Il pacifismo internazionale nella dottrina kelseniana: un romantico sogno irrealizzabile?
UE, ONU, NATO, sono soltanto alcune delle organizzazioni internazionali che stanno assumendo in misura crescente il ruolo di protagonista del panorama politico-sociale a livello globale, soggetti giuridici spesso capaci di condizionare le scelte dei singoli ordinamenti statali finendo per limitare la sovranità nazionale al fine di assicurare, recita l’articolo 11 della Costituzione Italiana, pace e giustizia tra le Nazioni.
Risulta ormai una realtà constatabile quotidianamente che il diritto sovranazionale permea le vite di ciascun individuo sotto molteplici profili, dal settore economico (il rigoroso pareggio di bilancio imposto dall’UE) a quello sociale, giungendo sino a intervenire in aspetti di natura etica particolarmente delicati (diritti civili, fecondazione assistita, aborto).
Preme, dunque, svolgere una breve digressione in chiave metodologica che induca a riflettere circa lo stato attuale dei fatti, onde valutare, su un piano empirico, se le teorie propugnate a sostegno del cosiddetto “globalismo giuridico”, inteso come unificazione del diritto finalizzato all’attuazione e al mantenimento della pace, in opposizione al pluralismo legislativo, trovano concreta applicazione ovvero presentano profili di criticità.
La disamina non può che concentrarsi sul più illustre tra i pensatori e sostenitori del globalismo giuridico, Hans Kelsen, le cui teorie, tuttora studiate e spesso assunte come modello, hanno segnato una tappa fondamentale nell’evoluzione della concezione filosofica del diritto e degli ordinamenti a cui si è uniformata, in chiave moderna, rivisitando alcune delle sue posizioni più radicali, buona parte dell’orientamento filosofico contemporaneo.
Erede della scuola kantiana, lo studioso elabora una concezione oggettiva del diritto, perfetto, depurato dal relativismo statale (poiché il diritto nazionale risulta applicabile solo all’interno di confini specifici), universale dunque, riconosciuto cioè dall’intera totalità dei consociati: il diritto internazionale.
Spettatore degli orrori causati dalle due grandi guerre di inizio ventesimo secolo, appare conscio che soltanto uno strumento normativo capace di far dialogare popoli, spesso civiltà diverse, permetta la realizzazione di un sogno di pace.
Kelsen, come è possibile ricavare nel saggio “il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale”, non nega l’esistenza di ordinamenti statali, ma li pone in secondo piano rilevando la preminenza dell’ordinamento internazionale, fonte da cui i sistemi nazionali trovano legittimità. Alla luce di questa premessa ben puo’ esistere il diritto statale ma, trovandosi in un rapporto di subordinazione rispetto al diritto internazionale, non puo’ porsi in contrasto con i principi ivi sanciti.
La teoria propugnata trova giustificazione, a giudizio del filosofo, nella idea di civitas maxima di epoca romana: un “ordinamento giuridico mondiale”, il cui primato puo’ essere correlato all’idea di una comunità giuridica universale degli uomini, che travalica le singole comunità statali e la cui validità è ancorata alla sfera dell’etica. Quando l’ordinamento sovrano dello Stato mondiale avrà assorbito tutti gli altri ordinamenti, il diritto diventerà organizzazione dell’umanità e tutt’uno con l’idea etica suprema.
Per la realizzazione di un simile progetto, Kelsen ritiene necessario seguire un vero e proprio programma che consta di quattro punti:
1. Ogni ordinamento giuridico, per essere tale, deve essere dotato di un sistema coercitivo, inteso come esercizio della forza fisica o minaccia del suo esercizio, sottratto all’iniziativa individuale e centralizzato in organi specializzati, come i governi e i tribunali. Secondo lo studioso, dunque, condizione indispensabile ai fini della giuridicità di un ordinamento internazionale è l’esistenza di strumenti normativi di coercizione. La mancanza di un meccanismo sanzionatorio efficace, analogo a quello vigente presso gli ordinamenti statali non è, tuttavia, circostanza ostativa all’attribuzione della natura giuridica dell’ordinamento internazionale posto che, mediante un sistema legislativo decentrato, è possibile affidare ai singoli Stati l’attuazione degli strumenti di tutela e di coercizione sulla base di precise regole che qualificano come lecito o illecito la violenza tra Stati.
A quest’ultimo profilo si ricollega il secondo punto.
