie quando si irrogavano le misure di prevenzione. Anzi con le disposizioni normative contenute nella legge Pica, veniva derogato il diritto di difesa riconosciuto dallo Statuto Albertino.

Il punto centrale della sentenza, riguarda la chiara distinzione tra misure limitative della libertà personale e della sola libertà di circolazione: infatti le prime sono soggette alla disposizione normativa contenuta nell’articolo 13 della Costituzione, la quale stabilisce una riserva assoluta di legge e di giurisdizione, salvo naturalmente i casi di urgenza in cui è la stessa legge a consentire  interventi provvisori dell’autorità di Pubblica Sicurezza, soggetti a convalida dell’autorità giudiziaria entro 96 ore dall’adozione; le seconde sono invece adottabili dall’autorità amministrativa, ai sensi dell’articolo 16 della Costituzione, sempre però nei casi e nei modi previsti dalla legge, tra cui possono rientrare anche e soprattutto le esigenze di pubblica sicurezza.

L’intervento della Consulta non passò in secondo piano, infatti il legislatore si attivò e recepì i principi espressi dalla Corte, approvando la legge 27 dicembre 1956, n.1423, integrata alcuni anni dopo con la legge n. 327 del 1988. L’intervento legislativo è importante perché, seppur con un timido atteggiamento di adeguamento, venne attribuita la competenza, ad applicare le misure di prevenzione limitative della libertà personale all’autorità giudiziaria, su proposta della sola autorità amministrativa. L’articolo 1, comma 1, nn. 1, 2 e 3 della l. n. 1423/1956 indicava quali erano i destinatari delle misure di prevenzione personali applicabili da parte del questore: a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica[27]. Dalla disposizione normativa possiamo notare come il legislatore nei vari passaggi abbia ripetuto “sulla base di elementi di fatto”, questo ci fa capire come il provvedimento di irrogazione della misura non debba più basarsi su meri sospetti, ma su fatti, allineandosi per questo ai principi sanciti dalla Consulta nella sentenza ut supra.

Inoltre nei confronti delle persone indicate nell’articolo 1 della summenzionata legge, il Questore poteva emettere il foglio di via obbligatorio, l’avviso orale e i vari divieti contenuti nell’articolo 4, comma 4, della stessa.

In relazione all’ultima categoria di soggetti, menzionata nell’articolo 1, l’applicazione della sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza, da parte dell’autorità giudiziaria era consentita solo e soltanto se fosse preventivamente emesso, nei confronti degli stessi, l’avviso orale da parte del Questore, mentre tale condizione, non risultava necessaria in relazione alle altre ipotesi, residuali[28]. Dobbiamo dunque ribadire che, alla luce dell’intervento legislativo effettuato dal legislatore, il fondamento delle misure di prevenzione in esame è da rinvenire nel fatto che l’ordinamento predispone dei strumenti di carattere preventivo, al fine di accertare la pericolosità ante-delictum. Per questa ragione esse sono compatibili ai principi della Costituzione, e soprattutto ai principi contenuti nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino, firmata a Roma il 4 novembre del 1950, in quanto sono applicate al fine di tutelare la società contro il pericolo di attentati alla sicurezza e alla moralità pubblica.

In mancanza di pericolosità sociale, non si può parlare di misura di prevenzione, perché verrebbe meno l’unico requisito valido per la sua applicazione, considerando il fatto che manca totalmente un fatto di reato. La giurisprudenza infatti ha previsto la caducazione degli effetti della misura, ex tunc, se venisse applicata senza il requisito della pericolosità sociale. Quindi diventa importante l’accertamento di quest’ultimo requisito. Ma la domanda sorge spontanea, come si accerta il requisito della pericolosità? “La pericolosità, consiste, in una globale valutazione della personalità del soggetto, risultante da tutte le manifestazioni sociali della sua vita, e nell’accertamento, in relazione alla persistenza del tempo, di un comportamento illecito e antisociale, tale da rendere necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza[29]”. Per cui l’accertamento deve avvenire sulla base di elementi sintomatici o rivelatori della pericolosità, precedenti rispetto al momento valutativo fondati su comportamenti oggettivamente identificabili i quali ci consentono di arrivare ad un giudizio di ragionevole probabilità circa la pericolosità del soggetto che, per questo motivo, richiede un particolare controllo da parte degli organi di pubblica sicurezza al fine di prevenire condotte antisociali. Sicché il requisito della pericolosità ai fini dell’accertamento deve essere attuale, se non lo è non vi è alcuna ragione per l’organo di pubblica sicurezza di irrogare la misura di prevenzione, anche perché mancherebbe ab initio la giustificazione causale del controllo[30].

Per cui in età repubblicana, il testo di riferimento per quanto riguarda le misure di prevenzione fu la legge n. 1423 del 1956. Ma i primi interventi riformatori a tale legge si ebbero con la legge n. 575 del 1965, la c.d. legge antimafia, recante “Disposizioni contro la mafia” che, nel suo testo originario, stabiliva l’applicabilità delle misure di prevenzione personali, previste dalla legge n.1423 del 1956, alle “persone indiziate di appartenere ad associazioni mafiose[31], infatti l’articolo 1 della presente legge recita: “la presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscano con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.

Per cui con la legge n. 575 del 1965 si ha l’estensione delle finalità preventive, dalle tradizionali categorie elencate dalle varie leggi precedenti, a categorie, gruppi di soggetti, che si caratterizzano per il grado di attribuibilità della partecipazione ad una associazione criminale, riconducibile all’articolo 416 bis del codice penale. Da questo momento le misure personali sono distinte in misure rivelatrici di pericolosità comune, previste dalla legge n.1423 del 1956, e di pericolosità qualificata disciplinate dalla legge n.575 del 1965. Tra le due forme di pericolosità, la differenza sostanziale stava nei presupposti, nell’organo competente e le conseguenze derivanti dall’irrogazione della misura di prevenzione personale applicata[32]. Però in entrambe le leggi, ancora non vi era la presenza di una misura preventiva di carattere patrimoniale, nemmeno nella legge speciale antimafia.

Il campo di applicazione delle misure di prevenzione venne poi ampliato successivamente quando, con la legge n. 1176 del 1967, venne prevista l’applicazione delle misure ai gestori di bische clandestine e a coloro che esercitano abitualmente le scommesse abusive nelle corse. Infatti la legge prevede un solo articolo che sostanzialmente va a modificare il numero 4, del 1 comma, dell’articolo 1 della legge n. 1423 del 1956 e cioè: Il numero 4) del primo comma dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, è sostituito dal seguente: “4) coloro che, per il loro comportamento, siano ritenuti dediti a favorire o a sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ovvero a esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l’uso, o a gestire abitualmente bische clandestine, o infine ad esercitare abitualmente scommesse abusive nelle corse[33]“.

Nel folto tessuto normativo si inserì un ulteriore intervento normativo, che nel 1975 ha portato alla c.d. “Legge Reale”, ossia la legge n. 152 del 1975 recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”. Il nostro paese assistette in quegli anni ad una situazione emergenziale; fu dilaniato dai vari fenomeni eversivi, dallo stragismo e dal terrorismo di matrice politica. Eventi che frustrarono gli anni Settanta, passati alla storia come gli “anni di piombo”. Il testo normativo, con il fine di combattere i fenomeni di terrorismo, che misero a dura prova l’ordinamento democratico del paese, inasprì fortemente la legislazione penale, infatti le innovazioni repressive sono rinvenibili nei seguenti articoli: l’articolo 3 estendeva il ricorso alla custodia preventiva, sostituendo il precedente articolo 238 del codice di procedura penale, anche in assenza di reato di flagranza di reato, di fatto permettendo un fermo di 96 ore, entro le quali andava emesso decreto di convalida da parte dell’autorità giudiziaria; l’articolo 5 vieta l’uso del casco e di altri elementi potenzialmente atti a rendere in tutto o in parte irriconoscibili i cittadini partecipanti a manifestazioni pubbliche, svolgentesi in pubblico o in luoghi aperti al pubblico; l’articolo 14, estendendo la previsione normativa dell’articolo 53 del codice penale, consente alle forze dell’ordine di usare legittimamente le armi non solo in presenza di violenza o resistenza, ma comunque quando si tratti di “impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona[34]”.

Sono variamente riconducibili all’applicazione della Legge Reale, e al quadro di fatti che determinò, tantissime morti più o meno oscure di quegli anni, fra cui quella dello studente bolognese Francesco Lorusso, ucciso nel 1977 in via Mascarella, a Bologna, dove il foro del proiettile è ancora ben visibile, “con bontà talvolta di qualche rosa rinsecchita sotto”[35].

La Legge Reale ampliò l’ambito applicativo della disciplina antimafia. Le misure di prevenzione personali disciplinate, furono estese agli individui portatori delle “nuove tipologie di pericolosità[36]”, indicati dall’articolo 18 e cioè: le disposizioni della legge antimafia n. 575 del 1965, venivano estese anche a coloro che: 1) operanti in gruppi o anche isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli, 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice; 2) abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952 n. 645 (recante sanzioni contro il fascismo), e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; 3) compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostruzione del partito fascista, ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; 4) fuori dai casi indicati nei numeri precedenti, siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n.895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n.497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato [37]. La legge Reale dunque, individua una nuova fattispecie soggettiva di pericolosità sociale, espressa dai soggetti rientranti nelle maglie della criminalità politico-eversiva[38].

Il legislatore, in altri termini, raggiunse la consapevolezza, con la Legge Reale, che bisognava operare su due fronti: innanzitutto, era necessario definire una volta per tutte il fenomeno di “associazione mafiosa”; secondariamente, bisognava predisporre gli strumenti idonei ad attaccare i beni patrimoniali dei mafiosi. Solo alcuni anni più tardi, la legge 13 settembre 1982, n.646, recante “disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale” nota anche come “legge Rognoni-La Torre”, introdusse nel tessuto normativo della legge Antimafia, misure di prevenzione patrimoniali come il sequestro o la confisca, per i soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, alla camorra o ad altre associazioni localmente denominate che perseguono finalità o agiscano con metodi corrispondenti. Intervento legislativo questo, “finalizzato a ripristinare la supremazia delle istituzioni statali intaccata in seguito agli omicidi “eccellenti” consumati in quel periodo, per mano della “malavita” mafiosa, in Sicilia”[39]. Il testo normativo traeva origine da una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980, (atto camera n. 1581), che aveva come primo firmatario l’onorevole Pio La Torre e alla cui formulazione tecnica parteciparono due giovani magistrati della procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  La legge Rognoni-La Torre, introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso”. Le innovazioni contenute dalla legge in esame, determinarono risultati positivi fin da subito: i beni acquistati dalla criminalità con “soldi sporchi di sangue”, cominciarono ad essere eticamente ripuliti destinandoli ad enti, associazioni, comuni, province e regioni. I beni della mafia ritornarono ad essere beni della collettività[40].

Il IV governo Berlusconi, mise in atto una riforma che prevedeva la vendita dei beni immobili confiscati alle mafie qualora entro novanta giorni dal provvedimento definitivo di confisca non fossero stati destinati per finalità di interesse pubblico. Purtroppo, a causa di lungaggini burocratiche, soltanto lo 0,06% degli immobili è destinato entro 4 mesi, nessuno entro 90 giorni: per i soggetti destinatari della misura di confisca, riacquistare i beni tramite un prestanome è cosa a dir poco facile[41]. I primi contrasti, contro tale progetto di riforma, non tardarono ad arrivare. Fu lo stesso Virginio Rognoni, cofirmatario della legge stessa, ad opporsi; tutto il mondo dell’antimafia si ribellò alla proposta di riforma avanzata dall’allora governo Berlusconi IV. Preoccuparono molto le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, la quale affermò: “Non dobbiamo aver paura di mettere in vendita i beni confiscati. Il rischio che tornino nelle mani dei clan esiste, ma pazienza: vorrà dire che saranno nuovamente sequestrati e confiscati e che lo Stato ci guadagnerà due volte[42]”. La Cancellieri avrebbe voluto fortemente la riforma della legge Rognoni-La Torre, perché concepita molto tempo fa, quando il numero dei sequestri e delle confische era basso, mentre oggi tale numero è aumentato sproporzionatamente. L’ambito soggettivo di applicazione delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale venne definito dal legislatore con la legge n. 55 del 1990 recante “nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale”, che ne ha stabilito, all’articolo 14, l’applicabilità non più nei confronti di tutte le persone pericolose di cui all’articolo 1 nn. 1) e 2), della legge n.1423 del 1956, ma solo con riferimento a quelle che vivevano col provento del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, oltre che agli indiziati di appartenenza ad associazioni dedite allo spaccio di sostanze stupefacenti[43].

Le ultime due tappe dell’evoluzione normativa dell’istituto in esame, sono costituite dall’approvazione dei “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009; in particolare il decreto legge 92/2008, successivamente convertito con  legge n.125 del 2008, recante “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, ha abrogato l’articolo 14 della legge n.55 del 1990, stabilendo l’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniali anche ai soggetti di cui all’articolo 51 comma 3-bis del codice di procedura penale; inoltre aspetto di assoluta rilevanza è la previsione del principio dell’applicazione disgiunta e cioè, le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste ed applicate in modo disgiunto. Fu prevista inoltre, la possibilità, chiaramente se si fossero verificati i presupposti, di disporre il sequestro e la confisca per equivalente, nonché quella di disporre le misure patrimoniali anche in caso di morte del preposto[44].

L’ultimo intervento del legislatore si ebbe nel 2009 con la legge n. 94 recante “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. Con la nuova legge, il legislatore intervenendo sulla disciplina dettata dalla legge n. 125 del 2008, ha cercato da un lato di oltrepassare alcuni dubbi interpretativi circa la possibilità di applicare le misure patrimoniali disgiuntamente da quelle personali, dall’altro lato ha cercato di riformare la procedura di destinazione dei beni oggetto di ablazione, rendendola più snella e agile.

Il legislatore del 2011, spinto dall’esigenza di conferire maggiore ordine e sistematicità a una materia oggetto di una pluridecennale stratificazione normativa sparsa in più leggi scoordinate tra di loro, ha emanato un testo unico intitolato “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136[45]”. Questo nuovo Codice Antimafia, tuttavia, più che un vero codice, rappresenta il frutto di una consolidazione normativa incentrata in gran parte sulla materia delle misure di prevenzione. Vi sono alcune innovazioni contenutistiche di disciplina, ma nonostante questi aspetti di novità, è diffusa l’opinione tra i commentatori, che il legislatore avrebbe potuto e dovuto fare meglio[46].

2.3 Critiche al decreto legislativo n. 159/2011.

L’opinione diffusa tra i tecnici, giurisprudenza e soprattutto dottrina, all’indomani del Codice Antimafia, è stata quella che il legislatore avrebbe potuto e dovuto fare molto meglio di così. Il quesito da cui dobbiamo partire per analizzare il codice antimafia, si basa sul perché buona parte della dottrina e della giurisprudenza, nutre un forte senso di sfiducia nei confronti del decreto legislativo in esame. Intanto possiamo affermare che, “a dispetto dell’enfatizzazione mediatica, il Codice Antimafia sembra mantenere molto meno rispetto alla denominazione che gli è stata affibbiata. Non si tratta di un vero codice per almeno due ordini di motivazioni e cioè: ci troviamo di fronte ad un testo, che non presenta quella completezza, quel rigore e quella coerenza interna tipica di un codice. Ancorché non manchi qualche elemento di novità, a ben vedere il nuovo testo rappresenta nel complesso non molto di più di una sorta di testo unico, frutto di una consolidazione normativa incentrata in grande prevalenza sulle misure di prevenzione (personali e patrimoniali), sulla gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati, nonché sulla documentazione antimafia”[47].

Manca inoltre quell’armonizzazione, quella ricognizione della normativa penale e amministrativa vigente in materia di lotta alla criminalità organizzata. Mentre per alcune materie il mandato parlamentare, ossia la legge delega n. 136 del 2010, è risultato esaustivo, si veda per esempio la disciplina della documentazione antimafia, per altre materie il mandato ha fissato solo principi armonizzatori. Da ciò capiamo come i limiti e le insufficienze non sono da imputare al solo legislatore delegato, visto e considerato che già ab initio vi erano delle imperfezioni nella legge delega. Imperfezioni legate al fatto che paradossalmente, vi era un eccesso di genericità e un eccesso di dettaglio; sicché se anche il Governo avesse esercitato interamente la delega con riferimento alla legislazione penale, processuale e amministrativa, nella migliore delle ipotesi sarebbe venuto fuori un discutibile ‘‘stoccaggio’’, più o meno completo, in un unico contenitore di norme attualmente sparpagliate nell’ordinamento[48].

La prima versione originale del codice che venne sottoposta al vaglio delle commissioni parlamentari ad hoc, presentava pure 10 articoli introduttivi contenenti alcune tra le più importanti norme penali, processuali ed amministrative, estrapolate dai vari codici e da legislazioni speciali; ma dopo tutta una serie di critiche che il governò subì, soprattutto dalla Camera dei Deputati, dovette stralciare questi articoli introduttivi, con il contestuale annuncio di futuri provvedimenti nei quali far confluire quanto espunto.

