Il peculato dal diritto romano ai giorni nostri

Il peculato dal diritto romano ai giorni nostri

Il Codice Rocco punisce il peculato quale reato monosoggettivo proprio, commettendo il quale il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio si appropria di denaro o di altra cosa mobile altrui di cui ha il possesso o comunque la disponibilità in ragione del suo ufficio o servizio.

Sovente si afferma che il delitto in parola altro non é che l’appropriazione indebita del funzionario pubblico e, difatti, i reati di cui rispettivamente agli artt. 314 e 646 c.p. sono perfettamente sovrapponibili sotto il profilo della condotta materiale che consiste in una interversio possessionis, differendo, invece, per quanto riguarda la qualità del reo che nell’appropriazione indebita può essere il quisque de populo, vale a dire chiunque.

D’altra parte, essendo il peculato un reato proprio semiesclusivo e dovendosi rileggere l’art. 117 c.p. in conformità al principio costituzionale di colpevolezza a seguito delle sentenze nn. 364 e 1085/1988 della Consulta, qualora ad esempio il privato istigasse il funzionario di cui sopra a commettere il fatto, avendo contezza della qualifica pubblicistica o potendo averne alla stregua dell’homo eiudsem conditionis et professionis, vi sarebbe il concorso morale dell’extraneus nel delitto dell’intraneus.                                                               

All’opposto, se l’istigatore non era a conoscenza della predetta qualifica né poteva averne con la dovuta diligenza dell’agente modello razionale, risponde sempre di concorso morale, ma questa volta nel reato comune di appropriazione indebita.

Le origini del peculato sono molto antiche e potrebbero, addirittura, farsi risalire alla legge delle XII Tavole della Repubblica romana dove affonda le radici altresì la distinzione tra delicta crimina, ovverosia illeciti civili e reati : i primi perseguiti tramite un processo civile e con l’obbligo per il danneggiante di pagare una somma di denaro all’offeso a titolo di pena privata e i secondi, invece, repressi dallo Stato in un processo pubblico e puniti con una pena corporale o una multa all’Erario.

Dagli sviluppi normativi successivi e, in particolare, dalle fonti é noto che già prima dell’avvento al potere di Silla, vittorioso contro Gaio Mario nella prima delle tre guerre civili del I secolo a.C., fosse stato istituito un tribunale volto a perseguire stabilmente i casi di peculatus, ossia di sottrazione di denaro pubblico e, infatti, nell’86 a.C. fu imputato dinanzi a questo tribunale un giovane di nome Gneo Pompeo, futuro avversario di Cesare e chiamato a difendersi contro l’accusa di essersi appropriato illegalmente di una parte del bottino di guerra che suo padre aveva raccolto ad Ascoli al tempo della “rivolta italica”.

In seguito, dall’82 al 79 a.C., durante la dittatura di Silla, la legislazione penale conobbe una notevole accelerazione e furono create ex novo ovvero riorganizzate per via legislativa ben sei corti permanenti una delle quali proprio in materia di peculato che, se commesso, vedeva infliggere al reo una sanzione pecuniaria commisurata all’entità delle somme sottratte.

La definitiva sistemazione della fattispecie avvenne ad opera di Augusto che varò la lex Iulia de peculato, ricordata nel Digesto di Giustiniano e in forza della quale l’appropriazione indebita di beni e denari appartenenti allo Stato o ai luoghi di culto pubblici veniva punita con una multa pari al quadruplo di ciò che era stato e sottratto e forse, nei casi più gravi, con la c.d. aqua et igni interdictio, ovverosia l’espatrio con perdita della cittadinanza e del patrimonio.        Inoltre, per l’ipotesi di denaro pubblico sottratto e riconsegnato solo in parte, il reo subiva una multa corrispondente alla somma non restituita, aumentata di un terzo.

Da ultimo, in età imperiale, specie tardo-antica, allo scopo precipuo di moralizzare l’operato dei funzionari pubblici, le ipotesi di peculato furono ampliate e le pene divennero decisamente più severe.

Come si evince dal Codice Teodosiano, entrato in vigore nel 438 d.C., per i funzionari corrotti fu conservata le pena augustea della multa, con l’aggiunta della perdita di ogni carica pubblica nonché della pena di morte nei casi di recidiva o di continuazione del reato.

Sempre la pena capitale fu comminata, tra gli altri, agli esattori del fisco che avessero utilizzato a proprio vantaggio le somme pagate dai contribuenti allo Stato e il sacrilegium, già tipizzato da Augusto come sottrazione indebita di cose destinate al culto divino, fu trasformato nel ben più grave delitto di vilipendio al culto cristiano.

Storicamente, quindi, la ratio della punibilità del peculato risiede nella difesa del prestigio e del patrimonio dell’apparato pubblico e, coerentemente con tale esigenza, il delitto in oggetto fu trasposto nell’art. 314 del Codice Rocco del 1930, vista anche l’influenza del regime totalitario fascista.

Sennonché, nel 1990 il legislatore ha attuato una significativa riforma, riallineando il profilo di offensività del peculato ai dettami costituzionali e, segnatamente, all’art. 97, co. 2 Cost ai sensi del quale i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da garantire il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione.

Ciò vuol dire che i reati contro la PA come il peculato offendono codesti beni giuridici protetti dall’ordinamento al massimo grado e dei quali sono diretta espressione i principi generali del giusto procedimento amministrativo ex art. 1 l. 241/1990 quali efficacia, efficienza, economicità, pubblicità e trasparenza, nonché proporzionalità o “minimo mezzo utile” e tutela del legittimo affidamento che sono di derivazione eurounitaria.

Per giunta, nel ’90 fu abrogata la malversazione a danno di privati, fu introdotto contestualmente il peculato d’uso che sembra ricalcare a grandi linee l’ipotesi romanistica di denaro pubblico illecitamente sottratto e poi restituito e, cosa ancora più importante, nel peculato in sé ormai non ha più alcun rilievo la condotta di distrazione, residuando solo quella appropriativa.

Quest’ultima, come detto in principio, tende a coincidere con la interversio possessionis la quale ricorre allorché il funzionario pubblico inizia a disporre uti dominus, ossia come se ne fosse il proprietario, di un bene di cui dispone ratione officii.

Illuminata dottrina (Fiandaca – Musco), a tal proposito, statuisce che il peculato può consumarsi, a condizione che la res indebitamente sottratta risulti in concreto e, sul piano materiale o giuridico, collegata alle funzioni pubblicistiche del soggetto agente.

In definitiva, si può ritenere che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio strumentalizzi il suo potere di cui é investito dalla Legge, tradendone in tal guisa la causa giustificativa quale limite alla discrezionalità pura della PA.


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Jacopo Bracciale

Dopo aver conseguito la maturità classica con una votazione finale di 100/100, mi sono laureato cum laude in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Teramo con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Il problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana". In seguito, ho svolto con esito positivo presso il Tribunale di Teramo il tirocinio formativo teorico - pratico di 18 mesi ex art. 73 D.L. 69/2013 : per un anno nella Sezione Penale e, nei restanti sei mesi, in quella Civile. Parallelamente ho frequentato e, ancora oggi, frequento il corso di Rocco Galli per la preparazione al concorso in magistratura. Dal mese di novembre del 2020 collaboro con la rivista scientifica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo.

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