Il patto di famiglia: profili civilistici e fiscali alla luce del recente orientamento della Cassazione
Il patto di famiglia è un istituto che per anni ha consentito il passaggio generazionale delle aziende, o di quote di esse, dall’imprenditore ai propri discendenti senza che vi potessero essere contestazioni in sede di eredità.
Recentemente tuttavia la giurisprudenza di legittimità si è orientata, con l’ordinanza n. 32823 del 19 dicembre 2018, in una direzione che sembra penalizzare in maniera incisiva l’istituto prevedendo nuovi e pesanti regimi fiscali.
Nel fornire la definizione di patto di famiglia, l’art. 768-bis c.c. stabilisce che “È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”.
Con la legge 14 febbraio 2006, n. 55 è stata introdotta per la prima volta la possibilità di stipulare, a pena di nullità nelle forme dell’atto pubblico, “accordi di successione” diretti a regolamentare e ad agevolare il trasferimento di aziende o partecipazioni societarie all’interno del nucleo familiare cui appartengono. Con l’integrazione di un nuovo capo del Codice Civile (V bis, artt. 768 bis – 768 octies), non solo è stata colmata una lacuna significativa del nostro ordinamento, ma sono state delineate anche le strategie operative di aziende e gruppi societari a matrice familiare impegnati nell’affrontare il ricambio generazionale.
Nello specifico l’art. 768 quater, contiene la disposizione principale su cui è stata argomentata la pronuncia de qua da parte della Suprema Corte.
In breve, gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, hanno l’obbligo di liquidare ai legittimari non assegnatari una somma compensativa.
E’ intrinseco nella norma appena richiamata, ed è particolarmente evidente, il carattere anticipatorio della successione proprio nei punti in cui essa stabilisce che quanto ricevuto dai legittimari non assegnatari venga imputato “alle quote di legittima a loro spettanti” e che, a garanzia della definitività e stabilità dell’assegnazione anticipata, quanto da costoro così ricevuto non sia suscettibile né di collazione né di riduzione.
Gli oneri economici relativi all’acquisizione dunque, vengono regolati da un ulteriore contratto, distinto dal primo, ma ad esso collegato in quanto vi partecipano gli stessi soggetti.
La peculiarità di tale contratto è la deroga al principio ex art. 1372 cod. civ. secondo cui, di norma, il contratto produce effetti soltanto tra le parti: l’art. 768 sexies cod. civ. prevede che esso possa essere opposto anche al coniuge e agli eventuali legittimari pretermessi o sopravvenuti al contratto.
Nel volerne definire gli aspetti fiscali, l’atto ha carattere indubbiamente liberale e riflette le prerogative della donazione.
In primis, riguardo il trasferimento d’azienda dal disponente al discendente, già il T.U. 346/1990 in materia di imposta sulle successioni e donazioni, aveva agevolato il trasferimento dell’azienda e delle partecipazioni societarie a favore dei discendenti e del coniuge, salvo sancire l’esenzione in caso di partecipazione di controllo e prosecuzione dell’attività d’impresa e della detenzione per almeno cinque anni.
L’ordinanza in questione attribuisce l’origine della statuizione alle disposizioni internazionali della Commissione Europea, stabilite con la raccomandazione n. 94/1069 del 7 dicembre 1994[1]. Anche dalla Commissione Europea erano già stati manifestati gli intenti di salvaguardia del passaggio generazionale delle imprese; concentrandosi proprio sulla difficoltà dei successori di liquidare gli altri coeredi, la Commissione fece ben presente che il pagamento delle imposte di successione o di donazione avrebbe rappresentato un rischio per l’equilibrio finanziario dell’impresa. Da qui la consapevolezza che una delle principali cause ostative al buon esito della successione sia proprio il correlativo onere fiscale.
In secondo luogo, per ciò che attiene alle quote di liquidazione che il beneficiario assegnatario è tenuto a versare ai legittimari non assegnatari, esse devono essere considerate come “donazioni a favore dei beneficiari”, stante la loro natura di oneri di cui è gravata la donazione (cfr. art. 58, co. 1, d. lgs. 346/1990)[2].
La normativa vigente, sia nell’ordinamento interno che europeo, ha chiarito dunque che il patto di famiglia è sottoposto al regime fiscale delle donazioni. In ordine a questo aspetto, viene in rilievo l’art. 58, comma 1, D. lgs. 346/1990, dal cui contenuto la Corte fornisce l’interpretazione secondo la quale l’obbligo dell’assegnatario di liquidare il legittimario non assegnatario, abbia natura di onere e non già carattere corrispettivo. Ne consegue che sul piano dell’imposizione, è considerata donazione anche la liquidazione de qua, oltre al trasferimento di azienda o di partecipazioni societarie.