Sin dalla nascita del codice i primi malumori non si fecero attendere; molti sostenevano che l’Italia avesse perso una grande occasione, ossia la possibilità di riordinare la legislazione antimafia, riorganizzandola, ampliandola ed aggiornandola; le poche innovazioni introdotte sono state ritenute “esili” nel fronteggiare il fenomeno della criminalità organizzata, che col passare degli anni si sta sempre di più adeguando ed infiltrando non solo nel tessuto delle imprese private, ma anche in quello delle amministrazioni pubbliche.

Anche il rapporto mafia-politica è cambiato totalmente, poiché “la ‘ndrangheta ha messo i suoi uomini, funzionali all’organizzazione criminale; più volte è stato documentato come i politici cercano, per avere assicurati i pacchetti voti, i grandi esponenti delle varie organizzazioni mafiose locali; purtroppo gli uomini interni all’organizzazione gestiscono in modo diretto la cosa pubblica[49]”.  Però, sarebbe un errore guardare solo “il bicchiere mezzo vuoto”, è difficile non condividere valutazioni del tipo: il Codice nasce senza avere alle spalle un ponderato disegno riformatore né un preventivo confronto con gli operatori del settore: piuttosto viene concepito e partorito secondo la logica strumentale e al ritmo incalzante della comunicazione politica contingente[50]. Intanto bisogna tenere conto di alcune considerazioni e cioè, nell’articolo 2 della legge delega n. 136 del 2010, vi è una clausola correttiva, secondo la quale entro tre anni dall’entrata in vigore del Codice Antimafia, il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo[51].

Per cui un intervento, correttivo e ad ampio raggio è necessario prima della fine della legislatura corrente, (cosa che si è avuta e che analizzeremo nel prosieguo della trattazione), per un Governo che non intende retrocedere alla lotta contro le mafie. Per cui una manovra oculata, da parte del potere esecutivo, potrebbe riconfigurare il codice dalla radice, ascoltando naturalmente i suggerimenti da parte degli esperti, in modo tale da avere uno strumento, non disfunzionale nell’ottica di una razionalizzazione delle strategie preventive e repressive contro la criminalità organizzata.

Insomma, bisogna chiudere l’eterna stagione degli interventi frammentati, episodici, realizzati a compartimenti stagni, per aprire una nuova fase elaborativa che consenta di dare risposte articolate e coordinate a problemi indubbiamente complessi[52].

2.4 Aspetti meno convincenti del decreto legislativo n. 159/2011.

Rimanendo sempre nella prospettiva critica che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente, ci rimangono da analizzare gli aspetti che ictu oculi ci convincono di meno, e che sulle sollecitazioni provenienti da parte di giurisprudenza e dottrina, dovranno essere modificati per primi.

In ordine alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la cosa che rileva maggiormente è il numero delle categorie di soggetti alle quali possono essere applicate, ben nove. Infatti ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 159 del 2011, i provvedimenti previsti dal libro I, dal capo II, dalla sezione I, si applicano a: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416 bis del codice penale; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3 bis del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’articolo 12 quinquies, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; c) ai soggetti di cui all’articolo 1 del presente decreto; d) a coloro che operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice  nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270 sexies del codice penale; e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n.645 e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; g) fuori dai casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stai condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n.497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stesse specie col fine indicato alla lettera d); h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indiati nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati; i) alle persone indiziate di aver agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, nonché alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica , ovvero l’incolumità delle persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive[53].

Ma il numero di categorie troppo elevato non è l’unico problema, anzi bisogna prendere in considerazione anche il fatto che il Governo, e il legislatore, hanno rinunciato a introdurre delle innovazioni, sia riguardo alla tipologia delle misure, visto e considerato che lo strumento principale di intervento rimane la vecchia e ormai obsoleta sorveglianza speciale di stampo ottocentesco, sia al tipo di prescrizione comportamentale che il giudice può disporre ai fini preventivi per neutralizzare la pericolosità del prevenuto, poiché, ad esempio, mantengono tutto il loro vigore, generiche e banali prescrizioni quali, vivere onestamente, rispettare le leggi ecc.

Così stando le cose, le misure personali, in sé considerate, finiscono con il mantenere le loro caratteristiche patetiche di arnesi obsoleti, prive di funzionalità in una seria ottica special-preventiva, in particolare rispetto a soggetti di pericolosità qualificata, come quelli indiziati di appartenere alla criminalità organizzata; per questo il legislatore, delegato e delegante, ha perso una grande occasione per ammodernare presupposti e strumenti della prevenzione personale[54].

Altro rilievo critico, riguarda l’indiscriminata estensione dell’applicabilità delle misure patrimoniali a tutti coloro che sono potenzialmente destinatari delle misure personali, ben al di là della cerchia molto più ristretta dei soggetti che fanno parte di associazioni a delinquere di stampo mafioso ai sensi del 416 bis del codice penale. Non si capisce bene quale potrebbe essere stata la ratio legis, di questa estensione da parte del legislatore, delegante e delegato, ma possiamo affermare che è dubbia sia dal punto di vista politico-criminale che da quello della legittimità costituzionale. Forse una ragione potrebbe essere che: è soltanto rispetto alla categoria dei soggetti che fanno parte di associazioni criminali, ai sensi del 416 bis del codice penale, che possono apparire giustificate le presunzioni relative, dell’origine illecita dei beni su cui si fonda il meccanismo di una confisca allargata secondo il modello della confisca di prevenzione. Mentre, con riferimento ai presupposti di applicazione delle misure patrimoniali e cioè sequestro e confisca, il codice, nell’ottica dei due pacchetti sicurezza 2008 e 2009, ribadisce la regola dell’autonoma applicabilità delle misure patrimoniali, precisamente consentendone l’applicazione disgiunta[55].

In particolare il comma 1, dell’articolo 18 del codice Antimafia, stabilisce che: “le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste ed applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione[56]”. Una tale formulazione, mentre da un lato segna il passaggio da un vecchio modello di pericolosità soggettiva ad un nuovo e più moderno modello di pericolosità “reale” o in rem dei patrimoni creati con attività illecite, dall’altro lato, il nuovo concetto di pericolosità in rem, non è in grado di indicare quali sono i presupposti normativi dell’applicabilità disgiunta delle misure patrimoniali. Il dubbio interpretativo che sorge, non è una questione secondaria perché, non si capisce bene se l’autorità giudiziaria possa prescindere dall’accertamento della pericolosità sociale del soggetto sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale, ovvero se non sia più richiesto il requisito dell’attualità della stessa. Sulla base dei rilievi critici che precedono e a voler rimanere coerenti con l’auspicio ottimistico che il nuovo Codice antimafia sia un “bicchiere più pieno che vuoto”, l’atteggiamento da assumere non può che essere quello di considerare il codice stesso un cantiere ancora aperto per tutti, incluso il legislatore. Una sorta di opera in crescendo, dunque, bisognosa e meritevole di essere integrata e sviluppata con ulteriori interventi normativi ispirati a una prospettiva di prevenzione davvero moderna e adeguata ai giorni nostri[57].

2.5 Il piano straordinario contro le organizzazioni criminali: non solo una delega.

Fino ad ora, la nostra attenzione si è focalizzata solo ed esclusivamente sull’analisi critica del decreto legislativo n.159 del 2011, senza però prendere in considerazione, gli aspetti critici e non, della legge delega n.136 del 2010 intitolata “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”.

Il testo legislativo appena richiamato, rappresenta sostanzialmente il punto di approdo di una certa unità di intenti del legislatore, a riprova del fatto che, una visione del fenomeno “mafioso” non può risentire di interferenze ideologiche, politicamente sconvenienti, nonché del fatto che quando vi è una ragionevole esigenza sociale, ma anche criminale, politica e soprattutto economica, la vischiosità del sistema bicamerale non è idonea a rallentare la marcia dei provvedimenti normativi. In effetti la legge delega n.136 del 2010 viene approvata, in modo definitivo in poco più di 4 mesi[58], ed essendo “debitrice”, di tutta una serie di contributi già registrabili in argomento: “nell’elaborazione dei principi e criteri direttivi di delega si è tenuto conto del contributo fornito da numerosi progetti di legge parlamentari e governativi; del lavoro della commissione per la ricognizione e il riordino della normativa di contrasto della criminalità organizzata, presieduta dal professor Fiandaca; delle relazioni del commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati[59]”.

Il programma del testo normativo in questione era molto ambizioso, perché intanto conferiva una delega al Governo col fine di adottare, nel termine di un anno, un decreto legislativo, che realizzasse un completo riordino della materia penale, processuale-penalistica ed amministrativa riguardante la criminalità organizzata, avendo cura di coordinarla con le varie discipline in materia e soprattutto con i principi dettati dall’Unione Europea. Infatti ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 2, della legge delega n.136 del 2010: “il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Il decreto legislativo di cui al comma 1 è adottato realizzando: a) una completa ricognizione della normativa penale, processuale e amministrativa vigente in materia di contrasto della criminalità organizzata, ivi compresa quella già contenuta nei codici penali e di procedura penale; b) l’armonizzazione della normativa di cui alla lettera a); c) il coordinamento di cui alla lettera a) con le ulteriori disposizioni di cui alla presente legge e con la normativa di cui al comma 3; d) l’adeguamento delle normative italiane alle disposizioni adottate dall’Unione Europea[60]”.

Accanto a questa delega ne sono state previste altre due, una tendente a riunire, organizzare e coordinare, nel rispetto dei limiti fissati preventivamente dal legislatore, le disposizioni in materia di misure di prevenzione, ai sensi del comma 3, dell’articolo 1 della legge n.136 del 2010, indicando anche nello stesso comma i principi ed i criteri direttivi da seguire e cioè per esempio, che l’azione di prevenzione possa essere esercitata indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale, che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possano essere richieste e approvate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione dal momento della richiesta della stessa, e ancora che venga definita in maniera organica la categoria dei destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, ancorandone la previsione a presupposti chiaramente definiti e riferiti in particolare all’esistenza di circostanze di fatto che giustificano l’applicazione delle suddette misure di prevenzione e, per le sole misure personali, anche alla sussistenza del requisito della pericolosità del soggetto[61].

L’altra delega verte invece sulla certificazione antimafia, ai sensi dell’articolo 2, comma 1 della legge delega n. 136 del 2010, e cioè: “ il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per la modifica e l’integrazione della disciplina in materia di documentazione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965, n.575, e di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n.490, e successive modificazioni, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) aggiornamento e semplificazioni, anche sulla base di quanto stabilito dalla lettere f) del presente comma, delle procedure di rilascio della documentazione antimafia, anche attraverso la revisione dei casi di esclusione e dei limiti di valore oltre i quali le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti e i subcontratti di cui all’articolo 10 della legge 31 maggio 1965, n.575, e successive modificazioni, né rilasciare o consentire le concessioni e le erogazioni di cui al citato articolo 10 della legge n.575 del 1965, se non acquisito complete informazioni, rilasciate dal prefetto, circa l’insussistenza, nei confronti degli interessati e dei loro familiari conviventi nel territorio dello Stato, delle cause di decadenza o di divieto previste dalla citata legge n. 575 del 1965, ovvero di tentativi di infiltrazione mafiosa,  di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 440, e successive modificazioni, nelle imprese interessate; b) aggiornamento della normativa che disciplina gli effetti interdittivi conseguenti alle cause di decadenza, di divieto o al tentativo di infiltrazione mafiosa di cui alla lettera a), accertati successivamente alla stipulazione, alla approvazione o all’adozione  degli atti autorizzatori di cui alla medesima lettera a); c) istituzione di una banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, con immediata efficacia delle informative antimafia negative su tutto il territorio nazionale e con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione, finalizzata all’accelerazione delle procedure di rilascio della medesima documentazione e al potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa, con previsione della possibilità di integrare la banca dati medesima con dati provenienti dall’estero e secondo modalità di acquisizione da stabilirsi, nonché della possibilità per il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo di accedere in ogni tempo alla banca  dati medesima; d) individuazione dei dati da inserire nella banca dati di cui alla lettera c), dei soggetti abilitati a implementare la raccolta dei medesimi e di quelli autorizzati, secondo precise modalità, ad accedervi con indicazione altresì dei codici di progetto relativi a ciascun lavoro, servizio o fornitura pubblico ovvero ad altri elementi idonei a identificare la prestazione; e) previsione della possibilità di accedere alla banca dati di cui alla lettera c) da parte della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo per lo svolgimento dei compiti previsti dall’articolo 371 bis del codice di procedura penale; f) individuazione, attraverso un regolamento adottato con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro della Giustizia, con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e con il Ministro dello Sviluppo economico, delle diverse attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa per le quali, in relazione allo specifico settore di impiego e alle situazioni ambientali che determinano una maggiore rischio di infiltrazione mafiosa, è sempre obbligatoria la presenza della documentazione indipendentemente dal valore del contratto, subcontratto, concessione o erogazione, di cui all’articolo 10 della legge 31 maggio 1965, n.575, e successive modificazioni; g) previsione per l’obbligo, per l’ente locale sciolto ai sensi dell’articolo 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, di acquisire nei cinque anni successivi allo scioglimento, l’informazione antimafia precedentemente alla stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto, subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione, di cui all’articolo 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, indipendentemente dal valore economico degli stessi; h) facoltà, per gli enti locali i cui organi sono stati sciolti ai sensi dell’articolo 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, di deliberare, per un periodo determinato, comunque non superiore alla durata in carica del commissario nominato, di avvalersi della stazione unica appaltante per lo svolgimento delle procedure di evidenza pubblica di competenza del medesimo ente locale; i) facoltà per gli organi eletti in seguito allo scioglimento  di cui all’articolo 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, di deliberare di avvalersi per un periodo determinato, comunque non superiore alla durata in carica degli stessi organi elettivi, della stazione unica appaltante, ove costituita, per lo svolgimento delle procedure di evidenza pubblica di competenza del medesimo ente locale; l) previsione dell’innalzamento ad un anno della validità dell’informazione antimafia qualora non siano intervenuti mutamenti nell’assetto societario e gestionale dell’impresa oggetto di informativa; m)  introduzione dell’obbligo, a carico dei legali rappresentanti degli organismi societari, di comunicare tempestivamente alla prefettura-ufficio territoriale del Governo che ha rilasciato l’informazione l’intervenuta modificazione dell’assetto societario e gestionale dell’impresa; n) introduzione di sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo di cui alla lettera m)[62].

Oltre alle due deleghe appena analizzate, va sottolineato che il testo legislativo contiene anche delle disposizioni normative di facile ed immediata applicazione, tra quelle più significative e rilevanti, bisogna menzionare oltre alla previsione di una migliore tracciabilità dei flussi finanziari ottenuta mediante l’introduzione dell’obbligo di conti dedicati a carico degli appaltatori per tutte le attività inerenti l’appalto, ai sensi dell’articolo 3 della legge delega n. 136 del 2010, anche una specifica serie di regole che consentono una serie di verifiche fiscali nei confronti di soggetti già sottoposti a misura di prevenzione, ai sensi dell’articolo 7 della legge delega n. 136 del 2010, recante “modifiche alla legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di accertamenti fiscali nei confronti di soggetti sottoposti a misure di prevenzione”, ed inoltre di un tentativo di unificare le varie ipotesi di “operazioni sotto copertura” contenute in varie leggi speciali, ai sensi dell’articolo 8 della summenzionata legge delega, recante “modifiche alla disciplina in materia di operazioni sotto copertura”, nonché un aggravamento della pena per il delitto di turbata libertà degli incanti, ai sensi dell’articolo 9 della legge delega n. 136 del 2010, recante “modifiche all’articolo 353 del codice penale, concernente il reato di turbata libertà degli incanti”, cui si aggiunge anche l’inedita figura di “turbata libertà della scelta del contraente”, ai sensi dell’articolo 10 della stessa legge delega, recante “delitto di turbata libertà della scelta del contraente”.

Dunque il decreto legislativo n. 159 del 2011, arriva in porto grazie alle disposizioni normative contenute nella legge delega, con un paio di connotati[63] e cioè,  da un lato, pur apparendo la delega orientata verso l’adozione di più decreti legislativi, il legislatore delegato ha nondimeno optato per la scelta di coltivare il mandato conferitogli, attraverso l’adozione di un testo unico, più che di un vero e proprio codice, rendendo l’opera più fruibile anche per l’interprete[64], dall’altro lato invece non passa inosservato il contenuto della delega, che già dal modo in cui essa è stata intitolata, ci fa pensare di trovarci di fronte ad un vero e proprio codice Antimafia, ma così non è. Tale aspetto critico lo abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti, tant’è che siamo arrivati alla conclusione critica, che più di trovarci di fronte ad un codice, il decreto legislativo n. 159 del 2011 avrebbe i tratti somatici di un vero e proprio testo unico. Proprio per questo deficit, che è contenuto già nella legge delega, che il codice è stato accolto con un forte scetticismo e con ben poco entusiasmo[65]. E tuttavia, l’idea di un codice nel quale concentrare tutte le disposizioni antimafia, che pure aveva trovato in altri momenti caloroso sostegno, si raffreddò non poco a fronte della considerazione secondo la quale, soprattutto sul terreno processuale, i principi del ‘‘giusto processo” come riconosciuti dall’articolo 111 della nostra Costituzione non avrebbero consentito, pur in presenza di quello che comunemente viene definito come un ‘‘doppio binario’’ e che segna, per i reati di mafia, rimarchevoli differenze rispetto al regime ordinario, di distaccarsi dalla comune e unificante cornice di garanzie fornite dalla Carta fondamentale[66].