2. Se una norma di diritto internazionale riconosce come lecito il ricorso alla violenza si puo’ giungere a ritenere ammissibile la guerra; una “guerra giusta”, in primo luogo in quanto normativamente autorizzata e nei limiti in cui si configuri come meccanismo di difesa o di reazione (rappresaglia, ritorsione, riparazione ecc.) nei confronti di un illecito internazionale purché sia condotta dallo Stato vittima dell’illecito o da altri Stati che intendano assisterlo militarmente, almeno finché gli Stati non saranno stati assorbiti dall’ordinamento globale della civitas maxima.
3. Fino a quando non si sarà realizzato compiutamente il progetto della civitas maxima ogni ordinamento statale va trattato in egual modo, applicando a ciascuno di essi norme uguali. Solo il conseguimento di una piena eguaglianza formale, a giudizio di Kelsen, condurrà alla progressiva eliminazione delle sovranità nazionali, al superamento del particolarismo statale divenendo, gli Stati, enti di eguale rango, essendo sottoposti in egual misura al superiore ordinamento internazionale.
4. Protagonisti nonché soggetti di diritto sul piano internazionale non sono soltanto gli Stati intesi come complesso di enti e persone giuridiche preposte all’amministrazione della res publica, ma i singoli individui/persone fisiche tenuti all’obbedienza delle norme di diritto internazionale di cui sono diretti destinatari. Sostenere che lo Stato possa obbligare se stesso sul piano internazionale senza con ciò obbligare i suoi cittadini appare, per lo studioso, teoria inconcepibile, sebbene sostenuta dalla scuola giusnaturalista di Ugo Grozio che vede nel diritto internazionale la disciplina dei rapporti tra gli Stati e gli organisimi internazionali escludendo la compartecipazione dei singoli cittadini, destinatari solo di riflesso delle norme sovranazionali, tramite un successivo meccanismo di attuazione interna.
In una visione realistica, Kelsen riconosce che il conseguimento di simili obiettivi non può che passare tramite tappe intermedie rappresentate da un progressivo processo di attenuazione dei sentimenti nazionali che conduce a un definitivo livellamento delle differenze culturali dei vari Paesi. Il primo passo, dunque, è la stipulazione di un trattato tra le Superpotenze vincitrici dei due conflitti mondiali teso al mantenimento della pace e alla progressiva realizzazione di una Confederazione di Stati.
Protagonista del nuovo organismo internazionale dovrebbe essere la Corte di Giustizia, titolare di una giurisdizione obbligatoria: tutti gli Stati aderenti al trattato dovrebbero obbligarsi a rinunciare alla guerra e alle rappresaglie come strumenti di regolazione dei conflitti e a sottoporre le loro controversie alla decisione della Corte e ad applicare fedelmente le sue sentenze.
Riconosciuta a pieno titolo la legittimità della Corte, il passo successivo dovrebbe essere l’introduzione di una forza di polizia internazionale, diversa e indipendente da quella dei singoli Stati membri, capace di applicare coercitivamente le sentenze della Corte a fronte di un eventuale inadempimento dello Stato al quale la pronuncia è diretta.
Tutto ciò premesso, è indubbio che Kelsen si sia espresso con circa 50 anni di anticipo in merito ai grandi problemi giuridici ed istituzionali che sarebbero emersi sul piano internazionale nella seconda metà del secolo scorso: il fenomeno della globalizzazione e la crisi dei sistemi nazionali, l’estensione della soggettività internazionale ai singoli individui mediante il riconoscimento dei diritti umani e la prefigurabilità nonché legittimità di organismi internazionali come l’UE e la Corte di Giustizia; tuttavia, appare ancora molto lungo il percorso che conduce ad una piena realizzazione della pace internazionale nei termini espressi dallo studioso, richiede una costante cooperazione tra Stati, ciascuno consapevole, avulso da possibili interessi individuali, che solo abbandonando l’attuale concezione identitaria di Nazione sarà possibile creare un ente internazionale ovvero la civitas maxima tanto agognata.
Ma anche ammesso che si raggiunga l’obiettivo prefigurato, si instaurerà e si manterrà davvero la pace internazionale?
Ed allora si ripropone l’interrogativo con cui ha preso avvio la disamina: il pacifismo internazionale nella visione di Kelsen è un romantico sogno irrealizzabile o, quantomeno, di difficile realizzazione?
