Il potere di segretazione del Pubblico Ministero

Il potere di segretazione del Pubblico Ministero

L’art.11 della legge n.397 del 7.12.2000 introduceva, al titolo VI bis del Codice di Rito recante disposizioni in materia di investigazioni difensive, gli artt. 391 bis e seguenti con l’intento di assicurare l’effettivo riconoscimento dei principi del Giusto Processo attraverso un ridimensionamento del ruolo del p.m. e un difensore in grado di svolgere attività di indagine, tra cui l’assunzione di informazioni e la possibilità di accedere a luoghi e documentazioni, realizzando così il massimo garantismo.

Alla luce di queste disposizioni introdotte nel nostro Codice di Procedura Penale, si assicurava così alle parti il diritto di compiere autonomamente gli atti di indagine che esse ritenevano opportuni, ognuna in relazione alle proprie strategie processuali, temperando tale diritto con l’esigenza delle stesse parti di visionare quel materiale cui fosse giunta per prima la controparte.

La dialettica tra le parti nella fase di indagine è, infatti, fondamentale per garantire che l’intero procedimento, sin dalla fase iniziale, si svolga nel rispetto dei principi costituzionali e ad armi pari, assicurando anche il potere “partecipativo” della difesa.

Ma nonostante il contesto sia dunque teso a garantire che l’attività sia orientata in senso accusatorio e non inquisitorio, si denota all’interno del nostro Codice di Rito l’esistenza di una disposizione che appare in netto contrasto con quelli che sono i propositi finora perseguiti dal legislatore: e cioè il “Potere di segretazione del pubblico ministero” previsto dall’art. 391 quinquies c.p.p., ai sensi del quale: “Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza. Il divieto non può avere una durata superiore a due mesi. Il pubblico ministero, nel comunicare il divieto di cui al comma 1 alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie”.

La disarmonia di tale norma con il nuovo sistema processuale, ma soprattutto con il principio di parità delle armi e con lo stesso diritto di difesa – così come cristallizzati agli artt. 24 e 111 della Carta Costituzionale – è data dal fatto che quando l’accesso a determinate fonti di prova viene lasciato nella disponibilità di una sola parte, viene a mancare l’interazione tra pm e difensore risultando dunque gravemente frustrati detti principi.

Ferma restando la necessità da parte del pm di svolgere un’attività di indagine senza interferenze e che tuteli la funzione pubblica di un soggetto che indaga anche a favore della persona sottoposta a indagine, l’articolo 391 quinquies c.p.p. può rappresentare un vero e proprio ostacolo all’attività difensiva, in contrasto con il senso e gli obiettivi della L. n. 397 del 2000. Esso non risulta affatto un meccanismo di tutela dell’indagine da parte del pm in relazione a specifiche necessità investigative ma, così come contemplato dal Codice di Rito, nasconde una vera e propria violazione al diritto di difesa, dietro lo scopo di assicurare la segretezza delle indagini e la tutela delle fonti di prova, già ampiamente tutelata da diverse disposizioni, ad esempio attraverso gli artt. 335 co. 3bis e 329 co. 3 c.p.p..

Pertanto, l’unico risultato ottenuto dall’art. 391 quinquies c.p.p. pare essere quello di condizionare la qualità e i tempi della dialettica tra pm e difesa, nonché di impedire l’introduzione di elementi a favore dell’indagato arrivando a congelare o a differire le attività di indagine potenzialmente esperibili da parte della difesa.

Passando appunto ad un’analisi dettagliata della disposizione in esame, quando si fa riferimento a “specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine” balza immediatamente agli occhi come tale espressione appaia troppo vaga e indeterminata, genericità che non può dirsi superabile dall’utilizzo dell’aggettivo “specifiche” in quanto non sono di seguito contemplate, né ricavabili, esigenze tassative. È ragionevole ritenere, dunque, che tale disposizione potrebbe trovare applicazione anche qualora non vi siano presupposti indispensabili che rendano correttamente necessario segretare le attività di indagine del pubblico ministero prima dell’esercizio dell’azione penale, al fine di un adeguato svolgimento dell’intera attività dell’inquirente.

Emergenze infatti ben definite e non lasciate all’apprezzamento personale del pm si hanno per esempio quando ci si trova di fronte a circostanze che potrebbero indurre le persone informate dei fatti a tacere o a ritrattare, ovvero qualora ci fosse la necessità di dissuadere gli eventuali coindagati dal collaborare; oppure quando l’informazione sulle prime risultanze di indagine potrebbe suggestionare le persone da sentire; o ancora quando l’esito di talune perquisizioni potrebbe mettere sull’avviso i detentori di cose pertinenti al reato o comunque utili per la ricerca della verità, inducendoli a occultarle o a sopprimerle.

La valutazione invece contemplata nell’art. nell’art. 391 quinquies c.p.p., appare individuale non prevedendo nemmeno l’intervento di un gip, così come invece previsto ogni qual volta si svolgano attività che rischiano di minare i diritti fondamentali dei soggetti a vario titolo interessati al procedimento.

Si potrebbe obiettare facendo riferimento alla previsione nell’art. 391 quinquies c.p.p. della motivazione sottesa al decreto, ma la motivazione in questione è quasi sempre costituita da formule di stile poco esaustive che lasciano al pm margini di operatività non solo elastici, ma anche sottratti al controllo del giudice dal momento che tale provvedimento non è appunto soggetto ad alcun tipo di impugnazione. Inutile ed illogica sarebbe poi una eventuale richiesta di revoca del provvedimento allo stesso pubblico ministero che lo ha emanato.