2.6 Una disciplina in fermento: lotta al terrorismo, anche internazionale.

Dopo alcuni ritocchi, apportati dal legislatore tra il 2012 e il 2014, alla disciplina delle misure di prevenzione contenuta nel libro primo del codice Antimafia[67], le ultime, significative modifiche sono state apportate nel 2015. Tali modifiche sono state effettuate ancora una volta in senso espansivo, e confermano la propensione del nostro legislatore a ricorrere a misure di prevenzione per contrastare le forme, più pericolose, di criminalità organizzata.

Le modifiche sopra citate, si sono avute con il decreto legge 18 febbraio 2015, n.7, recante “misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione”, convertito successivamente dalla legge 17 aprile 2015, n.43.

Il decreto legge n.7 del 2015, contiene disposizioni normative, destinate ad incidere su molti settori dell’ordinamento giuridico e su molti altri inerenti alle relazioni internazionali. Il decreto in questione ha, anzitutto, modificato la fattispecie di pericolosità prevista dall’articolo 4, comma 1, del decreto legislativo n. 159 del 2011, che risulta adesso riferibile a “coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270-sexies del codice penale[68]”. L’ampliamento dei presupposti soggettivi di applicazione delle misure di prevenzione personali, ma anche di quelle patrimoniali in forza del richiamo di cui all’articolo 16, comma 1, lettera a), del codice Antimafia[69], ha lo scopo di contrastare, nello specifico, i cosiddetti “foreign fighters”.

Infatti, secondo la stima del Ministero dell’Interno, nel corso dell’informativa urgente svoltasi presso la Camera, sarebbero 53, i foreign fighters, provenienti dall’Italia che combattono al servizio dell’Islamic State in Iraq and the Levant[70].

Sul punto, sono univoche le indicazioni contenute nella relazione al disegno di legge di conversione, che dopo avere segnalato come la necessità di un’attualizzazione del quadro normativo esistente derivi dall’evoluzione e dalle nuove forme assunte dalla minaccia terroristica jihadista registratasi a seguito dell’emersione dell’ISIL e di altri gruppi ispirati al radicalismo islamico che mirano ad affermare il proprio controllo su significative porzioni del territorio di altri Stati, inquadra la predetta innovazione nell’ambito delle misure mirate e selettive, capaci di prevenire il rafforzamento di siffatte organizzazioni, che hanno minacciato il compimento di attentati anche ai danni di Stati europei, tra cui l’Italia, ed esercitano una forte capacità di proselitismo ed attrazione, incrementando il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters, cioè dei soggetti che, senza essere cittadini o residenti, si recano in Paesi dove agiscono questi sodalizi per combattere al loro fianco o per commettere azioni terroristiche[71]. Nei confronti di costoro, ma anche di tutti gli altri soggetti indicati dall’articolo 4, del codice Antimafia, viene attribuito al Questore, nei casi di necessità ed urgenza, il potere di ritirare temporaneamente il passaporto e sospendere la validità ai fini dell’espatrio dei documenti equipollenti, all’atto della presentazione della proposta di applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno[72] nei confronti delle persone riconducibili alla fattispecie di pericolosità connessa al terrorismo e prevista dall’articolo 4, comma 1, lettera d), del codice Antimafia, cosi come modificato dal decreto legge n.7 del 2015. Tutto ciò per evitare che, durante il periodo di pendenza in cui deve essere adottato un provvedimento d’urgenza, da parte del presidente del tribunale, il soggetto interessato possa allontanarsi dal territorio dello Stato. Il comma 2-bis, dell’articolo 9 del codice Antimafia, impone un ulteriore obbligo al Questore e cioè quello di comunicare il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente, al Procuratore presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona, il quale, se non ritiene di disporne la cessazione, ne richiede la convalida, entro 48 ore, al Presidente del tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora che provvede nelle successive 48 ore con le modalità di cui al comma 1, dell’articolo 9 del codice Antimafia. Il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio e di ogni altro documento equipollente, cessano di avere efficacia se la convalida non interviene nelle 96 ore successive alla loro adozione.

Da ciò dobbiamo affermare che, debbono ritenersi estensibili i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in materia di misura di prevenzione atipica dell’obbligo di presentazione, della convalida presidenziale del temporaneo ritiro del passaporto, e della sospensione dei documenti equipollenti e cioè: il controllo da parte dell’autorità giurisdizionale deve essere così ampio da poter ricomprendere tutti i profili rilevanti per la legittimità del provvedimento del Questore, dai requisiti di necessità ed urgenza, alla riconducibilità del soggetto alla fattispecie di pericolosità connessa al terrorismo prevista dall’art. 4, comma 1, lettera d) del codice Antimafia[73].

A parte la novella citata, e che grossolanamente abbiamo cercato di analizzare, il fatto che la modifica, l’integrazione e l’ampliamento del sistema delle misure di prevenzione siano nell’agenda dei lavori parlamentari e governativi è confermato anche dalla costituzione, nel giugno del 2013, di due Commissioni ministeriali, una cosiddetta Fiandaca, che venne istituita con decreto dell’allora Ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, e un’altra cosiddetta Garofali, istituita con decreto dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta[74].

Nei paragrafi introduttivi della relazione della Commissione Fiandaca si può leggere come, le modifiche al neonato codice Antimafia sono volute intanto per le ragioni che abbiamo esposto nei paragrafi precedenti, e soprattutto per armonizzare il sistema delle misure di prevenzione “all’orizzonte europeo”, infatti la Commissione affermò che: “Il settore delle misure di prevenzione ha costituito oggetto di particolare attenzione da parte sia della apposita Sottocommissione che della Commissione plenaria. E’ stato assunto a oggetto di rivisitazione il recente corpus normativo denominato “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”: infatti, nonostante si tratti di un testo unico di recente approvazione, è subito emersa all’attenzione degli interpreti e degli studiosi l’opinabile o insufficiente definizione normativa di profili di disciplina non privi di rilevanza soprattutto da un punto di vista pratico-applicativo. La Commissione ha esteso la sua analisi al procedimento di prevenzione, muovendo dalla riscontrata esigenza di potenziarne non soltanto l’efficacia ma anche la dimensione lato sensu garantistica. Specie in un orizzonte europeo, in cui come è noto le misure di prevenzione non godono di particolare favore (trattandosi di un istituto giuridico storicamente peculiare all’ordinamento italiano), la preoccupazione di rafforzarne le garanzie sotto il duplice profilo dei presupposti sostanziali di applicabilità e delle regole procedimentali costituisce infatti un obiettivo da non trascurare[75]”.

2.7 Non solo critiche: i primi interventi ella giurisprudenza volti a migliorare il codice antimafia.

Il fermento, non è solo da registrare però in campo politico, ma anche la giurisprudenza si è mossa in tal senso, criticando e proponendo delle soluzioni che potrebbero migliorare, il codice Antimafia. Da questo punto di vista, sono state depositate le motivazioni di una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, sulla natura della confisca di prevenzione[76], infatti nella sentenza “Spinelli”, le Sezioni Unite rigettarono i ricorsi presentati da Spinelli Graziella e da Di Rocco Giovina, condannandole altresì al pagamento delle spese.

La questione di diritto per la quale i ricorsi furono rimessi alle Sezioni Unite sostanzialmente si basava sul fatto che, se in conseguenza delle modifiche introdotte dal decreto legge n. 92 del 2008 e dalla n. 94 del 2009 all’articolo 2-bis della legge 575 del 1965, la confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione possa essere ancora equiparata alle misure di sicurezza o abbia assunto connotati sanzionatori e se, quindi, ad essa sia applicabile, in caso di successioni di leggi nel tempo, la previsione di cui all’articolo 200 del codice penale o quella di cui all’articolo 2 dello stesso codice.

Nei “considerato in diritto” della sentenza delle Sezioni Unite, emerge che, la questione cosi formulata, postula la soluzione di due problemi e cioè: la prima questione riguarda la persistente assimilabilità della confisca di prevenzione alle misure di sicurezza, alla stregua dell’attuale stato della legislazione; la seconda questione, logicamente legata alla prima, riguarda, in ipotesi di successioni di leggi nel tempo, della disposizione racchiusa nell’articolo 200 del codice penale, primo comma, secondo cui “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”, oppure del principio di irretroattività della legge penale dettato dall’articolo 2 del codice penale.

La quaestio iuris, pur se presentata in termini molto generali, e come tale riferibile a tutte le categorie di soggetti nei confronti dei quali sono, in astratto, applicabili le misure di prevenzione patrimoniali, ex articolo 16, con richiamo dell’articolo 4, del codice Antimafia, sembra porsi, hic propter hoc, con esclusivo riferimento all’ipotesi della pericolosità generica, propria dei soggetti dediti abitualmente a traffici delittuosi o che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, ai sensi dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e non anche all’ipotesi della pericolosità qualificata, propria dei soggetti ritenuti partecipi di associazioni a delinquere di stampo mafioso ai sensi dell’articolo 416 bis del codice penale; le Sezioni Unite affermano che nondimeno le ricorrenti, rientrano nella prima categoria, ossia quella della pericolosità adeguata, ma in virtù della “funzione nomofilattica assegnata nella sua più pregnante espressione”, è necessario estendere l’orizzonte cognitivo “oltre i limiti della concreta fattispecie”, per affrontare profili problematici afferenti anche alla più grave manifestazione di pericolosità, ossia a quella cosiddetta qualificata[77]. Continuando sul punto, le Sezioni Unite affermarono che, al di là dei contesti di riferimento, al di là della diversità dei due concetti, le due forme di pericolosità, generica e qualificata, presentano alla base un comune denominatore ossia, abbisognano di risposte da parte dell’ordinamento non già a fatti costituenti reato, ma a “stili di vita e metodiche comportamentali, che si collocano al di fuori degli ordinari schemi della civile convivenza e del sistema democratico”; ed invero si tratta nel primo caso, ossia pericolosità generica, “di abituale dedizione al crimine, eletto a fonte di sostentamento”, nel secondo caso, ossia pericolosità qualificata, “di scelte esistenziali e di sistematici comportamenti, antitetici alle regole del consorzio civile, ma pur essi orientati a logiche di profitto e di facile arricchimento[78]”.

La criminalità organizzata, in qualsiasi sua formazione territoriale, è oggi un fenomeno che si sta sviluppando, dal punto di vista economico, attraverso l’intimidazione, la prevaricazione e l’infiltrazione nei più delicati spiragli dell’ordinamento burocratico-istituzionale, al fine di acquisire, vantaggi, agevolazioni e benefici di ogni tipo, anche attraverso l’illecita aggiudicazione di appalti e pubbliche commesse, naturalmente in spregio alle regole della ordinaria concorrenza.

Ecco perché le Sezioni Unite hanno individuato un ulteriore fattore che vale ad accomunare, “pur nell’oggettiva diversità”, il perseguimento delle due forme di pericolosità sociale, ovverosia l’esigenza di eliminare dal circuito economico-legale beni ed altre attività illecitamente acquisiti. D’altro canto, proprio in virtù di questa logica, le Sezioni Unite hanno esplicato il motivo in base al quale, le misure di prevenzione di carattere patrimoniale, ex articolo 16, con rinvio all’articolo 4, del codice Antimafia, si applicano anche ai soggetti “portatori di pericolosità generica[79]”, categoria nella quale rientrarono anche le due ricorrenti.

3. La documentazione antimafia.

3.1 Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della normativa fino al Codice Antimafia.

Sin dalla legge n.575 del 1965, il legislatore si è preoccupato di estendere le misure di prevenzione nei confronti degli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”[80].

Con la presente legge si era cercato di prevenire nonché reprimere l’aggressione mafiosa all’economia locale e nazionale; si previde infatti in caso di definitività delle misure delle sanzioni specifiche che comportavano la decadenza ope legis da una serie di provvedimenti: “le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche o di diritti ad esse inerenti, nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori opere o di forniture pubbliche di cui fossero titolari le persone soggette ai detti provvedimenti”[81].

Però, per come era stato costruito il sistema preventivo, vi era una falla che non consentiva all’amministrazione di venire a conoscenza di tali misure e rifiutare ab initio il rilascio dei provvedimenti ut supra [82].

Sicché subito dopo la legge Rognoni-La Torre, il legislatore affidò tale arduo compito al prefetto[83]. Nasce così il meccanismo delle certificazioni antimafia.

Nella species si trattava di comunicazioni indirizzate dal Prefetto alle varie amministrazioni per renderle edotte sulla presenza di misure di prevenzione o comunque di altri simili provvedimenti ostativi al rilascio di titoli abilitativi o alla stipula di contratti pubblici[84].

Dopo le vicende di “Tangentopoli”, vennero introdotte le informazioni interdittive per tentativi di infiltrazione mafiosa, infatti la legge delega n.47 del 1994 assegnò al governo il compito di stabilire che le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilate dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico non potessero stipulare i contratti e i subcontratti di cui all’articolo 10 della legge n.575 del 1965, né rilasciare o consentire le concessioni e le erogazioni di cui al citato articolo 10, se non hanno acquisito complete informazioni, rilasciate dal Prefetto, circa l’insussistenza, nei confronti degli interessati, delle cause di decadenza o di divieto previste dalla medesima legge, ovvero di tentativi di infiltrazioni mafiosa nelle società o imprese interessate.

Con lo strumento delle informazioni interdittive antimafia vennero valorizzati “i poteri investigativi” del Prefetto. Naturalmente il suo intervento era limitato all’ambito di dei rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione più specificatamente ci riferiamo ad: appalti di lavori, servizi e forniture, subappalti, cottimi, subcontratti, concessioni demaniali ed erogazioni di finanziamenti pubblici. Questo ci fa capire come, rispetto alla odierna documentazione antimafia, l’informazione ut supra copriva comunque un’area applicativa ristretta: non, in generale, i provvedimenti necessari per accedere all’economia legale, bensì solo quelli volti ad attribuire al privato risorse e beni pubblici[85].

Tale disciplina pur se innovativa da un lato, dall’altro esponeva il fianco a dubbi interpretativi, fra tutti quello di comprendere se occorresse la prova della intervenuta infiltrazione mafiosa ovvero la dimostrazione della sussistenza di elementi dai quali fosse deducibile il tentativo di ingerenza[86].

Recentemente con la legge n.94 del 2009, il legislatore ha rafforzato i poteri di accertamento del Prefetto, riconoscendogli una funzione general-preventiva in materia di sicurezza, con riferimento al settore delle commesse pubbliche, sicché al fine di prevenire i tentativi di infiltrazione mafiosa nei pubblici appalti, si è attribuito il potere di disporre accessi e accertamenti nei cantieri delle imprese interessate all’esecuzione di lavori pubblici, avvalendosi, a tal fine, dei gruppi interforze [87].

Ma le vere novità si sono avute con la legge delega n.136 del 2010, che come sappiamo ha affidato al Governo il compito di creare un codice Antimafia e riprendendo ciò che abbiamo detto nei paragrafi precedenti, le critiche mosse nei confronti del legislatore delegante e delegato sono state aspre.

La legge delega n.136 del 2010 ha previsto la massima semplificazione della documentazione antimafia con l’istituzione di una Banca Dati Nazionale unica. Il codice Antimafia prevede due distinte tipologie di documentazione: 1) la comunicazione antimafia, disciplinata dall’articolo 84 comma 2, consistente nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 del codice stesso; 2) l’informazione antimafia, disciplinata dall’articolo 84 comma 2, consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di cui all’articolo 67 del codice stesso, nonché fatto salvo quanto disposto dall’articolo 91, comma 6 [88], nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4.

Fino alla celeberrima sentenza n. 565 del 2017 del Consiglio di Stato, il rapporto tra comunicazioni e informazioni è stato ricostruito, in linea di continuità con la tradizione degli istituti, in termini di necessaria alternatività: le prime concernenti – oltreché contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni pubbliche di più modesto valore – gli atti autorizzativi e abilitativi; le seconde applicabili, invece, solo a contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni aventi un valore eccedente determinate soglie, ossia esclusivamente a quelle ipotesi in cui l’amministrazione conferisce al privato denaro o altri beni pubblici[89].

È importante ricordare che il D.lgs n.153 del 2014 ha introdotto nel codice Antimafia l’articolo 89 bis il quale dispone: “quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere comunicazioni antimafia. La comunicazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta[90]. Tutto ciò sta a significare che, alla luce di tale disposizione, il Prefetto può rilasciare l’informativa interdittiva in luogo della richiesta comunicazione, quando, in esito alle verifiche necessarie per la predisposizione di quest’ultima, viene accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa. Tale disposizione ha fatto sorgere il dubbio se sia ancora corretto ricostruire i rapporti fra i due istituti nel senso di ricondurli a due ambiti paralleli e tra loro impermeabili[91].

