Il “nuovo” traffico di influenze illecite: tra “asfissie” applicative e sospetti di incostituzionalità
Sommario: 1. Premessa: la “schizofrenica” evoluzione dell’art. 346 bis c.p. – 2. L’inaspettata riscrittura ad opera della c.d. “Riforma Nordio” – 3. Le inevitabili perplessità di legittimità costituzionale
Premessa: la “schizofrenica” evoluzione dell’art. 346 bis c.p.
Affinché possano cogliersi appieno le ragioni epistemologiche che hanno portato all’ennesima riformulazione normativa del traffico di influenze illecite, è necessario articolare la presente disamina muovendo da una propedeutica ricognizione storica della fattispecie.
La tipizzazione del traffico d’influenze, ontologicamente concepito allo scopo di uniformare l’ordinamento penale interno agli stringenti obblighi di incriminazione previsti su base sovranazionale, ha segnato un importante tappa nella lotta al dilagante fenomeno della corruzione “sistematica”.
Segnatamente, nella sua primordiale versione, risalente alla L. 6 novembre 2012 n. 190 (c.d. “legge Severino“), il nucleo centrale della fattispecie incriminatrice contemplata dall’art. 346 bis c.p. presupponeva l’esistenza di una tangibile ed effettiva relazione tra la figura del pubblico funzionario e quella del c.d. faccendiere, il quale, sul presupposto della futura realizzazione di taluna delle finalità illecite interdette dalla norma, si proponeva di “sfruttarla” in favore del privato, in cambio di “denaro o altro vantaggio patrimoniale”.
Nondimeno, il “peso” della neo introdotta figura delittuosa è risultato, sin da subito, inestricabilmente correlato al divario interpretativo esistente con la previgente e, per certi versi, contigua norma sul millantato credito.
L’attività di compravendita dell’influenza effettiva del pubblico agente era, infatti, sul piano strettamente sanzionatorio, punita meno rigorosamente di quella puramente millantata, benché la prima, per la sua indubbia attitudine ad incidere in modo più pregnante sull’interesse primario del “buon andamento della pubblica amministrazione”, si prospettasse quale forma delittuosa senz’altro meritevole di un più marcato intervento repressivo.
È sulla base di tale “paradosso normativo” che, a soli pochi anni di distanza dalla sua entrata in vigore, è germinata l’esigenza di una rinnovata attuazione dei vincoli sovranazionali, obiettivo quest’ultimo concretizzatosi – almeno apparentemente – con la L. 9 gennaio 2019 n. 3.
A seguito di tale opera di restyling normativo, comportante, altresì, la formale abrogazione dell’art. 346 c.p., il perimetro applicativo della fattispecie è stato sensibilmente ampliato, risultando la proiezione incriminatrice del rinnovato art. 346 bis c.p. non più circoscritta alle sole relazioni realmente sfruttate ed esistenti, ma anche a quelle meramente “vantate” o “asserite”.
Nell’ottica perseguita dal Legislatore della riforma, dunque, il nuovo traffico d’influenze avrebbe dovuto costituire una sorta di “casa comune”, nella quale ricomprendere tutte quelle condotte fino a quel momento esclusivamente riconducibili entro l’alveo applicativo dell’abrogato millantato credito.
Al di là della fin troppo ottimistica intentio legislatoris, il quadro normativo delineatosi a seguito della cennata interpolazione legislativa è apparso, sin da subito, poco intelligibile al cospetto dell’esegesi della Suprema Corte regolatrice, presso la quale si sono inevitabilmente prospettate, tanto in ordine all’effettiva portata precettiva della norma, quanto in relazione alle sorti del “fantasma” del millantato credito, opzioni interpretative radicalmente discordanti.
Con specifico riguardo alla tematica da ultimo accennata, prima del recente intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, si sono a lungo fronteggiate due opposte tesi interpretative.
Segnatamente, secondo il primo degli antitetici filoni giurisprudenziali, maggiormente fedele al dato testuale della riformata fattispecie, per effetto della scelta compiuta dal Legislatore del 2019 si sarebbe materialmente realizzato, attraverso l’espediente della formale abrogazione dell’art. 346 c.p. e modifica dell’art. 346 bis c.p., un vero e proprio fenomeno di “fusione, mediante incorporazione” di due fattispecie incriminatrici. (v. Cass. Pen. Sez. VI, n. 17980 del 14.03.2019, Nigro, Rv. 275730 -01).
L’opposta impostazione esegetica, viceversa, muovendo dall’assunto constatativo del mal riuscito intento di incorporazione normativa perseguito dalla menzionata legge n. 3/2019, ha nettamente refutato l’idea, particolarmente avversa alla gran parte degli studi dottrinali, di un mero fenomeno di successione di leggi penali in senso stretto. (v. Cass. Pen. Sez. VI, n. 5221 del 19.09.2019, dep. 2020, Impeduglia, Rv. 278451- 01).
Chiamate in causa al fine di definitivamente comporre la summenzionata querelle interpretativa, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ritenuto di dovere aderire alla seconda delle proposte tesi ermeneutiche, enucleando il seguente principio di diritto: “non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della citata legge; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice”. (v. Cass. Pen. Sez. U. n. 193557 del 29.02.2024, dep. 15.05.2024).
Le ragioni evocate dal Supremo Consesso a sostegno della impraticabilità della tesi propugnante la continuità normativa tra le due fattispecie, da reputarsi pienamente condivisibili a parere di chi scrive, sono sostanzialmente due.
