Il principio chi inquina paga e il sistema nazionale di risarcimento del danno ambientale, con particolare riguardo alla responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato

Il principio chi inquina paga e il sistema nazionale di risarcimento del danno ambientale, con particolare riguardo alla responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato

Sommario: Introduzione – 1. Il principio chi inquina paga e il sistema nazionale del risarcimento del danno ambientale – 2. La responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato alla luce dei recenti arresti dell’Adunanza Plenaria e della Corte di Giustizia 3. La responsabilità del proprietario del sito per danno da cose in custodia (Cass. Civ., SS. UU., 1° febbraio 2023, n. 3077)

 

Introduzione

Il presente elaborato intende, in primo, luogo tracciare le coordinate generali del sistema nazionale di risarcimento del danno ambientale, per poi approfondire la specifica questione correlata al principio “chi inquina paga” relativa all’eventuale responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato alla luce del Codice dell’Ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006) e dei recenti approdi cui è pervenuta la giurisprudenza comunitaria, nonché l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

1. Il principio chi inquina paga e il sistema nazionale del risarcimento del danno ambientale

Il sistema del risarcimento del danno ambientale è oggi disciplinato dal d.lgs. n. 152 del 2006 (Codice dell’Ambiente) e si configura quale sistema di responsabilità del tutto peculiare.

In proposito, autorevole dottrina ha posto in luce la “natura ibrida” della responsabilità per danno ambientale, che nell’ordinamento nazionale potrebbe qualificarsi come una sorta di tertium genus in ragione dei diversi profili di imputazione, di natura oggettiva da un lato, e soggettiva dall’altro lato, nonché della legittimazione all’azione per la riparazione del danno1.

In particolare, in tema di responsabilità per danno ambientale viene in rilievo un doppio regime di responsabilità: per gli operatori professionali che svolgono un’attività caratterizzata da un rilevante rischio ambientale si fa riferimento ad un apposito allegato al Codice dell’Ambiente che prevede un sistema di responsabilità oggettiva, cioè a prescindere dalla colpa, mentre per tutti gli altri soggetti che cagionano un danno ambientale è richiesta la configurabilità dell’elemento soggettivo, sub specie di dolo o colpa. In ogni caso, è necessario che sia stato cagionato il danno ambientale. Pertanto, si tratta di una responsabilità che può talvolta prescindere dall’elemento soggettivo, come nel caso sopra citato degli operatori professionali, ma non prescinde mai dal rapporto di causalità.

Tale impostazione è coerente con uno dei principi cardine che per primo storicamente si è affermato nel campo del diritto ambientale ed è costituito dal principio “chi inquina paga”2, di derivazione comunitaria, menzionato dall’art. 191 par. 2 del TFUE, nel senso che è colui che inquina, ovvero l’autore del danno ambientale, che è tenuto agli obblighi di bonifica e messa in sicurezza del sito.

In particolare, alla luce della Dir. 21-4-2004 n. 2004/35/CE3, in applicazione del principio “chi inquina paga”, l’operatore che cagiona un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno è tenuto di massima a sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Ciò è specificato, altresì, dalla Dir. 19-11-2008 n. 2008/98/CE4, in base alla quale “Secondo il principio “chi inquina paga”, i costi della gestione dei rifiuti, compresi quelli per la necessaria infrastruttura e il relativo funzionamento, sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti”.

Sotto il profilo della legittimazione attiva, si precisa, inoltre che la legittimazione in materia di risarcimento del danno ambientale spetta allo Stato ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, in particolare al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare che agisce esercitando, altresì, l’azione civile in sede penale per il risarcimento ambientale. Pertanto, rispetto al sistema previgente introdotto dall’art. 18 della legge n. 349/19865 istitutiva del Ministero dell’Ambiente, viene meno la legittimazione attiva degli enti territoriali nel cui territorio si è verificato il danno ambientale.