3.2 Criticità dell’articolo 89 bis del Codice Antimafia.

Il Consiglio di Stato con il parere n.497 del 2015, ha affermato che l’articolo 89 bis del Codice Antimafia costituisce un’eccezione al principio di alternatività che contraddistingue la comunicazione dalla informazione antimafia.

Secondo l’organo consultivo, milita in tal senso, a parte una serie di disposizioni normative[92], l’esigenza di alzare il livello di tutela dell’economia legale di fronte all’aggressione criminale, sottoponendo a controllo: 1) i rapporti amministrativi che danno accesso a risorse pubbliche; 2) i rapporti che consentono l’esercizio di attività economiche, subordinandole al controllo preventivo della pubblica amministrazione[93]. Il Consiglio di Stato, continuando sul punto, ha affermato che tutto ciò non darebbe luogo a contraddizioni di carattere sistematico in ordine all’applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione[94], “posto che anche in ipotesi di attività private soggette a mere autorizzazioni l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e per la sicurezza pubblica[95]”.

Ma le prime critiche al parere del Consiglio di Stato non tardarono ad arrivare. Infatti la ricostruzione data dal Consiglio di Stato all’articolo 89 bis trovò nel T.A.R. di Catania un ostacolo.

Infatti il summenzionato tribunale sollevò la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 89 bis del codice Antimafia per contrasto con gli artt. 76, 77, comma 1, e 3 della Costituzione[96].  I giudici muovono dalla considerazione che, con l’art 89 bis, il legislatore ha voluto alzare il livello di tutela nelle ipotesi in cui, dalla consultazione della Banca Dati, emerga a carico dell’impresa la pregressa sussistenza di cause di decadenza, sospensione o divieto; in tal caso sebbene l’amministrazione abbia richiesto il rilascio della comunicazione antimafia, il Prefetto dovrebbe esperire verifiche sia in ordine all’attualità delle cause pregresse, sia in ordine ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa[97]. Per cui, i giudici rimettenti argomentando sostengono che, la disposizione in questione attribuirebbe al Prefetto il potere di rilascio dell’informativa nei soli casi in cui emerga dalla Banca Dati, una pregressa causa interdittiva, dunque un precedente collegamento del soggetto con la criminalità organizzata; sennonché, osservano i giudici remittenti, restringendo in tal modo l’ambito di applicazione dell’articolo 89 bis, l’estensione dell’informativa nei casi in cui è richiesta la comunicazione, andrebbe a configurare un eccesso di delega.

Tutto ciò perché, sempre a parere del collegio rimettente, fra i principi e le linee guida contenute nella legge delega n.136 del 2010, non è prevista la possibile estensione del rilascio dell’informazione, con i più severi accertamenti che tale provvedimento necessita, per alcuna delle ipotesi in cui l’ordinamento abbia ex ante previsto la richiesta e il rilascio della semplice comunicazione[98].

Inoltre l’articolo 89 bis contrasterebbe con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza poiché sembrerebbe che il legislatore abbia trattato situazioni che potrebbero considerarsi identiche in modo dissimile nella misura in cui non si comprenderebbe perché il Prefetto dovrebbe indagare circa la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa solo nei casi in cui sia richiesta la comunicazione antimafia relativamente ad un soggetto nei cui confronti risultino pregresse cause interdittive, mentre tale accertamento sarebbe precluso in tutti gli altri casi, quando pure i tentativi di infiltrazione potrebbero di fatto sussistere[99].

Secondo la Corte Costituzionale, con sentenza n.4 del 2018, la questione relativa alla violazione degli articoli 76 e 77, comma 1, della Costituzione, non è fondata poiché il giudice rimettente lamenta che la legge n.136 del 2010 non avrebbe dato la possibilità di attribuire alla sola informazione antimafia gli effetti interdittivi propri della comunicazione, e insiste nel rilevare che anteriormente alla legge ut supra, la quale non avrebbe innovato sul punto, l’informazione e la comunicazione costituiscono documenti alternativi, in virtù del principio di alternatività che regge la documentazione antimafia, nel senso che l’uno non avrebbe mai potuto produrre gli effetti dell’altro.

In verità i giudici della Consulta sostengono che non esisteva alcun ostacolo logico o concettuale che imponesse di circoscrivere gli effetti della informazione antimafia alle attività contrattuali della pubblica amministrazione, escludendone quelle ulteriori indicate ora dall’articolo 67 del Codice Antimafia[100]. Tuttavia, argomenta la Consulta, spetta alla giurisprudenza comune, in sede di attività ermeneutica, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia[101].

Nel caso di specie la giurisprudenza amministrativa e lo stesso giudice a quo, hanno interpretato l’articolo 89 bis del Codice Antimafia nel senso che esso “obbliga” di adottare l’informazione antimafia, non solo nel caso n cui vi siano le famose cause impeditive dell’articolo 67 dello stesso codice, ma anche quando emerge chiaramente una precedente documentazione interdittiva in corso di validità[102]. La Corte non si arroga il potere di sindacare l’approdo ermeneutico cui è pervenuta la giurisprudenza amministrativa e il giudice rimettente poiché non spetta ad essa, anche perché, e dal testo della pronuncia si evince chiaramente, la stessa Consulta considera tale risultato interpretativo come non rilevante ai fini della legittimità costituzionale della disposizione denunziata. Infatti, prosegue la Consulta, “una volta chiarito che, nella fisiologica attività di “riempimento” della delega che gli compete, il legislatore delegato ha facoltà di estendere gli effetti dell’informazione antimafia fino a precludere gli atti e i provvedimenti elencati nell’articolo 67 del d.lgs. n.159 del 2011, la circostanza che ciò sia stato disposto, o no, da tale decreto, e in quali casi, ricade interamente nella sfera di interpretazione della legge, di competenza del giudice comune. Questa Corte deve invece limitarsi a rilevare che un tale effetto trova copertura nella legge delega, sicché la questione non è fondata[103].

3.3 Cambiamento di rotta nell’applicazione della disciplina della documentazione antimafia: la sentenza del Consiglio di Stato sez. III, n. 565/2017.

La recentissima pronuncia del supremo organo di giustizia amministrativa, risulta essere un approdo giurisprudenziale che modifica sostanzialmente quello che era l’impianto ermeneutico che si era costruito nella legislazione anteriore al nuovo Codice Antimafia. Viene messo in discussione il principio di necessaria alternatività tra l’informazione antimafia e la comunicazione antimafia.

Il Consiglio di Stato, si discosta completamente dalla ricostruzione interpretativa effettuata dalla giurisprudenza amministrativa e dal T.A.R della Sicilia, sezione distaccata di Catania, in sede di questione di legittimità costituzionale dell’articolo 89 bis del Codice Antimafia per violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, della Costituzione. Questione che come abbiamo analizzato ut supra è stata ritenuta infondata dalla Consulta.

La decisione del Consiglio di Stato risulta di particolare interesse soprattutto per la ricchezza delle argomentazioni che ne sorreggono la struttura motivazionale. I giudici del supremo organo di giustizia amministrativa partono dal presupposto che la criminalità organizzata di stampo mafioso si è radicata nel tessuto economico seguendo un programma nel quale “l’aggiudicazione degli appalti o il conseguimento delle concessioni ed elargizioni costituisce certo una parte cospicua, ma non esclusiva né satisfattiva per le mire egemoniche della criminalità[104].

La rigida distinzione tra informazione antimafia e comunicazione antimafia, che come sappiamo ormai la prima è applicabile ad appalti, concessioni e sovvenzione pubbliche, mentre la seconda è applicabile alle autorizzazioni, ha fatto sì che si creasse un fenomeno spigoloso in virtù del quale le varie organizzazioni mafiose hanno gestito “lucrose attività economiche, in vasti settori dell’economia privata, mediante imprese infiltrate, inquinate o condizionate da esse, senza che l’ordinamento potesse reagire per contrastare tale infiltrazione[105]”. Chiaramente, da qui parte l’esigenza di superare l’impermeabilità del principio di alternatività proprio della comunicazione e informazione antimafia. Siffatto cambio di rotta, lo si poteva già intravedere nella legge delega n.136 del 2010[106], infatti il legislatore, nel limitare il contenuto della Banca Dati Nazionale unica della documentazione antimafia, ha voluto riferirsi a “i rapporti, anche già pendenti, con la pubblica amministrazione[107]”. Ciò è particolarmente significativo in quanto, una visione moderna e non troppo formalistica del diritto amministrativo, permette di individuare un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio, autorizzatorio, o addirittura soggetta a S.C.I.A[108].

Deriva da ciò quindi, la scelta legittima del legislatore volta a creare delle disposizioni normative da inserire nel Codice Antimafia, al fine di superare l’ambiguità applicativa dell’informazione e comunicazione antimafia. Ulteriore conseguenza di tutto il discorso fatto fino ad ora è che l’articolo 89 bis del Codice Antimafia rappresenterebbe la specificazione e procedimentalizzazione di un potere, riconosciuto al Prefetto, già insito nel quadro normativo del Codice stesso.

Sicché il Consiglio di Stato afferma che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal T.A.R Sicilia, sezione di Catania, in relazione al contrasto tra l’articolo 89 bis del Codice Antimafia e gli artt. 76 e 77, comma 1, Cost. non è da considerare dirimente poiché la stessa disposizione codicistica non ha natura attributiva di un potere ex novo, ma possiede al più carattere specificativo[109]. In particolare i giudici del supremo organo di giustizia amministrativa si soffermano sul fatto che “lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose[110]”.

I giudici continuando nelle loro argomentazioni hanno affermato che sia l’attività repressiva delle infiltrazioni mafiose sia quella preventiva, nel cui ambito si collocherebbe la disciplina dell’informazione e comunicazione antimafia, trovano fondamento nella Costituzione, ossia nel principio contenuto nell’articolo 41, comma 2, sul presupposto che l’attività mafiosa, costituisce un danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Specificatamente in tale pronuncia possiamo notare come i giudici hanno effettuato un bilanciamento tra varie esigenze e cioè, da un lato preservare i rapporti economici dalle possibili infiltrazioni mafiose, dall’altro garantire la libertà di impresa. Tale bilanciamento deve essere effettuato con il meccanismo dell’articolo 91, comma 5, del Codice Antimafia[111] e cioè “…il prefetto competente estende gli accertamenti pure ai soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa. Per le imprese costituite all’estero e prive di sede secondaria nel territorio dello Stato, il prefetto svolge accertamenti nei riguardi delle persone fisiche che esercitano poteri di amministrazione, di rappresentanza o di direzione. A tal fine, il prefetto verifica l’assenza delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’articolo 67, e accerta se risultano elementi dai quali sia possibile desumere la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, anche attraverso i collegamenti informatici di cui all’articolo 98, comma 3. Il prefetto, anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna l’esito dell’informazione al venire meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa[112]”.

In altri termini, essendo che si tratta di una misura che ha carattere ibrido ossia preventivo-cautelare e non punitivo[113], l’informativa opererebbe rebus sic stantibus, e cioè fintanto che il quadro fattuale rimanga invariato[114]. A parere del Consiglio, non sarebbe molto ragionevole limitare l’informazione antimafia nell’ambito dei soli rapporti stricto sensu con la Pubblica Amministrazione, visto e considerato che ci sono organizzazioni criminali che condizionano non solo l’economia pubblica ma anche quella privata.

Agendo in modo diverso si creerebbero delle zone grigie all’interno del nostro sistema economico, che si sottrarrebbero dal controllo preventivo da parte dello Stato[115].

Ma non è finita qui, infatti il Consiglio continuando nelle sue argomentazioni afferma che, in un quadro normativo cosi delineato e prefigurato, sembrerebbe insito il rischio che la libertà di iniziativa economica privata, disciplinata e protetta dalla nostra Carta Fondamentale, all’articolo 41, sarebbe compressa o meglio sacrificata per delle valutazioni eccessivamente discrezionali ad opera del Prefetto, per cui ci sarebbe anche questo tipo di problema legato all’eccessiva discrezionalità da parte di quest’ultimo.[116] Il tutto è ovviato dal fatto che, mentre nel processo penale vigono i più rigidi criteri della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, in questa fattispecie trova invece applicazione la regola[117] del “più probabile che non” in base alla quale il pericolo di un’infiltrazione mafiosa può essere accertato anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, senza che sia necessario raggiungere il massimo grado di certezza dei suoi presupposti.

Per cui per concludere sul punto, il Consiglio di Stato si limita ad affermare che il Prefetto, nella delicatissima ponderazione fra i valori in gioco, deve basare la propria decisione su un insieme di elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa[118].

3.4 La documentazione antimafia e presunzione di mafiosità come limite al diritto di esercitare un’attività economica privata.

La pregevole ricostruzione effettuata dal Consiglio di Stato nella pronuncia analizzata nel paragrafo precedente, rappresenta un fondamentale tassello nel percorso evolutivo della documentazione antimafia e dei suoi evidenti riflessi sulla libertà economica privata.

Occorre però adesso, effettuare un passo indietro rispetto al filo conduttore che abbiamo seguito fino ad ora per capire la sistematica del codice e la ratio legis che, seppur in parte analizzata nei paragrafi precedenti, ha spinto il legislatore alla formulazione del Codice Antimafia, nella species la parte relativa alla documentazione antimafia.

La nuova legislazione antimafia persegue, come abbiamo ripetuto più volte[119], l’obiettivo, il fine, di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche sia con lo strumento dell’informazione antimafia e quindi nei rapporti tra privati e Pubbliche Amministrazioni[120], sia anche con lo strumento della comunicazione antimafia, con lo scopo naturalmente di inibire le attività economiche[121] intrattenute tra i privati stessi.

Già la collocazione sistematica della documentazione antimafia[122] ci dovrebbe far riflettere su un punto fondamentale ossia che l’intento del legislatore è stato quello di distinguere tali misure, da tutte quelle che hanno natura penale o quanto meno para-penale e da tutte quelle contenute nel Libro I del Codice Antimafia, il quale contiene tutto il sistema delle misure personali.

Ora fatta questa premessa di ordine strutturale dobbiamo capire quali sono i presupposti della comunicazione antimafia e della informazione antimafia, anche se in parte li avevamo già individuati.

Il presupposto per l’emissione della comunicazione antimafia, consiste sostanzialmente nell’attestazione, nella verifica, che a carico di determinati soggetti[123], non siano state emesse dal tribunale misure di prevenzione personali definitive.

Mentre per l’informazione antimafia, il presupposto per la sua emissione è un po’ differente in quanto, come abbiamo visto nel paragrafo precedente vi è un momento valutativo caratterizzato da un certo margine di discrezionalità del Prefetto. Essa prescinde, per quanto riguarda la sua applicazione, da qualsiasi indagine preliminare o da qualsiasi giudizio penale, anche se questo non dispensa il Prefetto dal compiere una verifica sulla presenza dei cosiddetti delitti spia[124].

Gli elementi spia, sono degli indicatori che ci permettono di individuare la presenza mafiosa in termini di infiltrazione: ad esempio la condanna per taluni delitti o la mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione da parte dell’imprenditore. In questi casi[125] la presenza di legami con la criminalità organizzata è data per presupposta dal legislatore, salva naturalmente la prova contraria[126].

Da questo punto di vista sono importanti due celebri sentenze del Consiglio di Stato, la n.981 del 2017 e la n.982 del 2017, di riforma delle sentenze del T.A.R Lazio, ossia le n. 8064 del 2014 e 8059 del 2014.

In questi provvedimenti il Consiglio di Stato mette in luce la natura discrezionale dell’attività della prefettura “che deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale… senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo”[127]; tale orientamento è stato ribadito in un’altra sentenza del Consiglio di Stato, la n.1315 del 2017, con riferimento ad un’ipotesi di traffico illecito di rifiuti di cui all’articolo 260 del D.lgs n.152 del 2006[128].

Oltre agli elementi spia, individuati dal Codice Antimafia agli artt. 84, comma 4, lett. a) e 91, comma 6, il Consiglio di Stato ne individua di nuovi. Tali elementi ci permettono di capire quando una determinata azienda o impresa si trovi in una condizione di potenziale o attuale asservimento, rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa: proprio partendo da tale condizione di soggezione, l’attività di impresa potrebbe essere finalizzata ad agevolare, anche in modo indiretto, le varie attività delle organizzazioni criminali. Da questo punto di vista rileva una recente sentenza del T.A.R. di Catanzaro, la n.1804 del 2016, con la quale i giudici del suddetto tribunale rigettano un ricorso per l’annullamento: 1) dell’annotazione dell’interdittiva antimafia su casellario informatico dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture; 2) dell’informazione interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Vibo Valentia; 3) del provvedimento con cui la prefettura di Vibo Valentia ha rigettato la richiesta di riesame e revoca dell’interdittiva.

Dal punto di vista fattuale “omissis Srl” aveva impugnato l’atto con il quale l’Autorità ha comunicato l‘annotazione dell’interdittiva su casellario informatico, nonché l’informazione antimafia emessa dalla Prefettura di Vibo Valentia. A fondamento della pretesa, la società ricorrente ha dedotto la violazione dell’articolo 7 della legge n.241 del 1990, in relazione all’articolo 8 del D.P.R 5 ottobre 2010 n.207 e all’articolo 91, comma 5, del Codice Antimafia[129]. La società ricorrente, ha inoltre dedotto l’insussistenza dei presupposti per l’emissione del provvedimento interdittivo.