La presente indagine non ha lo scopo di fornire esaustive risposte ad interrogativi tuttora irrisolti ma intende segnalare i profili di criticità della teoria globalista kelseniana fatta propria anche da più recenti studiosi (Richard Falk, David Held, Antony Giddens).
L’analisi prende le mosse dalle basi del pensiero kelseniano e dalla presunta scienza oggettiva del diritto di derivazione kantiana che nasconde scelte ideologico-politiche ben precise.
Come osserva il giurista e filosofo italiano Danilo Zolo ne “I Signori della pace, una critica del globalismo giuridico”, per un verso Kelsen associa il primato del diritto internazionale ad un’ideologia pacifista e antimperialista che intende opporsi alle moderne concezioni individualistico-statali e, tuttavia, lo fa richiamandosi a nozioni come quelle di imperium romanum e di civitas maxima, che sembra difficile associare a ideali antimperialisti e pacifisti e che, per di più, possono apparire storicamente superate a partire dalla pace di Westfalia e con il moderno sistema pluralistico degli Stati.
Ed ancora, lascia sgomenti l’idea che se il fine ultimo del diritto è la pace, condizione indispensabile ai fini della giuridicità di un ordinamento internazionale che la instauri e la mantenga sia esattamente il ricorso a strumenti normativi di coercizione fisica; allo stesso modo il concetto intrinsecamente contraddittorio di “guerra giusta” in quanto autorizzato per legge e conseguenza di una pregressa violazione di una norma di diritto internazionale appare assai lontana dagli ideali antibellici desiderati: sarebbe come continuare a sostenere le criticate “missioni di pace” che spesso nuovi ed aspri conflitti tendono a generare.
Anche il terzo punto del programma kelseniano non risulta esente da critiche: la presunta eguaglianza tra Stati appare un ideale di scarsa realizzazione sin dalla fine della seconda guerra mondiale, quando la Carta delle Nazioni Unite aveva riconosciuto alle cinque potenze vincitrici un peso maggiore rispetto ai Paesi vinti. Fermarsi alle proiezioni teoriche senza calarsi nella più difficile realtà dei fatti rende il progetto di pace più un’utopia che un effettivo disegno attuativo.
Nulla quaestio, invece, in merito alla possibilità di riconoscere la personalità giuridica di diritto internazionale ai singoli individui – persone fisiche, gli stessi individui, si badi bene, potenzialmente vittime innocenti di rappresaglie dettate da una “guerra giusta”, incapace, come ogni guerra, di distinguere i responsabili del comportamento lesivo delle norme internazionali da tutti quei soggetti (spesso la maggior parte di una popolazione) del tutto estranei ai fatti che hanno scatenato le operazioni belliche. Più che di “guerra giusta” si dovrebbe parlare di “terrorismo giusto” come correttamente osserva Zolo.
Ma il maggiore profilo di criticità, oggi troppo spesso trascurato a favore di cieche derive globaliste, risulta la presunta imprescindibile condizione che per la costituzione di un’entità internazionale, come nei progetti di Kelsen, sia necessaria la perdita della concezione identitaria di Nazione, una sorta di omologazione culturale, prima ancora che giuridica, che livelli le varietà e le tradizioni etniche ed antropologiche, ricchezza di ogni Paese.
Le esposte riflessioni mostrano il volto di un sistema assai diverso da quello reale e, malgrado gli apprezzabili spunti offerti dalle teorie globaliste kelseniane oggi rivisitate secondo nuove chiavi di lettura, occorrono ulteriori riflessioni teoriche che pongano l’attenzione sulle peculiarità dei singoli Stati.
A modesto parere dello scrivente, sarebbe opportuno costituire un organismo internazionale che prenda in considerazione le caratteristiche e le capacità di ogni ordinamento statale, ponendosi non in un rapporto verticale di superiorità bensì di complementarietà e sussidiarietà, avuto riguardo alle specifiche esigenze di ciascuno Stato, intervenendo in funzione suppletiva sulla base delle singole problematiche riscontrate, in accordo con i principi di eguaglianza non puramente formale ma anche e soprattutto sostanziale, base solida da cui avviare un concreto processo di pace rispettoso delle sovranità interne.
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Marco Testai
Dottore in Giurisprudenza nell'A.A. 2012/2013 con la tesi di Laurea in diritto penale sul sequestro di persona ottenendo il voto di 110/110, ha intrapreso l'attività di pratica forense presso lo Studio Legale dell'Avv. Marco Verghi ultimata nel 2015.
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