L’ordinanza inoltre fa espresso riferimento alla natura modale della prestazione, in quanto prevista ex lege dagli artt. 536 e seguenti del cod. civ., natura questa, che riflette il carattere liberale originario del trasferimento.
Rimane tuttavia da affrontare il problema dell’applicazione delle aliquote ex articolo 2, co.49[3], D.l. 262/06, conv. in L. 286/06, riguardanti le donazioni e gli atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti. A tal proposito è opportuno ricordare che il rapporto avente ad oggetto il pagamento di tali somme compensative e i relativi oneri fiscali, non è tra disponente e assegnatario, bensì tra assegnatario e legittimario non assegnatario.
Sul punto infatti, la Cassazione esclude categoricamente il primo ordine logico-giuridico: sebbene i tratti essenziali del patto di famiglia consentano all’imprenditore, in via eccezionale, di produrre anticipatamente gli effetti attributivi e divisionali corrispondenti a quelli successori con esclusivo riguardo ai beni contemplati dall’art. 768 bis cod. civ. (aziende e partecipazioni societarie), ciò non vale per tutti gli altri cespiti del suo patrimonio.
Dunque, nessuna deroga al divieto di patti successori sui predetti cespiti.
Ne consegue, che le quote di liquidazione (siano esse effettuate in denaro o in natura) devono necessariamente provenire dall’assegnatario e non già dal disponente.
Sul regime di imposizioni cui sono sottoposte le liquidazioni dei legittimari non assegnatari invece, la Corte fa notare che seppure queste ultime siano soggette al medesimo regime impositivo proprio del trasferimento, l’esenzione dall’imposta di donazione di cui all’art. 3, comma 4 ter del D. lgs. 346/1990, è limitata al solo trasferimento aziendale o societario in senso stretto[4].
La novità introdotta dalla pronuncia in questione sta proprio qui: il nuovo criterio di tassazione.
L’applicabilità dell’imposta sulle successioni e le donazioni anche alle attribuzioni effettuate dall’ assegnatario al legittimario non assegnatario infatti, era già stata chiarita sia dall’amministrazione finanziaria con le circolari 3/E 2008 (par. 8.3.2) e 18/E 2013 (par. 5.3.2), sia dal Consiglio Nazionale del Notariato (studio 43/2007/T par. 3.1; studio 36/2011/T).
Qualora la tassazione della corresponsione in oggetto avvenisse in base al rapporto tra disponente e beneficiario o tra disponente e non assegnatario, non vi sarebbe tassazione alcuna dato che si rientrerebbe nella franchigia di un milione di euro attualmente prevista per i trasferimenti a titolo gratuito tra parenti in linea retta e/o coniugi.
Con la nuova interpretazione della Suprema Corte invece, la franchigia che si applica sul rapporto intercorrente tra assegnatario e legittimario non assegnatario è di soli 100.000,00 € e l’eccedenza è tassata al 6%.
In conclusione, si può affermare che le conseguenze della decisione in esame si rifletteranno sia sul piano fiscale che su quello civilistico: l’imposizione non può che ritenersi pesantemente onerosa e senz’altro funzionale ad ostacolare la sopravvivenza dell’istituto.
[1] Raccomandazione della Commissione del 7 dicembre 1994 sulla successione nelle piccole e medie imprese.
[2] “Gli oneri da cui è gravata la donazione, che hanno per oggetto prestazioni a soggetti terzi determinati individualmente, si considerano donazioni a favore dei beneficiari.”
[3] “Per le donazioni e gli atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti e la costituzione di vincoli di destinazione di beni l’imposta è determinata dall’applicazione delle seguenti aliquote al valore globale dei beni e dei diritti al netto degli oneri da cui è gravato il beneficiario diversi da quelli indicati dall’articolo 58, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, ovvero, se la donazione è fatta congiuntamente a favore di più soggetti o se in uno stesso atto sono compresi più atti di disposizione a favore di soggetti diversi, al valore delle quote dei beni o diritti attribuiti: a) a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, 1.000.000 di euro: 4 per cento; a-bis) a favore dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, 100.000 euro: 6 per cento; (20) (65) b) a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado: 6 per cento; c) a favore di altri soggetti: 8 per cento.”
[4] “sennonchè l’inestensibile indicazione legislativa, mirata come detto proprio sui trasferimenti mediante patto di famiglia, è invece nel senso di limitare il beneficio al solo trasferimento aziendale o societario in senso stretto.”, Cass. Civ., Sez. V ordinanza 19 dicembre 2018, n. 32823.
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