Si sono costituiti il Ministero dell’Interno e l’Autorità di vigilanza che chiaramente hanno chiesto il rigetto del ricorso. La ricorrente ha proposto ulteriori motivi aggiunti, estendendo l’impugnazione al provvedimento con cui la Prefettura di Vibo Valentia ha rigettato la richiesta di riesame e revoca dell’interdittiva[130].

I giudici del T.A.R di Catanzaro hanno rigettato il ricorso sulla base di quegli ulteriori elementi spia creati dal Consiglio di Stato, ragionando in questi termini: il tribunale ha disatteso la censura relativa alla violazione dell’articolo 7[131] della n.241 del 1990 poiché riguardo all’informazione antimafia, è noto che ai fini dell’emissione della misura non è richiesta alcuna comunicazione di avvio, a causa delle esigenze che stanno alla base del provvedimento stesso ossia celerità, tempestività e necessaria riservatezza delle attività che stanno alla base di esso; per cui la comunicazione di avvio del procedimento non avrebbe, ragion d’essere, in quanto nessun apporto potrebbe derivare dalla partecipazione procedimentale del soggetto interessato[132]; l’informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Vibo Valentia si basava sui seguenti elementi e cioè il socio della società “omissis srl” e socio accomandatario della “omissis di omissis & c” è stato controllato con soggetto sul cui conto figurano varie vicende di polizia per associazione di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, usura, estorsione, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, ricettazione, violazioni di norme in materia di armi e sostanze stupefacenti[133], inoltre alle dipendenze della “omissis di omissis & c.” ha lavorato dal 2004 al 2012  “omissis” (padre dei soggetti indicati) a carico del quale figurano numerose vicende di polizia, tra le quali una denuncia nell’ambito di un procedimento penale per il reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale, controllato in numerose occasioni con soggetti sul cui conto figurano vicende di polizia, anche per associazione di tipo mafioso e omicidio doloso; sulla base di questi elementi la ricorrente lamenta che questi ultimi sono da riferire alla “omissis” e non alla “omissis srl” e che comunque i dati evidenziati sono irrilevanti ai fini della emissione del provvedimento interdittivo, atteso che l’episodio attinente all’incontro tra “omissis” con un soggetto con precedenti è del tutto isolato e non che non sono specificate modalità di esso e circostanze in cui è avvenuto. Anche il legame parentale sarebbe del tutto irrilevante, trattandosi di soggetto non indicato come appartenente alla criminalità organizzata e non coinvolto in qualità di indagato in procedimenti riguardanti reati di mafia, giacché sentito unicamente come possibile testimone[134].

Le censure richiamate sono prive di fondamento, il tribunale sostiene che di fatto l’incontro con un soggetto che ha avuto determinati precedenti, in effetti di per se non è significativo, trattandosi di un fatto isolato, di cui non sono indicate nemmeno le circostanze, ma comunque si tratta di un dato che si inserisce in un quadro ancor più complesso, i cui aspetti significativi sono quelli attinenti alla posizione del padre dei soci e ai rapporti tra la “omissis” e la criminalità organizzata. Quanto alla posizione del padre dei soci, va chiarito che la rilevanza di essa non discende dal solo vincolo parentale e dal fatto che egli ha prestato la sua opera per molti anni, ma dal ruolo che gli viene attribuito dagli inquirenti nella gestione della società[135]. Ma per concludere sul punto, la cosa più importante che i giudici del summenzionato tribunale evidenziano è che il legislatore, attraverso la normativa antimafia, ha inteso garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento e di infiltrazione mafiosa, con la conseguenza che l’emissione di una documentazione antimafia, nella species un’informazione, prescinde dal concreto accertamento di responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di una infiltrazione mafiosa[136] ; per cui non ha rilievo determinante il fatto che il padre sia rimasto estraneo alle indagini in corso, in quanto, come recentemente rilevato dalla giurisprudenza: “è estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio, (né occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il concorso esterno o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’articolo 7 della legge n.203 del 1991),poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante. Occorre invece valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più probabile che non, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso[137]”.

Per cui abbiamo capito dalla sentenza che la disciplina codicistica lascia un ampio margine di discrezionalità al Prefetto, questo perché, se il legislatore avesse effettuato una tipizzazione stricto sensu all’interno delle norme, avrebbe prestato il fianco alle organizzazioni criminali, le quali avrebbero trovato un modo per eludere facilmente il disposto normativo[138].

La relazione può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non in contrasto con altro ragionamento presuntivo di segno contrario, atto a dimostrare, per la sua univocità, attualità e gravità, il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa[139].

Quindi dall’analisi della sentenza del T.A.R di Catanzaro, abbiamo potuto capire come, la delicatezza degli interessi in gioco e l’esigenza di ordine pubblico che la legislazione antimafia difende, giustificano la portata derogatoria degli istituti del Codice Antimafia rispetto ai principi che governano il procedimento amministrativo e che sono consacrati all’interno della legge n.241 del 1990 e successive modificazioni. Il Consiglio di Stato non manca di rimarcare il fatto che le garanzie procedimentali non sono un valore assoluto da preservare in ogni caso, ma solo “beni” di ordine procedimentale, meritevoli di protezione se e in quanto compatibili con la tutela di valori differenti, di rango superiore, per cui ribadisce lo stesso Consiglio di Stato, nella sua giurisprudenza, che in questo tipo di procedimenti che applicano dette misure, non sono previsti né la comunicazione di avvio di cui all’articolo 7 della legge n.241 del 1990, né tutta quella serie di garanzie partecipative che l’ordinamento riconosce, e che il vincolo dei provvedimenti prefettizi antimafia, rispetto alle amministrazioni destinatarie della documentazione stessa, tenute a recepirne l’effetto interdittivo senza margini di residua discrezionalità, rende irrilevante l’esistenza di errori procedimentali da queste compiuti, nell’emissione dei provvedimenti consequenziali al documento antimafia[140], vizi che naturalmente non inficiano, o comunque non comportano l’invalidità ai sensi dell’articolo 21 octies, comma 2, della legge n.241 del 1990 per il contenuto vincolante dei provvedimenti stessi[141].

A livello processuale, la disciplina della documentazione antimafia è peculiare perché, la sua portata derogatoria non manca di far sentire il suo effetto, sia sul piano della giurisdizione, che compete al giudice amministrativo, anche qualora i provvedimenti vincolati fossero emessi dalle amministrazioni nella fase di pendenza del rapporto contrattuale; sia quanto alla competenza, che si radica, per il principio del simultaneus processus, in capo al Tribunale Amministrativo Regionale[142], dove ha sede la Prefettura che ha emesso il provvedimento antimafia, anche nell’ipotesi in cui siano impugnati differenti atti di revoca, recesso e decadenza da parte delle singole amministrazioni dislocate sull’intero territorio nazionale; sia quanto al rito e alla scansione processuale, che è quella del giudizio ordinario, anche quando siano impugnati diversi atti di revoca e o di recesso, adottati dalle stazioni appaltanti, senza che sia applicabile il meccanismo contenuto nell’articolo 119[143], comma 2, del Codice di Procedura Amministrativa per il rito degli appalti[144].

Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di spiegare la differenza tra comunicazione e informazione antimafia in modo generale, sarebbe opportuno adesso soffermarsi su alcuni aspetti che non sono stati tratti precedentemente.

Ora ci sembra abbastanza chiaro in che cosa consiste una comunicazione antimafia, e cioè essa si basa su una constatazione, su una verifica, di una delle cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 del Codice Antimafia[145], e cioè dunque l’applicazione, con un provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali, statuite dall’autorità giudiziaria, previste dal libro I, titolo I, capo II, del Codice Antimafia.

Ma cosa deve intendersi per “definitivo”? Il Consiglio di Stato, ha chiarito a riguardo che per definitivo si deve intendere il provvedimento non più soggetto a impugnazione, che ha acquisito una certa stabilità, equivalente al giudicato.

Per cui la comunicazione antimafia si caratterizza per il fatto che essa funge da monito, fotografando quindi il “cristallizzarsi” di una situazione di permeabilità mafiosa contenuta in un provvedimento giurisdizionale ormai definitivo, con il quale il tribunale ha applicato una misura di prevenzione personale, ed ha un contenuto vincolato, di tipo accertativo, che attesta l’esistenza, o meno, di tale situazione tipizzata nel provvedimento di prevenzione[146].

Ma quali sono gli effetti che essa produce? In parte li abbiamo già visti, ma è bene ricostruire il quadro logico. Esse hanno efficacia interdittiva rispetto a tutti i provvedimenti autorizzatori, concessori o abilitativi per lo svolgimento di attività di impresa, nonché a tutte le attività soggette a S.C.I.A e a silenzio assenso, comportando il divieto di stipulare contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualunque tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera[147].

L’informazione antimafia invece consiste nell’attestazione della sussistenza di una delle cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 del Codice Antimafia, nonché nel controllo sulla sussistenza di pericoli di infiltrazioni mafiose nelle varie compagine imprenditoriali. La differenza sostanziale con la comunicazione antimafia si basa sul fatto che, se è vero che entrambe le documentazioni hanno un contenuto di tipo vincolato, da un altro lato l’informazione ha un contenuto anche discrezionale, nella parte in cui il Prefetto[148] ritenga la sussistenza o meno di pericoli di infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale[149].

In questo contesto, particolare rilevanza assumono le circostanze che trascendono dalle sentenze di condanna definitive e non, confermate in appello o di rinvio a giudizio per specifici delitti precisati dall’articolo 84 del Codice Antimafia[150]: lapidare è una sentenza del Consiglio di Stato, la n. 4555 del 2016, nella quale viene affermato che in caso di condanna, in sede penale, l’interdittiva antimafia scatta automaticamente, mentre il semplice deferimento all’autorità può costituire un elemento, all’interno delle valutazioni della Prefettura, sulla verifica dei pericoli di infiltrazione mafiosa[151]. Il giudice amministrativo non può sostituirsi a quello penale nella valutazione dei fatti penalmente rilevanti e nel vaglio delle fonti di prova[152].

Tali sentenze di condanna, hanno la particolarità di assumere valore ai fini dell’interdittiva antimafia anche se risalenti nel tempo, quando naturalmente, e lo abbiamo ripetuto più volte, il Prefetto ha raccolto elementi sintomatici di un condizionamento attuale all’interno dell’organizzazione dell’impresa[153].

A seguito delle sentenze del T.A.R di Catanzaro e del Consiglio di Stato, rispettivamente la n.1619 del 2016 e la n.4030 del 2016, anche in caso di assoluzione, le motivazioni addotte dal giudice penale potrebbero essere comunque usate per confermare, per dare certezza, all’impianto accusatorio dell’interdittiva antimafia.

L’esito assolutorio in sede penale, potrà influire notevolmente sulla sorte dell’interdittiva nel caso in cui non sussistano altri elementi atti a dimostrare l’esistenza del condizionamento mafioso[154]; al contrario, proprio l’esistenza di altri elementi ha indotto il Consiglio di Stato ad affermare la legittimità dell’informativa antimafia[155].

Comunque da questo punto di vista, e come è stato largamente affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, le nuove acquisizioni giudiziarie potranno portare, su richiesta dell’interessato, anche ad una revisione della prima interdittiva, ma sussiste comunque l’obbligo da parte del Prefetto, ex articolo 95, comma 5, del Codice Antimafia, di procedere al riesame della informativa antimafia in caso di circostanziata richiesta di aggiornamento da parte del soggetto interessato; peraltro l’assoluzione per prescrizione del reato non basta a smentire la validità dei fatti addebitati, laddove dalle motivazioni della sentenza emergano elementi dove si percepisce il pericolo di infiltrazione mafiosa[156]. Per concludere sul punto dobbiamo inoltre dire che assumono rilievo, per l’emissione della informativa, un po’ tutte le sentenze emesse dai giudici penali, civili e tributari, basti che dalla motivazione debbano emergere chiaramente elementi di sussistenza di pericolo di infiltrazione mafiosa e che le varie organizzazioni criminali abbiano fornito delle agevolazioni, anche solo a livello logistico alle varie imprese[157].

3.4.1 Rapporti tra privati e amministrazioni: la presunzione di mafiosità.

La pregevole ricostruzione effettuata dal Consiglio di Stato, nella sentenza che abbiamo analizzato precedentemente ossia la n.565 del 2017, ci deve far riflettere su una questione di non poco conto e cioè, la disciplina che stiamo cercando di sviscerare comprime alcuni diritti fondamentali tra i quali l’iniziativa economica privata, disciplinata dall’articolo 41 della Costituzione.

Ci sembra abbastanza chiaro come il Consiglio di Stato in quella pronuncia abbia avallato la tesi secondo la quale il rilascio dei titoli abilitativi necessari per l’esercizio di una impresa è subordinato all’acquisizione delle valutazione prettamente discrezionali del Prefetto, circa la sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa.

Per questo motivo sostiene il Consiglio, il principio contenuto all’interno dell’articolo 41 della Costituzione, può essere compresso, poiché a seguito del bilanciamento con altri principi quali la sicurezza e l’ordine pubblico[158], l’esigenza di combattere le organizzazioni mafiose risulta essere di primaria importanza e tutto ciò giustifica la compressione di determinati diritti che trovano tutela nella nostra Costituzione.

Abbiamo già rilevato come l’informativa antimafia sia stata confinata al solo ambito dell’economia pubblica, ma quali sono state le ragioni che hanno indotto il legislatore ad effettuare tale scelta? Molto probabilmente il legislatore ha voluto differenziare i livelli di tutela a seconda delle circostanze e dei contrapposti valori da controbilanciare.

Nella maggior parte dei casi, il livello di tutela è anticipato ad una soglia che è quasi quella del sospetto, infatti il provvedimento del Prefetto si basa non su un accertamento giurisdizionale, anche se esso ne deve tenere conto qualora ci fosse un procedimento penale, civile e tributario pendente, ma su rapporti di polizia, cointeressenze economiche, e spesso massime di esperienza. Del resto non potrebbe essere altrimenti: sostiene infatti autorevole dottrina che la fattispecie penale e quella di prevenzione sono differenziabili solo alla stregua del diverso livello di prova raggiungibile circa l’appartenenza dei singoli associati all’associazione e più precisamente, mentre al processo penale finisce col corrispondere l’area probatoria avente come estremi l’indizio suscettivo di approfondimenti e la vera e propria prova, il processo di prevenzione dovrebbe invece ricomprendere l’area che va dal sospetto oggettivamente suffragato all’indizio confinante con quello sufficiente ad attivare la normale repressione penale. Le massime d’esperienza sono ricavate da generalizzazioni che attingono a dati, non solo frutto di attività investigativa, ma soprattutto sociologici e culturali.

Si può allora affermare che in determinate ipotesi quali, concessioni o rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione è giustificata un’anticipazione della soglia di tutela, questo perché la stessa amministrazione deve tutelare e realizzare interessi pubblici. Al legislatore è sembrato opportuno prevedere una risposta ancora più forte, contro i vari tentativi di infiltrazione mafiosa all’interno del tessuto dell’economia pubblica[159].

Diverso è il discorso per quanto riguarda il settore dell’economia privata, dove non si scambia denaro pubblico o altre utilità, non perché il problema sia di poco conto, ma perché cambiano completamente i presupposti di accertamento dei tentativi di infiltrazione, qui si tratta di capire se è ragionevole o meno escludere un determinato soggetto, a presunta mafiosità, dal tessuto economico. Perché presunta mafiosità? Perché la si desume non da accertamenti giurisdizionali, ma è l’autorità amministrativa sulla scorta di valutazioni, ex ante, discrezionali che la desume, applicando massime d’esperienza[160].

Analizzando, dalla lente di ingrandimento dell’economia privata, la legge delega n.136 del 2010, capiamo come il legislatore non abbia voluto rompere i ponti con il passato. Certamente la creazione di una banca dati unica, sembra ispirata ad una logica di avvicinamento tra comunicazione antimafia e informazione antimafia; tuttavia si può affermare che la creazione della stessa comporta comunque degli sgravi in termini di alleggerimento della procedura di rilascio della documentazione antimafia e che, sebbene essa contenga una pletora di informazioni che sarebbero di per se idonee a fondare un’informativa antimafia, ciò non significa, necessariamente e ipso facto, che la legge attribuisca il potere di adottarla sempre e comunque[161].

Alcuni dati normativi ci potrebbero aiutare. Se veramente il legislatore avesse voluto superare l’assetto precedente, ossia la distinzione tra comunicazione e informazione, lo avrebbe già fatto a partire dall’articolo 91 del Codice Antimafia. Si potrebbe obiettare che, al di là del ragionamento sulla continuità/discontinuità con la legislazione precedente, l’articolo 91 del Codice Antimafia nello stabilire per quali provvedimenti debba essere richiesta l’informativa prefettizia, rimanda all’articolo 67 dello stesso, che contempla sia le “licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio” sia le “iscrizioni o provvedimenti a contenuto aurotizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati[162].

Tuttavia la disposizione dell’articolo 91 sembra precludere siffatta interpretazione, poiché pur essendovi il richiamo all’articolo 67, pone la condizione che il valore ivi elencato sia: a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati; b) superiore a 150 mila euro per le concessioni di acque pubbliche o di beni demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo per lo svolgimento di attività imprenditoriali; c) superiore a 150 mila euro per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi, concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche[163] .