L’effetto sostanziale del provvedimento emanato ex art. 391 quinquies c.p.p. è pertanto di tutta evidenza maggiore di quanto appaia: vietare alle persone sentite di comunicare le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza non investe soltanto il contenuto degli atti di indagine svolti dal pm e dalla polizia giudiziaria, e quindi la documentazione che raccoglie l’attività già concretamente effettuata dagli inquirenti, ma ingloba l’intero patrimonio conoscitivo della persona sentita.

In sostanza, vietare alle persone sentite di rilasciare sia formalmente che informalmente dichiarazioni al difensore indipendentemente da quanto già verbalizzato dal pm, consente di vietare la comunicazione di ogni particolare conosciuto dalla persona che possa risultare utile alla ricostruzione del fatto, anche qualora nessuna domanda sia stata mai formulata in merito.

Quanto al blocco dell’attività investigativa del difensore, se il divieto di cui all’art. 391 quinquies c.p.p. fosse apposto in momenti strategicamente fondamentali, anche qualora la sua durata fosse di “soli” due mesi, essa non sarebbe affatto breve da un punto di vista processuale, ma potrebbe oltretutto risultare facilmente superiore al massimo stabilito per esempio nei processi con più indagati e riguardanti la criminalità organizzata, poiché le persone alle quali verrebbe ordinato il silenzio potrebbero essere più di una e a partire da momenti diversi.

Qualora avvenisse in concomitanza dell’applicazione di una misura cautelare, poi, gli effetti potrebbero risultare ancora maggiori: le informazioni in possesso della persona alla quale è stato comunicato il divieto potrebbero essere a discarico dell’indagato e quindi ottimi argomenti per un Riesame ex art. 309 c.p.p, che deve però essere proposto in tempi tecnici ben precisi e che potrebbe dunque essere condizionato nell’esito per l’impossibilità di raccogliere tali informazioni segretate in tempi utili.

Nonostante ciò, il momento in cui viene posto il divieto non è stato determinato dal legislatore: non coincidendo necessariamente con il termine dell’audizione, si deduce che esso possa essere apposto dal pm in qualsiasi momento dell’indagine.

Altro indicatore della genericità dell’art. 391 quinquies c.p.p. è l’utilizzo dell’ espressione “alle persone sentite” per individuare coloro ai quali è possibile apporre il divieto, senza specificare a che titolo: in astratto il pm potrebbe dunque paradossalmente vietare di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine non solo alle persone informate sui fatti ma anche agli indagati, aspetto indubbiamente assurdo poiché non consentirebbe a quest’ultimi di esercitare il diritto di difesa.

Inoltre, dopo aver avvertito le persone sentite delle responsabilità penali conseguenti alla violazione di tale divieto  e cioè la possibile configurazione del reato di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale ex art. 379 bis c.p.p., il pubblico ministero ha esaurito il suo compito poiché nessuna notifica deve essere fatta al difensore dell’indagato, che verrà eventualmente informato soltanto nel momento in cui dovesse richiedere informazioni alla persona informata dei fatti alla quale è stato apposto il divieto.

La permanenza di una disposizione di tale tipo porta dunque a delle considerazioni che, per quanto ovvie, sembrano ad oggi essere totalmente ignorate: la parità processuale tra accusa e difesa, nonostante le importanti innovazioni legislative, può subire forti limitazioni a seguito di una decisione adottata dal pm che potrebbe essere priva di concreta motivazione, senza il controllo di un giudice e senza possibilità da parte del difensore di impugnare tale provvedimento al fine di verificarne la fondatezza, richiedendone una verifica di legittimità.

Ben diverso ad esempio sarebbe qualora la decisione venisse lasciata al gip, con il compito di verificare e valutare se l’esercizio del potere di segregazione del pubblico ministero ex art. 391 quinquies c.p.p. possa ostacolare il diritto di difesa, non consentendo al difensore di acquisire notizie dalle persone eventualmente in grado di riferire circostanze utili, o se in alternativa lo stesso diritto fosse garantito al difensore, consentendo al magistrato di intervenire ugualmente.

L’art. 391 quinquies c.p.p. non può essere riferito, infatti, alle asimmetrie e ai limiti funzionali relativi alle diverse attività svolte dal pm – portatore di interessi pubblici e soggetto imparziale nella fase di indagine – e dalla difesa privata, poiché tali limiti sono posti proprio a tutela del principio di parità delle armi e non appaiono invece giustificabili quando si tramutano in causa di squilibri fra i poteri garantiti ai soggetti che operano nel procedimento penale.

Concludendo, l’ art. 391 quinquies c.p.p., analizzato in quest’ottica, risulta essere una norma che, per la sua genericità e per gli eccessivi margini di libertà lasciati al pm potrebbe essere fonte di gratuite compressioni del diritto di difesa, se male utilizzata e se applicata in momenti strategici decisivi per la difesa.

Il diritto della difesa di conoscere gli atti su cui si fondano le pretese e le argomentazioni della controparte prima dell’istruttoria dibattimentale può risultare compromesso per motivazioni talvolta inesistenti, che costituiscono un vero ostacolo all’interazione e alla dialettica fra i soggetti che operano nel procedimento penale, a riprova di una ingiustificata disparità e quindi di un forte sospetto di incostituzionalità.

Tale pericolo potrebbe invece essere agevolmente aggirato se fosse garantito un controllo super partes alla richiesta del pm, da parte ad esempio del Giudice delle indagini preliminari, soggetto d’altronde preposto a questa funzione in questa fase del procedimento e se la disparità scaturente dalla norma in esame fosse riequilibrata dalla previsione di adeguati mezzi di impugnazione esperibili; o se, con una ragionevole disciplina, fosse riconosciuto uguale potere di segretazione anche alla difesa.


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