Al riguardo, era stata sollevata anche una questione di legittimità costituzionale ritenuta infondata dalla Consulta6 data la particolare natura e risarcimento del danno ambientale. In proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato come oggi il risarcimento del danno all’ambiente non avviene più per equivalente, bensì si configura un sistema di risarcimento peculiare perché è sempre in forma specifica. Alla luce dell’impianto normativo vigente il danno ambientale viene, infatti, eliminato mediante le c.d. misure di ripristino che possono essere primarie, complementari e sostitutive, ma configurano pur sempre misure di ripristino in forma specifica finalizzate alla riparazione del danno ambientale e non al risarcimento per equivalente. Pertanto, alla luce dell’impostazione attuale del Codice dell’Ambiente, non si prevede più che il responsabile del danno ambientale versi una somma di denaro residuando il danno ambientale, ma quest’ultimo va eliminato mediante le predette misure di ripristino. Nell’ipotesi in cui non vengano eseguite le misure di ripristino, interviene lo Stato a spese del responsabile, ma in ogni caso si procede al ripristino delle risorse naturali che sono state compromesse.

Quindi, nell’ambito del sistema di risarcimento del danno ambientale emerge con forza un’esigenza di gestione unitaria di questo intervento di risanamento del danno ambientale, il quale, se fosse frazionato su base territoriale, farebbe venir meno la tutela unitaria dell’ambiente, che peraltro nell’ambito del riparto di competenze scolpito dalla nostra Costituzione assurge a materia oggetto di competenza esclusiva statale7. Ciò, quindi, giustifica la centralizzazione della legittimazione risarcitoria in materia di danno ambientale in capo al Ministero, con esclusione di quella degli enti territoriali.

Tuttavia, l’art. 311 del Codice dell’ambiente8 prevede comunque che altri soggetti pubblici e privati, compresi gli enti rappresentativi delle comunità locali, possano proporre azione risarcitoria per i danni specifici dagli stessi patiti non in conseguenza della lesione all’ambiente, ma di diritti propri. Quindi, lo Stato agisce per il risarcimento del danno all’ambiente quale bene immateriale e unitario, mentre le collettività locali nel cui territorio si è verificato il risarcimento possono agire per chiedere il risarcimento di pregiudizi di diversa natura, ad esempio delle conseguenze patrimoniali negative, come il calo della capacità di attrarre turisti.

Tant’è vero che sul punto la medesima Corte di Cassazione ha precisato che alla normativa speciale sul danno ambientale si affianca la disciplina generale sul danno aquiliano prevista dal codice civile9. Quindi, è ben possibile la legittimazione degli enti territoriali ad esercitare l’azione civile iure proprio per chiedere il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, ma al pari di ogni altra persona singola o associata, dei danni subiti dagli stessi in conseguenza della lesione dell’ambiente, danni diretti, specifici e ulteriori diversi da questo generico di natura pubblica di lesione all’ambiente.

Tale sistema di tutele incentrato sulle misure di riparazione primaria, complementare e sostitutiva è, peraltro, coerente con quanto previsto dalla sopra citata Direttiva 2004/35/CE in tema di ambiente che prevede un obbligo di ripristino ambientale e non il risarcimento per equivalente.

In tema di risarcimento del danno ambientale occorre, altresì, evidenziare i peculiari profili di giurisdizione, in quanto allo stato attuale in tema di ambiente si assiste ad una triplicazione della giurisdizione a seconda del soggetto che cagiona il danno o a seconda della strada giudiziaria o amministrativa che viene prescelta per risarcire il danno.

In particolare, il Ministero dell’ambiente si ritiene che possa agire ai sensi del Codice dell’ambiente in due modi: o in via giudiziaria o in via amministrativa. In via giudiziaria, è possibile promuovere un’azione civile per danni davanti al giudice ordinario, anche costituendosi parte civile nel processo penale per reati ambientali.

In alternativa alla strada giudiziaria, nell’ipotesi di danno ambientale è percorribile anche la diversa strada amministrativa, ovvero la possibilità di adottare un’ordinanza ingiunzione con la quale viene intimato al soggetto accertato come responsabile di procedere alla riparazione del danno ambientale mediante il ripristino. Qualora il soggetto non provveda all’adozione delle misure di riparazione nei termini prescritti, il Ministero dell’ambiente determina i costi delle attività necessarie a conseguire l’attuazione di queste misure di ripristino, ingiungendo al responsabile il pagamento di questi costi. Avverso questa ordinanza ingiunzione si radica la giurisdizione del giudice amministrativo perché viene appunto impugnata di fronte allo stesso. Quindi, si assiste ad un sistema di riparto di giurisdizione fra G.O. o G.A. a seconda del tipo di strada prescelta.