Sembrerebbe dunque che il legislatore non abbia voluto fare indicazione anche alle licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio, e o alle iscrizioni o ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lett a) e lett. f).

Ancora, si potrebbe evidenziare che se il legislatore avesse veramente voluto estendere il meccanismo delle informazioni antimafia al mondo dell’economia privata, avrebbe modificato, come è accaduto per l’articolo 89 bis del Codice, quantomeno gli articoli 92 e 94 dello stesso; questi ultimi infatti nel prevedere che l’informativa interdittiva sopravvenuta comporta la decadenza dei benefici già acquisiti, fanno esclusivo riferimento ai provvedimenti indicati nell’articolo 67 rispetto ai quali possa assumersi un valore economico direttamente quantificabile[164].

Tutto ciò appare maggiormente fedele alla tesi secondo la quale, solamente nel momento in cui si cerca di accedere alle risorse pubbliche, l’ordinamento reagisce con una tutela preventiva fortemente accentuata, sottoponendo l’impresa alle valutazioni discrezionali del Prefetto circa la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa. Importante è analizzare invece la posizione del Consiglio di Stato, che nel suo parere n.497 del 2015 ha ritenuto che “quanto al coordinamento con l’articolo 94 del D.lgs n.159 del 2011, secondo cui l’informazione antimafia interdittiva determina l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione o d’ottenere concessioni ed erogazioni pubbliche, nulla prevedendo circa eventuali effetti su licenze o autorizzazioni, è sufficiente rilevare che tale disposizione disciplina la comune efficacia dell’atto, senza interferire con l’estensione stabilita dall’articolo 89 bis, che individua, alle condizioni previste, nell’informazione antimafia una fattispecie equivalente alla comunicazione antimafia”.

Perciò alla luce delle considerazioni fatte, quando abbiamo analizzato la questione legata all’articolo 89 bis, si potrebbe quindi ritenere che la stessa disposizione, a meno che non si ritengano fondati i dubbi di costituzionalità sollevati dal T.A.R di Catania, consenta, il passaggio da comunicazione antimafia ad informazione antimafia solo qualora venga in rilievo un procedimento che dia accesso alle risorse pubbliche e che, proprio per le ragioni che ci siamo detti all’inizio di questo paragrafo, potrebbe condurre in astratto al rilascio di un’informativa interdittiva, fermo restando il valore soglia da rispettare di cui all’articolo 91 del Codice Antimafia, tutto questo perché, la ragione che ha spinto il legislatore nel prevedere tale meccanismo, si basa sul fatto che al di sotto delle soglie previste dal Codice, allo stesso è sembrato opportuno proteggere l’interesse, le risorse pubbliche, da agenti su cui molto probabilmente si adombrano le mani della criminalità organizzata[165].

3.4.2 Casi in cui non bisogna acquisire la documentazione antimafia.

Il legislatore ha previsto determinati casi in cui la documentazione antimafia, nella forma della comunicazione e della informazione, non debba essere acquisita ossia:

  • Non può essere acquisita per i rapporti tra i soggetti pubblici di cui all’articolo 83, comma 1, del Codice Antimafia;

  • Per i rapporti tra i soggetti pubblici di cui al n.1 ed altri soggetti anche privati, i cui organi rappresentativi e quelli aventi funzione di amministrazione e di controllo sono sottoposti, per disposizione di legge o di regolamento, alla verifica di particolari requisiti di onorabilità tali da escludere la sussistenza di una delle cause di sospensione, di decadenza o di divieto di cui all’articolo 67 del Codice Antimafia;

  • Per il rilascio o il rinnovo delle autorizzazioni o licenze di polizia di competenza delle autorità nazionali e provinciali di pubblica sicurezza;

  • Per la stipulazione o approvazione di contratti per la concessione di erogazioni a favore di chi esercita attività agricole o professionali, non organizzate in forma di impresa, nonché a favore di chi esercita attività artigiana in forma di impresa individuale e attività di lavoro autonomo anche intellettuale in forma individuale;

  • Per i provvedimenti, gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 150.000 Euro.

3.4.3 Validità e termini di rilascio della documentazione antimafia.

La comunicazione e l’informazione antimafia hanno rispettivamente la validità di 6 e 12 mesi, salvo il caso di intervenute variazioni nell’assetto societario.

A tal proposito i legali rappresentanti delle imprese destinatarie di comunicazioni o informazioni in corso di validità hanno l’obbligo di comunicare alla Prefettura qualsiasi modifica dell’assetto proprietario e dei propri organi sociali entro 30 giorni dalla data della modifica, trasmettendo copia dell’atto o contratto che determina tali modifiche e, in caso di variazione degli organi sociali, la dichiarazione sostitutiva di certificazione dei familiari conviventi resa dai soggetti subentrati nelle cariche.

La violazione dell’obbligo di comunicazione all’amministrazione procedente delle variazioni societarie è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 20.000 a 60.000 euro.

Però secondo un orientamento ormai consolidato[166], l’informativa antimafia prefettizia che accerti, verifichi, la sussistenza di infiltrazioni mafiose, ha una validità tendenzialmente indeterminata nel tempo, salvo l’emergere di fatti nuovi di segno contrario, e in tal caso bisogna effettuare una rinnovazione/aggiornamento dell’istruttoria ed emessa eventualmente un’informativa liberatoria[167]: il termine di 12 mesi indicato dall’articolo 86, comma 2, del Codice Antimafia, sempre secondo tale orientamento, va inteso come obbligo per le singole amministrazioni di richiedere nuovamente la documentazione antimafia, una volta trascorsi 12 mesi dalla precedente informativa, al fine di verificare l’attualità dell’esistenza del pericolo di infiltrazioni dell’azienda interessata[168].

Per quanto concerne invece i termini per il rilascio, la norma chiave è l’articolo 88 del Codice Antimafia, infatti il rilascio della comunicazione antimafia è immediatamente conseguente alla consultazione della Banca Dati Nazionale Unica Antimafia.

Qualora dalla consultazione della banca dati dovessero emergere elementi suscettibili di necessari approfondimenti il Prefetto dispone le opportune verifiche e rilascia le comunicazioni antimafia nel termine di 30 giorni dalla data della consultazione. Decorso detto termine le amministrazioni interessate procedono anche in assenza della comunicazione antimafia previa acquisizione dell’autocertificazione ex articolo 89 del Codice Antimafia.

Invece per quanto concerne l’informazione antimafia, ai sensi dell’articolo 92 il rilascio dell’informazione antimafia è immediatamente conseguente alla consultazione della Banca Dati Nazionale Unica Antimafia. Qualora dalla consultazione della banca dati emergano elementi suscettibili di opportuni approfondimenti il Prefetto dispone le necessarie verifiche nel termine di 30 giorni dalla data della consultazione o, nei casi di particolare complessità e previa comunicazione all’amministrazione interessata, nei successivi 45 giorni. Decorso detto termine, ovvero immediatamente nei casi di urgenza, i soggetti richiedenti procedono anche in assenza dell’informazione antimafia.

3.4.4 Le “white list” e la procedura per l’acquisizione della documentazione antimafia.

Le white list sono state create dal legislatore per dare più coerenza ed efficacia all’intero meccanismo che stiamo analizzando.

Per una maggiore efficienza del sistema della documentazione antimafia, la legge n.190 del 2012, istituisce presso ogni prefettura l’elenco dei fornitori, prestatori di sevizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa al fine di rendere più efficaci i controlli antimafia nei settori maggiormente a rischio[169]: movimento terra, noli a caldo, trasporto e smaltimento rifiuti[170].

L’effetto più rilevante per quanto concerne le white list è che l’iscrizione nell’elenco consente quindi sia alle imprese individuali che alle società di non dover richiedere la documentazione antimafia: informazione antimafia e comunicazione antimafia che, ormai sappiamo bene, sono indispensabili per poter partecipare alle gare pubbliche di appalto, per lavorare con amministrazioni ed enti pubblici, o con società private concessionarie di opere pubbliche.

Le imprese, individuali e non, che lavorano in questi settori, possono presentare domanda di iscrizione solo se possiedono determinati requisiti e solo dopo aver subito determinati controlli.

Ma nello specifico quali sono le imprese che possono iscriversi nel registro? Si possono iscrivere nel registro le imprese, in forma individuale o in forma societaria, che lavorano nei settori più a rischio individuati dal comma 53, dell’articolo 1, della legge n.190 del 2012 e cioè:

  • Trasporto di materiali a discarica per conto di terzi;

  • Trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di terzi;

  • Estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti;

  • Confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume;

  • Noli a freddo di macchinari;

  • Fornitura di ferro lavorato;

  • Noli a caldo;

  • Autotrasporti per conto di terzi;

  • Guardiana dei cantieri.

Per potersi iscrivere è necessario che l’impresa svolga l’attività lavorativa nei settori a rischio su indicati, e deve avere sede legale, secondaria con rappresentanza stabile in Italia.

Naturalmente l’iscrizione è subordinata alla presenza di determinate condizioni da rispettare e cioè: le imprese, sottoposte a verifiche, non devono essere state oggetto di cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 del Codice Antimafia né essere state oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa tali da condizionare le scelte e l’esercizio dell’impresa.

La domanda di iscrizione deve essere presentata alla Prefettura della provincia in cui ha sede legale l’impresa interessata ad iscriversi agli elenchi fornitori appalti pubblici, forniture di servizi ed esecutori di lavori. La domanda deve essere effettuata dal titolare dell’impresa individuale o dal legale rappresentante in caso di società. Per richiedere l’iscrizione occorre presentare determinati moduli debitamente compilati ossia: moduli iscrizioni white list, il modello “A” di presentazione dell’istanza, diverso a seconda del tipo di società che richiede l’iscrizione agli elenchi, il modello “B” della dichiarazione sostitutiva iscrizione CCIAA e il modello “C” della dichiarazione sostitutiva familiari conviventi, da compilare per ciascun titolare.

Dopo che la Prefettura ha ricevuto la domanda inoltrata, preferibilmente per via telematica, vengono effettuati i controlli sulle imprese e sui vari titolari delle stesse.

Se tali controlli hanno esito positivo viene disposta l’iscrizione dell’impresa nell’elenco pubblicato sul proprio sito istituzionale, mentre se negativi il prefetto rigetta l’istanza comunicando la notizia al richiedente. Ma quanto dura l’iscrizione? La stessa ha una efficacia temporale limitata nel tempo, poiché è valida 12 mesi, finiti i quali, almeno 30 giorni prima della scadenza l’impresa se ancora interessata a rimanere iscritta agli elenchi deve darne comunicazione con l’apposito modello.

Per quanto concerne invece la procedura di acquisizione della documentazione antimafia, essa deve essere acquisita: attraverso la consultazione dell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa istituiti ai sensi della legge n.190 del 2012, infatti i soggetti previsti dall’articolo 83, commi 1 e 2, del Codice Antimafia, hanno l’obbligo di acquisire la comunicazione e l’informazione antimafia liberatoria attraverso la consultazione dell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa istituiti presso ciascuna prefettura, per cui l’iscrizione nelle white list, tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta; mediante consultazione tramite la Banca Dati Nazionale Unica della documentazione antimafia da parte dei soggetti preventivamente accreditati.

La Banca Dati rappresenta lo strumento attraverso il quale le pubbliche amministrazioni possono richiedere la documentazione antimafia. Gli enti già in possesso delle credenziali di accesso all’applicativo informatico “SI.CE.ANT.[171]” sono già abilitati all’accesso alla Banca Dati. Le richieste di documentazione antimafia, dovranno essere effettuate attraverso la consultazione della medesima.

3.4.5 L’autocertificazione.

La comunicazione antimafia può essere sostituita da apposita dichiarazione, sottoscritta con le modalità di cui all’articolo 38, del D.P.R n.445 del 2000, con la quale il soggetto interessato, attesta che nei suoi confronti non sussistono le cause dell’articolo 67 del Codice Antimafia, ossia di divieto, di decadenza e di sospensione, nelle diverse fattispecie di:

  • Contratti e subcontratti relativi a lavori o forniture dichiarate urgenti;

  • Provvedimenti di rinnovo conseguenti a provvedimenti già disposti;

  • Attività private, sottoposte a regime autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla Pubblica Amministrazione competente;

  • Attività sottoposte alla disciplina del silenzio-assenso, indicate nella tabella C annessa al regolamento approvato con D.P.R. n.300 del 1992 e successive modificazioni.

4. Sanzioni amministrative o sanzioni penali “camuffate”.

4.1 Il grado di afflittività della sanzione amministrativa.

Durante il corso della trattazione, ci siamo soffermati su un punto molto delicato, che è stato risolto da una celeberrima sentenza della Corte EDU[172] e che ha visto coinvolto il nostro ordinamento, sulla problematica del sistema del “doppio binario” amministrativo-penale. Non ci soffermeremo più di tanto sulle caratteristiche del giudicato penale, però è bene ricordare che le qualità di tale giudicato fanno sì che i suoi effetti abbiano un impatto decisivo sulle decisioni che devono essere assunte da altre giurisdizioni.

In linea teorica, i rapporti tra giurisdizione penale e giurisdizione civile o amministrativa possono essere regolati in base a tre diversi criteri: a) indipendenza assoluta delle varie giurisdizioni; b) efficacia vincolante del giudizio penale nei confronti delle altre giurisdizioni; c) efficacia vincolante del giudizio penale per taluni casi, indipendenza negli altri[173].

La valenza garantistica che ha assunto il principio del “ne bis in idem”, ha ampliato il suo perimetro applicativo anche in un’altra direzione.

Prendiamo in considerazione l’articolo 649 del Codice di Procedura Penale il quale dispone: “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato un procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”. Su tale dispositivo si era costruito un pilastro dell’ordinamento, il quale era rimasto immutato fino a qualche anno fa, quando sotto i colpi della giurisprudenza della Corte EDU, ha iniziato a sgretolarsi.

La Corte EDU nella sentenza Grande Stevens c. Italia, ha ritenuto profilarsi una violazione del principio del ne bis in idem, sancito in modo lapidario dall’articolo 4 del Protocollo n.7 della CEDU in forza del quale: “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”, allorquando medesime condotte siano contemplate da fattispecie che definiscono il trattamento sanzionatorio, una volta come di natura penale e un’altra volta come di natura amministrativa.

Nel caso oggetto di giudizio della sentenza Grande Stevens c. Italia, il ricorrente, condannato in sede amministrativa per l’illecito di cui all’articolo 187 ter, n.1, del d.lgs. n.58 del 1998[174] era stato successivamente rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all’articolo 185, n.1[175], dello stesso decreto. Nel frattempo, nel corso del procedimento penale a carico degli imputati in questione, i soggetti coinvolti presentavano ricorso innanzi alla Corte EDU.

La Corte EDU, sottolineava anzitutto come la garanzia consacrata nell’articolo 4 del protocollo 7 della CEDU tuteli l’individuo non già contro la possibilità di essere sanzionato due volte per lo stesso reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato. Una simile garanzia, opera però secondo la Corte a prescindere dalla formale qualificazione come penale, da parte dell’ordinamento nazionale, del provvedimento definitivo che chiude il primo procedimento sul medesimo fatto. Ciò che rileva secondo la Corte, è che il procedimento abbia natura punitiva secondo l’autonomo apprezzamento compiuto dalla stessa, in base ai noti criteri sviluppati a partire dalla sentenza Engel per definire la “matière penale”, alla quale applicare l’insieme delle garanzie previste per il diritto e il processo penale, tra le quali il ne bis in idem[176].

La Corte non ha avuto dubbi nel qualificare le sanzioni comminate per l’illecito amministrativo di cui all’articolo 187 ter del T.U.F. come sanzioni sostanzialmente penali, e conseguentemente nel qualificare come afferente alla “matière penale” il complessivo procedimento funzionale all’accertamento dell’illecito e alla loro irrogazione[177].

Dei tre criteri enunciati nella sentenza Engel, ossia la qualificazione giuridica della sanzione nell’ordinamento nazionale, la natura dell’illecito e la natura e grado di severità della sanzione, la Corte EDU ha utilizzato prevalentemente, nella sentenza in questione, il terzo.

Infatti la Corte EDU, evidenzia come i livelli sanzionatori presenti nell’articolo 187 ter e 187 quater, sono talmente alti che è sconsiderato doversi parlare di sanzione amministrativa, anzi è innegabile che tali disposizioni abbiano un livello di persuasività tipico delle sanzioni penali.

La Corte richiama nella sentenza in questione, la giurisprudenza scaturente da un caso risolto precedentemente dalla stessa, ossia il caso Zolotoukhine c. Russia, del 2009. Si è soffermata sul concetto di “reato per il quale il soggetto è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva”, affermando con nettezza che l’espressione “reato” utilizzata nel testo della norma deve intendersi come equivalente, a tutti gli effetti, al fatto storico, sì da attribuire la massima estensione possibile alla garanzia convenzionale; ed allora sulla base di tale criterio, nessun dubbio sussisteva sul fatto che i ricorrenti erano stati processati in sede penale esattamente per il medesimo fatto storico per il quale erano già stati giudicati e sanzionati dalla CONSOB, con un provvedimento che ormai era divenuto definitivo; a nulla rilevando, le motivazioni opposte dal Governo italiano secondo cui gli elementi costitutivi del delitto di cui all’articolo 185 dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 187 ter sarebbero diversi[178].