Ed invero, in primo luogo, mentre l’abrogata figura delittuosa del millantato credito configurava un reato tipicamente “monosoggettivo”, essendo la struttura della fattispecie incentrata verso la punizione del solo venditore di fumo; il “nuovo” art. 346 bis c.p., al contrario, risultava ontologicamente concepito alla stregua di reato a concorso plurisoggettivo necessario, in cui venivano sanzionate, tanto la condotta di chi dà o promette denaro o altra utilità, quanto quella di chi vantava l’esistenza di una relazione meramente asserita.
Sotto altra, ma necessariamente complementare visione prospettica, la formulazione letterale del millantato credito, in quanto irrefutabilmente collegata al “pretesto di dovere comprare il favore”, rimandava all’esistenza di un postulato frodatorio del fatto tipico, componente quest’ultima del tutto assente nel riformulato art. 346 bis c.p..
2. L’inaspettata riscrittura ad opera della c.d. “Riforma Nordio”
Ancor prima che il dictum delle Sezioni Unite entrasse a far parte del diritto vivente, il Legislatore è nuovamente intervenuto in materia, prediligendo un assetto teleologico segnato da una radicale discontinuità rispetto al trend espansivo che aveva caratterizzato la precedente L. 3/2019.
Segnatamente, perché possa dirsi integrato il traffico di influenze illecite, sì come sensibilmente ridisegnato dalla L. 114/2024, è necessario, in primo luogo, che le relazioni tra il soggetto mediatore e il Pubblico funzionario siano, oltre che realmente esistenti, effettivamente sfruttate, e non più, dunque, come in passato, semplicemente asserite o vantate.
L’intervento di riforma, inoltre, ha sensibilmente inciso anche sul versante subiettivo della fattispecie, richiedendo, per effetto dell’inclusione dell’inciso “utilizzando intenzionalmente allo scopo”, l’elemento soggettivo del dolo nella più pregnante connotazione del dolo intenzionale.
Quanto alla struttura del fatto penalmente rilevante, si è proceduto a rimodulare una delle due alternative finalizzazioni della condotta tipica: infatti, nella ipotesi in cui il denaro o l’utilità data o promessa – che deve possedere un contenuto necessariamente economico – non risulti strutturalmente finalizzata alla remunerazione dell’agente pubblico, è necessario che l’accordo raggiunto tra il soggetto mediatore e il committente abbia ad oggetto il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, idoneo, inoltre, a produrre un indebito vantaggio per il committente.
3. Le inevitabili perplessità di legittimità costituzionale
Il più o meno apprezzabile intento del Legislatore di circoscrivere la tipicità del traffico di influenze alle sole condotte “realmente” offensive dell’interesse del “buon andamento della Pubblica Amministrazione”, ha suscitato, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, molteplici, e per certi versi ineludibili, riserve di costituzionalità.
Ci si è domandato, in particolare, se l’imprevista opera di riassetto normativo risulti compatibile con i già noti vincoli sovranazionali in materia e, pertanto, se sotto tale specifico profilo, siano prospettabili possibili lesioni dell’art. 117 della Carta Costituzionale.
Degne di menzione, al riguardo, risultano essere le argomentazioni recentemente espletate dalla Procura della Repubblica di Roma nell’ambito di una nota vicenda giudiziaria afferente alla fornitura di mascherine protettive dalla Cina
Segnatamente, alla stregua dell’impostazione perorata dall’ufficio di Procura, la realizzata opera di abolitio criminis parziale dell’art. 346 bis c.p. sarebbe apertamente contrasto con l’obbligo di incriminazione, riconducibile sotto l’egida del summenzionato art. 117 Cost., assunto dall’Ordinamento interno mediante l’art. 12 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione, ratificata in Italia con la L. 110/2012.
La cennata disposizione, invero, sì come chiaramente desumibile dall’inciso “shall adopt…as criminal offence” – a differenza della diversa espressione “shall consider adopting” utilizzata dalla nota Convenzione di Merida del 2003 – implicherebbe l’esistenza di un incondizionato obbligo di incriminazione del traffico di influenze illecite, dal “contenuto minimo” non altrimenti eludibile dal Legislatore interno.
Né, tanto meno, potrebbe dirsi ostativa a un’eventuale declaratoria d’incostituzionalità dell’attuale art. 346 bis c.p. – con consequenziale reviviscenza della formulazione normativa risalante alla Legge “Spazzacorrotti” del 2019 – il generale divieto di insindacabilità in malam partem in materia penale, dovendo quest’ultimo, come più volte ammesso in passato dal Giudice delle Leggi,[1] considerarsi recessivo rispetto all’esigenza – oramai prioritaria – di assicurare la conformità dell’Ordinamento interno agli obblighi di matrice sovranazionale.
Ciò posto, sebbene le postulazioni condensate nella memoria redatta dalla Procura di Roma offrano plurimi argomenti per l’affioramento di un imminente incidente di costituzionalità, sarebbe comunque auspicabile, a parere di chi scrive, l’assunzione da parte della Consulta di una “linea mediana”, che non sacrifichi cioè, in ragione del superiore interesse del primautè comunitario, le altrettanto meritevoli istanze garantiste di un diritto penale interno concepito su base liberale.
[1] v. in tal senso, Corte Cost. n. 37 del 2019, secondo cui “Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.”.
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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