Inoltre, l’art. 313, comma 6 del Codice dell’ambiente, prevede che in caso di danno provocato da soggetti che comunque sono legati da un rapporto di servizio con l’amministrazione, il Ministero dell’ambiente anziché ingiungere il pagamento del risarcimento, invia un rapporto alla Procura generale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio. Quindi, sussiste anche una giurisdizione del danno ambientale sul presupposto che si tratta di soggetti collegati da un rapporto di servizio con l’amministrazione.

2. La responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato alla luce dei recenti arresti dell’Adunanza Plenaria e della Corte di Giustizia

Come sopra precisato, il danno ambientale presuppone che venga accertato il rapporto di causalità e quindi in materia ambientale vige il principio di derivazione comunitaria “chi inquina paga in base al quale la responsabilità va rivenuta in capo all’autore del danno ambientale.

Si era poi posto in giurisprudenza il problema della responsabilità del proprietario incolpevole del sito inquinato, cioè se costui potesse essere destinatario dell’ordine di bonifica del sito inquinato nella sua qualità di proprietario, ovvero quale soggetto che ha la materiale disponibilità del sito in caso di mancato accertamento dell’autore del responsabile del danno. In altri termini, ci si era chiesto se sussistesse una responsabilità da posizione.

Al riguardo, con interpretazione avallata anche dalla Corte di giustizia, ritenuta compatibile con la direttiva comunitaria in materia di responsabilità per danno ambientale, i giudici di Palazzo Spada10 hanno precisato che non si possono far ricadere su chi non ha inquinato e risulta proprietario del bene questi obblighi di bonifica del sito, che vanno necessariamente posti in capo all’autore dell’inquinamento per il fondamentale principio chi inquina paga. Pertanto, non sussiste una responsabilità da posizione per fatto altrui derivante dalla mera titolarità del diritto di proprietà.

Del resto, ciò trova conferma nel nel testo normativo, in quanto il Codice dell’ambiente all’art. 253 prevede un onere reale in capo al proprietario del sito inquinato, stabilendosi che, laddove non si individui il responsabile dell’inquinamento, o comunque non sia possibile ottenere l’esecuzione delle opere di bonifica da parte di questo soggetto, la bonifica viene eseguita dall’amministrazione, la quale può rivalersi nei confronti del proprietario del sito, ma soltanto nei limiti del valore economico del fondo che è stato bonificato e quindi è inquinato.

In base a quanto sopra riportato, pertanto, il proprietario del sito inquinato risponde in via residuale e per equivalente, nel senso che non può essere obbligato a fare la bonifica, ma può essere obbligato nei limiti del valore del fondo a rimborsare le spese sostenute per la bonifica.

Quindi, viene in rilievo una responsabilità intra vires del proprietario del sito nel senso che il medesimo è tenuto a rimborsare le spese sostenute per la bonifica in virtù di una sorta di onere reale nei limiti del fondo, ma non è obbligato a bonificare il sito.

Si tratta di un onere reale perché nel caso di specie si tratta di un debito che è anche garantito dal fondo, nel senso che ove non venisse adempiuto l’amministrazione che ha provveduto alla bonifica può, in base all’articolo 253 Codice dell’ambiente, rivalersi sul proprietario del fondo, espropriando quel bene e con un diritto di prelazione rispetto ad altri creditori e nei limiti del suo valore. Sul punto, peraltro, occorre evidenziare la differenza tra l’onere reale e l’obbligazione propter rem: nell’obbligazione propter rem il bene individua il debitore, ma non delimita la responsabilità. Quindi, chi ha il bene è debitore. Pertanto, se l’obbligazione di bonifica fosse un’obbligazione propter rem, chi ha il bene è anche titolare dell’obbligazione di bonifica di cui risponde con tutto il proprio patrimonio. Invece, nell’onere reale si configura una sorta di garanzia reale e il soggetto gravato da tale onere risponde nei limiti del valore, quindi intra vires, del fondo e non risponde della stessa prestazione, ma di una prestazione qualitativamente e quantitativamente diversa come in questo caso. Invero, nel caso in esame chi ha inquinato deve bonificare e se non bonifica provvede l’amministrazione che può rivalersi sul proprietario e nei limiti del valore del fondo, che è gravato da onere reale e privilegio speciale. Sul punto, si precisa poi che l’onere reale già implica un diritto di prelazione, in quanto esso si qualifica come una figura ormai desueta in forza della quale obbligato è il fondo più che il proprietario del medesimo e che il creditore può rivalersi sul fondo nei limiti del suo valore con diritto ad essere preferito rispetto agli altri creditori. Quindi, l’onere reale già include il diritto di essere preferiti e quindi una sorta di privilegio speciale.