Il tema è di grande interesse e si inserisce nel dibattito sulla cosiddetta amministrativizzazione del diritto penale, poiché obbliga l’interprete ad una delicata opera di bilanciamento: da un lato il diritto fondamentale dell’individuo a non essere sottoposto ad un nuovo procedimento penale sul medesimo fatto; da un altro lato, la pretesa punitiva dello Stato sovrano, la cui tendenza è quella di moltiplicare i momenti sanzionatori, al fine di minimizzare il rischio che gli illeciti rimangano impuniti e di compensare gli sforzi economici che l’amministrazione deve sostenere per svolgere i propri compiti di law enforcement[179]

È frequente infatti che i vari legislatori essendo animati da una ipertrofia sanzionatoria, usano contemporaneamente sia lo strumento sanzionatorio amministrativo sia quello penale per reprimere, sostanzialmente, comportamenti identici[180].

Innanzitutto, occorre precisare che il principio del ne bis in idem, rientra in quella cerchia di diritti fondamentali dell’individuo tutelati da svariati testi convenzionali, rientrando anche tra i principi di diritto internazionale consuetudinario.

Ebbene, nella sua consolidata giurisprudenza, la Corte EDU ha avuto modo di affermare che, al fine di stabilire la sussistenza di una accusa in materia penale, occorre considerare non solo la qualificazione giuridica attribuita alla misura dal diritto nazionale, ma altresì, la natura stessa di quest’ultima e il grado di severità della sanzione, come sopra ricordato; in sostanza affinché si possa parlare di accusa in materia penale è sufficiente che essa, come ha rilevato la Corte EDU, abbia esposto l’interessato a una sanzione che per natura e livello di gravità, rientri nell’ambito della materia penale[181].

È innegabile come la questione ruota interamente intorno alla nozione di idem factum e di matiere penale. Va ricordato infatti che nella sua recente giurisprudenza, la Corte EDU ha ulteriormente precisato i contorni della questione introducendo alcune puntualizzazioni che, secondo alcune opinioni, suonerebbero come una sorta di battuta d’arresto rispetto a quella che sembrava essere l’inarrestabile progressione espansiva delle maglie interpretative del ne bis in idem[182]. In particolare, si è rilevato come la “Grand Chambre, pur non sconfessando la propria giurisprudenza consolidata sulle nozioni di materia penale e di idem factum ha fornito una nuova chiave di valutazione per la verifica della sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui ad una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona: i procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, possono coesistere qualora si ritenga tra loro una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta[183]”.

Per concludere sul punto dobbiamo sottolineare come i criteri enucleati nella sentenza Engel, e nella sentenza Grande Stevens, non sconfessano i concetti consolidati ormai da anni di idem factum e materie penale, anzi sono stati funzionali per diagnosticare la violazione del ne bis in idem, più in particolare, si riconosce che i procedimenti sanzionatori, del doppio binario, penale ed amministrativo, possono coesistere a condizione che vi sia tra loro una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, poiché solo in questi termini si può ritenere che il soggetto non subisce un pregiudizio sproporzionato derivante da un perdurante stato di incertezza processuale, inoltre non vi è violazione del ne bis in idem quando i due procedimenti, penale ed amministrativo, perseguano finalità diverse[184].

La sentenza Grande Stevens, funge dunque da monito per il legislatore italiano il quale, nel prevedere sanzioni amministrative deve prevedere tutte le procedure tali per cui i soggetti destinatari non siano puniti nuovamente con un procedimento penale per lo stesso fatto.

Il tema della prevenzione risulta essere quello che più di tutti potrebbe creare problemi di ordine sistematico e strutturale, poiché gli organi di amministrazione anticipano la soglia di tutela fino ad un punto che, l’irrogazione della sanzione amministrativa colpisce i soggetti destinatari nelle libertà fondamentali tipiche tutelate dalla nostra Costituzione.

Per cui la questione rimbalza in sede parlamentare, dove dovrebbe essere tipizzato il grado di incisività di una determinata sanzione amministrativa e penale, con la massima garanzia del principio di democraticità. Da questo punto di vista il Parlamento risulta essere l’organo più adatto a tutelare determinate esigenze garantistiche, anche perché al di là delle situazioni nelle quali una violazione del ne bis in idem potrà effettivamente verificarsi, è innegabile come per tali vie gli ambiti oggettivi del principio siano destinati ad allargarsi.

Sotto tale profilo rileva un collegamento tra lo stesso procedimento penale e quello di prevenzione e cioè, recentemente, in una fattispecie relativa all’applicazione della misura della sorveglianza speciale nei confronti di soggetto indiziato di appartenere ad una organizzazione criminale di stampo mafioso, ancorché già condannato per partecipazione alla stessa associazione e, come tale, destinatario anche della misura di sicurezza della libertà vigilata, la Corte di Cassazione con sentenza n.44608 del 2015, ha affermato che il divieto di nuovo giudizio è inapplicabile poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una condizione personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto di reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale.

Sotto altro versante la Corte d’Appello di Napoli, in una sua celebre sentenza, la n.59 del 2016, ha escluso che la sanzione disciplinare violi il divieto del doppio giudizio e della punizione per lo stesso fatto, sancito dall’articolo 4, protocollo n.7 della CEDU.

Secondo tale decisione, infatti, nel caso di specie, la radiazione disposta da un ordine professionale non solo tutelerebbe interessi specifici di una formazione sociale ristretta quale quella dei pazienti, nella specie si verteva di un procedimento disciplinare aperto nei confronti di uno psicologo il quale aveva patteggiato per il reato di violenza sessuale in danno di una sua paziente, ma la sanzione applicata dall’ordine professionale non ha funzione repressiva bensì inibitoria di protezione dei clienti e del prestigio della professione. Va tenuto conto poi che il limite del giudicato può essere fatto valere solo quando il titolo sia emesso nei confronti della stessa persona. Sicché, per concludere, il legislatore dovrebbe uniformarsi, rispetto a quelle che sono le pronunce della Corte EDU e stabilizzare una volta per tutte gli ambiti e le modalità di applicazione di una determinata sanzione amministrativa, in modo tale che anche all’interno della giurisprudenza vi sia uniformità di vedute.

Conclusioni.

Con il presente lavoro, seppur sommariamente, si è cercato di analizzare rapidamente il diritto della prevenzione concentrando l’attenzione su alcuni aspetti che destavano dubbi interpretativi e applicativi quali: la formulazione del nuove Codice Antimafia, la disciplina della documentazione antimafia e la questione relativa alla incisività delle sanzioni amministrative che presentano un elevato grado di “punibilità”.

Il nostro ordinamento, dal punto di vista della prevenzione, presenta molti strumenti per combattere e reprimere comportamenti che ab initio propongono un elevato tasso di offensività; certo è, però, che il legislatore, con il nuovo Codice Antimafia, ha perso un’occasione, non per stravolgere tutto il sistema prevenzionistico, ma per adeguarlo al meglio a quelli che sono i principi fondamentali contenuti nella nostra Costituzione.

È impensabile che alcune misure di prevenzione, nella species l’informazione antimafia e la comunicazione antimafia, si applichino solo a determinate categorie di soggetti che intrattengono rapporti con le pubbliche amministrazioni, senza tenere conto di un’iniziativa economica privata, che subisce pesanti restrizioni a causa della presunzione di mafiosità. Tale presunzione si pone come limite all’articolo 41 della Costituzione, ed è l’unico modo escogitato dal legislatore per colpire tutti quei soggetti che, non avendo rapporti con la pubblica amministrazione, pongono in essere attività in settori molto delicati e indicati dallo stesso Codice Antimafia come fortemente appetibili alle varie organizzazioni criminali.

Occorre riflettere: se per il privato che intrattiene determinati rapporti contrattuali con la P.A., è possibile utilizzare gli strumenti che permettono di capire se vi sia una infiltrazione mafiosa, cosi non è per i privati che operano in modo autonomo senza avere nulla a che fare con la pubblica amministrazione.

Per evitare che si compiano errori circa l’applicazione dello strumento in questione è bene che il legislatore riformi la disciplina in modo tale da adeguarla ai tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto dell’economia legale. Una tutela più efficace degli interessi in gioco forse potrebbe essere garantita: da un’impostazione più snella e flessibile della documentazione antimafia, ancorata a meccanismi non presuntivi ma tendenzialmente certi; da un’attribuzione di maggiori poteri ispettivi agli organi dell’amministrazione pubblica; da procedure amministrative informatizzate che agevolino la possibilità di controllo sull’opera privata.



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  • Relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, Progetto definitivo di un nuovo codice penale. Roma, tipografia delle Mantelalte 1929.
  • Sonia Alfano (2012), “I trent’anni della legge Rognoni-La Torre”, Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2012.

Note

[1] Karl Binding, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts, B.T., Bd 1, seconda edizione, Lipsia, 1902, p. 20.
[2]  Beccaria C., Dei Delitti e delle Pene, ed.a cura di Venturi, Torino, 1994, p. 96
[3] Idem, p.97-102.
[4] Fabio Basile, Le misure di prevenzione dopo il c.d. codice antimafia. Aspetti sostanziali e aspetti procedurali, p. 1520.
[5] Maristella Amisano Tesi, L’uso del linguaggio nella pericolosità, Mondadori, Milano, 2017, p.18
[6] Idem, p.19
[7] Giovanni Fiandaca, Enzo Musco, Diritto penale parte generale, settima edizione, Zanichelli editore, Torino, 2014, p. 913-914.
[8] G.Corso, Profili costituzionali delle misure di prevenzione: aspetti teorici e prospettive di riforma, in AA.VV., La legge antimafia tre anni dopo, a cura di G. Fiandaca- S.Costantino, Milano, Giuffrè, 1986, p.137.
[9] Maristella Amisano Tesi, L’uso del linguaggio nella pericolosità, Mondadori, Milano, 2017, p.189.
[10] Relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, Progetto definitivo di un nuovo codice penale. Roma, tipografia delle Mantelalte 1929.
[11] Cfr. anche Neppi Modona-Violante, Poteri dello Stato, seconda edizione, Tirrenia-Stampatori, Torino, 1978, p.491.
[12] Giovanni Fiandaca, Enzo Musco, Diritto penale parte generale, settima edizione, Zanichelli editore, Torino, 2014, p. 915.
[13] A. Bargi, L’accertamento della pericolosità nelle misure di prevenzione, Jovene, Napoli, 1988, p.92
[14] Maristella Amisano Tesi, L’uso del linguaggio nella pericolosità, Mondadori, Milano, 2017, p.190
[15] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.p. 1-2
[16] Idem, p. 2.
[17] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p. 2
[18] Regio Decreto n.773 del 1931, articolo 164.
[19] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p. 2
[20] Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza del 1926, artt. 168 e 176.
[21] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p. 3
[22] Corte Costituzionale, sentenza n.2 del 1956
[23] Idem.
[24] Idem.
[25] Idem.
[26] Idem.
[27] Legge n.1423 del 1956, Art. 1.
[28] Mario Erminio Malagnino, Le misure di prevenzione personali, Giappichelli Editore, Torino, 2011, p.5.
[29] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.4
[30] Idem, p.p. 4-5.
[31] Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, Diritto penale parte generale, settima edizione, Zanichelli Editore, Torino, 2014, p.915
[32]Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.5
[33] Legge n. 1176 del 1967, articolo unico.
[34] Legge Reale, legge n.152 del 1975.
[35]Giancarlo Costa, (2011),” Legge Reale, pugno di piombo”, Il Fatto Quotidiano.
[36] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.6.
[37] Legge Reale, articolo 18, comma 1, della legge n.152 del 1975.
[38] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.6.
[39] Idem.
[40] Sonia Alfano (2012), “I trent’anni della legge Rognoni-La Torre”, Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2012.
[41] Idem.
[42] Idem.
[43] Legge n.55 del 1990, articolo 14.
[44] Luigi Capriello (2017), “La repressione della pericolosità sociale: le misure di prevenzione tra le esigenze di tutela dell’ordine sociale e il difficile inquadramento nell’ordinamento nazionale europeo”, Giurisprudenza Penale, p.8.
[45] Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, Diritto Penale parte generale, settima edizione, Zanichelli Editore, Torino, 2014, p.917
[46]  Idem.
[47] Fiandaca e Visconti (2012), “Il Codice delle leggi antimafia, Risultati, omissioni e prospettive”, in Legislazione Penale, p.181.
[48] Idem.
[49] Intervista rilasciata dal procuratore Nicola Gratteri al Fatto Quotidiano, in merito alla operazione “Stige”.
[50] Fiandaca e Visconti (2012), “Il Codice delle leggi antimafia, Risultati, omissioni e prospettive”, in Legislazione Penale, p.182.
[51]  Legge delega n. 136 del 2010, articolo 2.
[52] Fiandaca e Visconti (2012), “Il Codice delle leggi antimafia, Risultati, omissioni e prospettive”, in Legislazione Penale, p.182.
[53] Decreto legislativo n. 159 del 2011, articolo 4.
[54] Fiandaca e Visconti (2012), “Il Codice delle leggi antimafia, Risultati, omissioni e prospettive”, in Legislazione Penale, p.183.
[55] Idem.
[56] Articolo 18, comma 1, del decreto legislativo n. 159 del 2011.
[57] Fiandaca e Visconti (2012), “Il Codice delle leggi antimafia, Risultati, omissioni e prospettive”, in Legislazione Penale, p.184.
[58] Cfr. Atti Camera, XVI leg., d.d.l. n. 3290 (che assorbe Atti Camera C/529 e C/3478), presentato dai Ministri Maroni e Alfano e depositato il 9.3.2010; il testo approvato definitivamente dal senato (dove il d.d.l. prende il n. S/2226) data 3.8.2010 e sara` pubblicato, come l. 136/2010, sulla GU n. 196 del 23.8.2010.
[59] Così la Relazione al d.d.l. C/3290.
[60] Legge delega n.136 del 2010, art. 1, commi 1 e 2.
[61] Legge delega n.136 del 2010, art. 1, comma 3.
[62] Legge delega n.136 del 2010, articolo 2, comma 1.
[63] Domenico Manzione (2012), “Dal “piano straordinario” al codice antimafia e delle misure di prevenzione”, Legislazione Penale, p. 186.
[64] In tal senso v. la Relazione illustrativa allo schema di d.lgs. – Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione reperibile sul sito www.giustizia.it
[65] Così, ad es., A. Cisterna, L’impegno a varare opportuni testi integrativi fa sperare in un corpus normativo più completo, GD 2011 (41), 84; per una critica analisi complessiva v. F. Menditto, Le luci e le (molte) ombre del cd codice antimafia, in CP 2012, p.792 ss.
[66] Vedi, le osservazioni fatte proprie nella Relazione (vol. I) predisposta dalla Commissione Fiandaca, istituita con d.m. 15.10.1998 proprio per cercare di dare razionalità alla normativa sulla criminalità organizzata e poi variamente prorogata fino al 2001.
[67] Si fa riferimento alla legge 1 ottobre 2012, n.172, (protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale), il d.l. 22 agosto 2014, n.119 (contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive), conv. con modd. dalla legge 17 ottobre 2014, n.146, modificando l’art. 4, primo comma, lett. i).
[68] Articolo 4, comma 1, lettera d), del codice antimafia, così come modificato dal decreto legge n. 7 del 2015.
[69] Cfr. Viganò, Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto legge in materia di contrasto al terrorismo, reperibile su www.penalecontemporaneo.it , 23 febbraio 2015.
[70] Antonio Balsamo (2015), “Decreto antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione”, Penale contemporaneo, p. 2.
[71] Idem.
[72] Articolo 9, comma 2-bis, del decreto legislativo n. 159 del 2011, così come modificato dalla decreto legge n.7 del 2015.
[73] Antonio Balsamo (2015), “Decreto antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione”, Penale contemporaneo, p. 3.
[74] V. Le relazioni delle due Commissioni rinvenibili su www.penalecontemporaneo.it.
[75] Passo estratto dalla relazione della Commissione Fiandaca, rinvenibile su www.penalecontemporaneo.it.
[76] Cass., Sez. un., 26 giugno 2014, Spinelli, in CED, 262603
[77] Idem.
[78] Idem.
[79] Cass., Sez. un., 26 giugno 2014, Spinelli, in CED, 262603
[80] Cfr. art. 1. Le misure di prevenzione furono disciplinate dalla legge 27 dicembre n.1423 del 1956.
[81] Cfr. art.10 della legge ut supra.
[82] Da questo punto di vista gli artt. 19 e 20 della legge n.646 del 1982, segnarono una svolta poiché rappresentavano il primo rimedio a tale discrasia, infatti venne prevista la costituzione di una specie di casellario delle misure di prevenzione, trasmesso ad alcuni enti pubblici. Vennero previste delle sanzioni penali nei casi in cui si fosse provveduto a stipulare contratti o a rilasciare provvedimenti in favore di soggetti indiziarti di appartenere ad organizzazioni mafiose.
[83] In questo caso ci riferiamo alla legge n.936 del 1982.
[84] Volendo essere specifici l’art.2 della legge n.936 del 1982 rinvia a: 1) alle misure di prevenzione di cui all’articolo 3 della legge n.1423 del 1956; 2) ai provvedimenti indicati dal comma 2 dell’articolo 10 della legge n.575 del 1965, nonché 3) a quelli di cui agli artt. 10 ter e 10 quater della medesima legge.
[85] Pierluigi Tonnara (2017), “Informativa antimafia e discrezionalità del prefetto”, Leggi d’Italia Pa, p.1.
[86] Idem.
[87] Idem. Cfr. articolo 5 bis del D.lgs n.490 del 1994 mod. dalla legge n.94 del 2009.
[88] Le parole: “articolo 91, comma 7” sono state così sostituite dalle attuali: “articolo 91, comma 6” dall’articolo 8, comma 1, lett. A), del D.lgs 15 novembre 2012, n.218.
[89] Pierluigi Tonnara, op. cit. p. 2.
[90] Articolo 89 bis del Codice Antimafia è stato introdotto dall’articolo 2, comma 1, lettera d) del D.lgs n.153 del 2014.
[91] Pierluigi Tonnara, op. cit. p. 2.
[92] Cfr. l’articolo 83, comma 1 dello stesso codice, delinea l’ambito di applicazione della documentazione antimafia in termini che pongono sullo stesso piano sia i contratti pubblici e le concessioni, sia gli atti di natura autorizzatoria relativi all’esercizio di attività imprenditoriali. L’articolo 85, che individua i soggetti della compagine d’impresa da sottoporre a verifica antimafia in termini identici per tutte le tipologie di rapporti per i quali è necessario acquisire la documentazione in esame.  Né, osserva l’organo consultivo, tale esigenza verrebbe smentita dall’articolo 91, comma 1, dello stesso, che condiziona l’acquisizione della documentazione, nella forma più rigida della informazione, al raggiungimento di una soglia di valore, per ragioni a cui chiaramente non sono estranee finalità di semplificazione amministrativa.
[93] Pierluigi Tonnara, op. cit. p. 2.
[94] Consiglio di Stato, parere n. 497 del 2015 rinvenibile sul sito www.giustizia-amministrativa.it
[95] P. Tonnara, op. cit. p. 2.
[96] Ci riferiamo all’ord. n.2337 del 2016, del T.A.R. per la Sicilia sezione staccata di Catania.
[97] P. Tonnara, op. cit. p. 2. Cfr ord. n.2337 del 2016, del T.A.R. per la Sicilia sezione staccata di Catania.
[98] Idem.
[99] Idem.
[100] Corte Costituzionale, sentenza n.4 del 2018, testo reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it
[101] Idem, la Corte Costituzionale con la sua pronuncia, che oserei definire plastica, ha fornito una ricostruzione del quadro normativo, partendo dall’analisi dell’articolo 10 della legge 31 maggio 1965, n.575, affermando che la documentazione allora prevista riguardava con effetti impedienti, sia l’attività contrattuale, sia quella ulteriore disciplinata oggi dall’articolo 67 del Codice Antimafia, con il fine di reagire su entrambi i fronti e cioè impedire che determinati soggetti colpiti da una misura di prevenzione o che si sono resi autori di determinati reati, potessero intrattenere un rapporto con la pubblica amministrazione per trarne una qualsivoglia utilità. In seguito l’articolo 1, lettera d), della legge 17 gennaio 1994, n. 47, ha allargato di molto le ipotesi in cui l’ordinamento può reagire a detti pericoli. La Corte richiama inoltre il d.P.R 3 giugno 1998, n.252, più dettagliatamente l’articolo 10, in virtù del quale la comunicazione antimafia è rivolta alle cause impeditive, oggi contenute nell’articolo 67 del Codice Antimafia, e l’informazione quale specifica documentazione richiesta.
[102] Idem.
[103] Idem.
[104] P. Tonnara, op.cit. p. 3. Non metto in dubbio la volontà della politica nazionale di voler combattere il fenomeno della criminalità organizzata, ma ancora oggi non si intravedono validi interventi legislativi volti ad arginare il fenomeno. Si dovrebbe partire con degli interventi normativi su larga scala, in modo tale che anche le “malefatte” dei piccoli clan non passino inosservate, un po’ come fu la soluzione prospettata dai giudici Falcone e Borsellino, per quanto riguarda il modo in cui devono essere condotte le indagini da parte delle procure distrettuali e cioè: 1) vi deve essere stretta collaborazione tra i vari uffici di procura; 2) le indagini devono essere effettuate su larga scala in modo tale che anche i minimi particolari, che prima magari non avevano molta rilevanza, abbiano una qualche incidenza sui vari collegamenti dell’organizzazione mafiosa con il territorio locale. Sarebbe necessario rendere, da questo punto di vista, più efficienti le Pubbliche Amministrazioni, magari informatizzando i vari procedimenti, in modo tale da poter abbattere tempi e costi del potere discrezionale dell’uomo, evitando i vari eccessi o abusi, perché è acclarato ormai che le organizzazioni mafiose tessono le loro trame, i loro collegamenti inserendosi nel tessuto non solo economico, ma anche governativo.
[105] Idem.
[106] Ci riferiamo naturalmente all’articolo 2, comma 1, lett. c).
[107] P. Tonnara, op. cit. p. 3. Cfr legge delega n.136 del 2010.
[108] Cfr. T.A.R Liguria, sez.I, 4 novembre 2016, n.1085, il quale si è pronunciato per l’applicabilità dell’informazione antimafia anche nell’ipotesi di S.C.I.A. In particolare il summenzionato T.A.R. nel suo provvedimento, partendo dal presupposto che la normativa antimafia muove dalla presa di coscienza da parte della società civile e del ceto politico dell’influsso distorsivo spiegato sull’economia italiana dall’ingresso dei capitali e dei metodi mafiosi. Per cui argomentando il T.A.R. Liguria, la ratio legis della normativa in questione si deve individuare nel fatto che l’articolo 67 del Codice Antimafia nel menzionare “le licenze commerciali” o i titoli abilitativi, si deve considerare come inclusiva anche dei “titoli conseguiti dai privati con il deposito di una scia o di un consimile atto privato”; diversamente, sostiene il T.A.R., si frustrerebbe il fine cui tende la normativa che non potrebbe essere se non quello di “sottoporre l’economia ad un controllo penetrante, così da salvaguardarne i principi fondanti che il fenomeno mafioso mira invece a sovvertire”.
[109] P. Tonnara, op. cit. p.3.
[110] Consiglio di Stato, sez III, sentenza n. 565 del 2017. Testo rinvenibile sul sito www.dirittoegiustizia.it
[111] P. Tonnara, op. cit. p.3.
[112] Articolo 91, comma 5, del Codice Antimafia.
[113] Cosa al quanto discutibile in quanto dobbiamo analizzare la natura della misura caso per caso, poiché stiamo parlando di provvedimento avente un determinato tasso di restrittività, potendo avere per ciò i tratti di una “sanzione” penale camuffata.
[114] P. Tonnara, op. cit. p.3.
[115] Idem.
[116] Consiglio di Stato, sez III, sentenza n. 565 del 2017. Testo rinvenibile sul sito www.dirittoegiustizia.it
[117] La quale impone uno standard probatorio molto basso, rispetto invece al processo penale che come abbiamo visto, in sede di udienza preliminare in virtù dell’articolo 125 delle disp. di att. al c.p.p, il giudice per l’emissione del decreto che dispone il giudizio si deve basare su elementi che sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio; ovvero in sede dibattimentale il giudice condanna quando il PM ha fornito elementi di prova che vanno “oltre ogni ragionevole dubbio”.
[118] P. Tonnara, op. cit. p.3.
[119] Per finalità eminentemente di sicurezza pubblica e di lotta, contrasto, alla criminalità organizzata.
[120] Intendiamo le concessioni, le sovvenzioni, gli appalti ecc…
[121] Ci riferiamo ad attività soggette a autorizzazioni, concessioni, abilitazioni, iscrizioni ad albi o anche alla S.C.I.A. e naturalmente alla disciplina del silenzio assenso.
[122] Ossia la disciplina si trova nel Libro II del Codice, dedicato appositamente alle “Nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”.
[123] Tali soggetti sono individuati dall’articolo 85 del Codice Antimafia.
[124] Delitti spia o elementi spia che dir si voglia, sono disciplinati dall’articolo 84, comma 4 lett. a) e l’art. 91, comma 6.
[125]  Casi e circostanze caratterizzati da un particolare interesse delle organizzazioni di stampo mafioso e che destano maggior allarme sociale.
[126] (2017),“L’informativa antimafia come strumento per contrastare le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell’economia”, Avviso Pubblico, p. 7.
[127] Idem.
[128] Idem. Cfr sentenza n.649 del 2017 del T.A.R di Milano con riguardo ad un caso di mancata denuncia del reato di estorsione.
[129] Il quale ricordiamo il disposto normativo: “il prefetto competente estende gli accertamenti pure ai soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa. Per le imprese costituite all’estero e prive di sede secondaria nel territorio dello Stato, il prefetto svolge accertamenti nei riguardi delle persone fisiche che esercitano poteri di amministrazione, di rappresentanza, o di direzione. A tal fine, il prefetto verifica l’assenza delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’articolo 67, e accerta se risultano elementi dai quali sia possibile desumere la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, anche attraverso i collegamenti informatici di cui all’articolo 98, comma 3. Il prefetto, anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna ‘esito dell’informazione al venir meno delle circostanze levanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa”.
[130] Fatto estrapolato dalla sentenza del T.A.R di Catanzaro, n.1804 del 2016, reperibile su www.giustizia-aministrativa.it
[131] Ricordiamo che l’articolo 7 della legge n.241 del 1990 è inserito nel capo III relativo alla partecipazione al procedimento amministrativo e disciplina la comunicazione di avvio del procedimento.
[132] Sentenza T.A.R di Catanzaro n.1804 del 2016reperibile sul sito www.giustizia-amministrativa.it
Cfr anche sul punto in questione le sentenze T.A.R. Camapania, Napoli, sez I, n.1179 del 2016 e T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez I, n.1722 del 2015.
[133] Idem.
[134] Idem.
[135] Idem.
[136] Idem. A titolo esemplificativo il tribunale nella sentenza rimanda ad altre pronunce del Consiglio di Stato quali la n.3647 del 2001, la n3491 del 2009, la n.6618 del 2012 e la n.2783 del 2004.
[137] Idem, Cons. di Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n.1743. La giurisprudenza ha rilevato anche che: “quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che cioè si limita ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario”.
[138] Sul punto, volendo estremizzare la critica nei confronti del legislatore, si potrebbero avanzare dei dubbi sulla costituzionalità di medesima scelta, poiché forse è stato eluso il principio di legalità nel suo corollario della tipicità. Anche se non stiamo parlando di fattispecie penali, poiché abbiamo visto nello studio della sentenza del T.A.R di Catanzaro, che un’informativa del genere può essere emesse a prescindere dalle varie indagini preliminari, però è pur sempre una misura che restringe determinate libertà per cui un minimo di tipizzazione dovrebbe esserci.
[139] (2017),“L’informativa antimafia come strumento per contrastare le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell’economia”, Avviso Pubblico, p. 8.
[140] Come esempio si potrebbe addure la revoca delle aggiudicazioni o ai recessi dei contratti già pendenti.
[141] Massimiliano Noccelli (2018), “I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia”, Giustizia amministrativa.it, cap. 1, paragrafo 6.
[142] Una delle ragioni che ha portato a questa scelta è di carattere tecnico, visto e considerato le tempistiche troppo lunghe dei vari tribunali civili e penali, c’era bisogno di un giudizio rapido e veloce per cui il T.A.R è l’organo, da questo punto di vista, più idoneo ad assicurare un procedimento celere.
[143] Ricordiamo che l’articolo in questione è inserito nel libro quarto del codice intitolato, “ottemperanza e riti speciali”. Il comma 2, dell’articolo 119 dispone che; “tutti i termini processuali ordinari sono dimezzati salvo, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti, nonché quelli di cui all’articolo 62, comma 1, e quelli espressamente disciplinati nel presente articolo”.
[144]  Massimiliano Noccelli (2018), “I più recenti orientamenti della giurisprudenza sulla legislazione antimafia”, Giustizia amministrativa.it, cap. 1, paragrafo 7.
[145] Ricordiamo che la disciplina è contenuta nell’articolo 84, comma 2, del Codice Antimafia.
[146] Idem, cap. 1 par. 12
[147] Idem, cap.1 par. 13
[148] Idem, cap.1 par.15
[149] Desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nell’articolo 84, comma 4, del Codice Antimafia, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di imprese possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
[150] I delitti cui si fa riferimento sono quelli disciplinati dall’articolo 84, comma 4, lett. a) ossia, i delitti di cui agli articoli 353, 353 bis, 603 bis, 629, 640 bis, 644, 648 bis, 648 ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12 quinques del decreto legge n. 306 del 1992 convertito con modificazioni dalla legge n.356 del 1992.
[151] Vedi la sentenza del T.A.R Catanzaro n.1801 del 2016
[152] Vedi la sentenza del T.A.R di Napoli n.107 del 2016, confermata dall’organo superiore di giustizia amministrativa con la sentenza n.3583 del 2016.
[153] Vedi la sentenza del T.A.R di Napoli n.4274 del 2016 e la sentenza del Consiglio di Stato n.441 del 2017, la quale evidenzia “l’indiscutibile linea di continuità diretta ed immediata tra la vecchia e la nuova gestione”.
[154] L’informativa antimafia come strumento per contrastare le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell’economia, articolo tratto dalla rivista Avviso Pubblico, reperibile sul sito www.avvisopubblico.it pag.9. Cfr. con la sentenza del T.A.R di Catania n.761 del 2016 di annullamento dell’interdittiva prefettizia in quanto l’originario quadro indiziario non era stato confermato dai successivi accertamenti del giudice ordinario.
[155] Cfr. Consiglio di Stato, sentenza n.319 del 2017.
[156] L’informativa antimafia come strumento per contrastare le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell’economia, articolo tratto dalla rivista Avviso Pubblico, reperibile sul sito www.avvisopubblico.it pag.9.
[157] Anche solo una condanna per il reato di “voto di scambio”, senza l’aggravante mafiosa, può essere considerata sintomatica della disponibilità di ricevere delle agevolazioni da parte delle organizzazioni criminali ed ottenere così benefici in cambio dell’appoggio elettorale. A tal proposito si veda sentenza del Consiglio di Stato n.3574 del 2016.
[158] Impropriamente li definiamo principi, altrimenti l’ordine pubblico per esempio lo dobbiamo etichettare come clausola generale, ossia quel frammento di norma caratterizzata da una certa vaghezza colmabile con il rinvio ad un principio.
[159] P. Tonnara, op. cit. pag. 4
[160] Idem.
[161] Idem.
[162] Idem. Vedi articolo 67 Codice Antimafia.
[163] Articolo 91 del Codice Antimafia.
[164] P. Tonnara, op. cit. p. 4
[165] P. Tonnara, op. cit. p. 5
[166] Cfr. sentenze del Consiglio di Stato n.4121 del 2016 e n.739 del 2017.
[167] Sentenza T.A.R di Palermo n.142 del 2017
[168] L’informativa antimafia come strumento per contrastare le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell’economia, articolo tratto dalla rivista Avviso Pubblico, reperibile sul sito www.avvisopubblico.it pag.5.
[169] Cfr sentenza del T.A.R di Milano n.170 del 2017
[170] Idem.
[171] È il sistema di certificazione antimafia.
[172] Sentenza Grande Stevens c. Italia, la quale è divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 43 della CEDU, dopo che è stata rigettata la richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal Governo italiano contro la stessa.
[173] Giovanni Leone, Trattato di diritto processuale penale, Napoli, Jovene, 1961,Vol. I. p.284.
[174] Ai sensi del quale “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari”.
[175] Ai sensi del quale “chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000”.
[176] Francesco Viganò (2015), “Sanzione penale, sanzione amministrativa e ne bis in idem”, Treccani.
[177] Caterina Fatta (2017), “Il nuovo volto del ne bis in idem nella giurisprudenza della Grande Camera e la compatibilità con il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria”, Giurisprudenza Penale, p.2.
[178] Idem.
[179] Idem.
[180] Alessandro Diddi, L’esecuzione e il diritto penitenziario, seconda edizione, Pacini Editore, Ospedaletto, 2017, p. 29.
[181] Idem.
[182] Idem p.30, cfr M. Brancaccio, Relazione 21 marzo 2017 n.26 dell’Ufficio del Massimario, Ne bis in idem. Percorsi interpretativi e recenti approdi della giurisprudenza nazionale ed europea, p.13.
[183] Idem p.30, cfr M. Brancaccio op. cit. p.13
[184] Idem.

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Maurizio Muto

Laureato in giurisprudenza presso l'Università della Calabria. Praticante avvocato presso uno studio legale che si occupa pressoché di diritto civile in ogni sua sfaccettatura. Specializzando presso la scuola superiore per le professioni legali dell'Università "Sapienza".

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