In proposito, si evidenzia che l’Adunanza Plenaria con le ordinanze sopra citate ha precisato che non sussiste nel caso in esame un’obbligazione propter rem, in quanto l’obbligazione di bonifica non circola con la circolazione bene, bensì rimane in capo a chi ha inquinato il sito. Mentre, la circolazione del bene determina soltanto un onere reale che implica responsabilità intra vires e quindi il proprietario è responsabile nel limiti del valore del fondo. Ciò è previsto per tabulas, perché l’art. 253 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede in capo al proprietario incolpevole questa forma di responsabilità nei termini di un onere reale con responsabilità, dopo che la bonifica è stata eseguita, nei limiti di un rimborso delle spese in relazione al valore del fondo, escludendo la configurabilità di un obbligo di bonifica in capo al proprietario del sito.

Sul tema si precisa che la questione in passato fu oggetto di un animato dibattito11 tale da richiedere il predetto intervento dei giudici di Palazzo Spada che ha sottoposto alla Corte di giustizia la questione relativa alla compatibilità o meno di quell’interpretazione del dato normativo tratto dal Codice dell’ambiente con la direttiva comunitaria 2004/35/CE in materia ambientale.

La Corte di Giustizia12 ha avallato l’interpretazione dell’Adunanza Plenaria chiarendo che la direttiva comunitaria non ostava ad una disciplina nazionale che prevedeva in capo al proprietario incolpevole una responsabilità di questo tipo.

Pertanto, una responsabilità per danno ambientale di tal fatta, ovvero un sistema in base al quale l’obbligo di bonifica grava su chi ha inquinato e non anche sul proprietario incolpevole è comunitariamente coerente, nel senso che sul punto la stessa disciplina comunitaria si ispira al principio di chi inquina paga.

In proposito, quindi, si sottolinea come ormai la giurisprudenza nazionale e comunitaria allo stato attuale sia orientata in tal senso in maniera abbastanza consolidata.

3. La responsabilità del proprietario del sito per danno da cose in custodia (Cass. Civ., SS. UU., 1° febbraio 2023, n. 3077)

Un’ulteriore questione riguarda la possibilità per il proprietario incolpevole di adottare delle misure di messa in sicurezza e di emergenza del sito o se possa venire in rilievo una responsabilità per danno da cose in custodia o per danno da attività pericolose del medesimo.

Sulla questione si sono recentemente pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza volta a dirimere un contrasto di orientamenti, peraltro resa su impugnazione di una pronuncia del Tribunale superiore delle acque pubbliche ricorribile in Cassazione.

La questione involge il rapporto tra prevenzione e messa in sicurezza d’emergenza di un sito inquinato, nonché l’operatività di altri due fondamentali principi nella materia ambientale: il principio di prevenzione e il principio di precauzione.

In particolare, il principio di prevenzione postula che il danno all’ambiente sia già sussistente, mentre quello di precauzione anticipa la soglia di tutela, nel senso che è teso a prevenire un mero sospetto o una minaccia di danno ambientale.

Invero, in capo al proprietario incolpevole sussiste un obbligo di adottare le misure di prevenzione, laddove si configuri una minaccia all’ambiente, ovvero un concreto rischio di danno ambientale, proprio per prevenire tale situazione.

Pertanto, se il sito è inquinato, il proprietario del medesimo è tenuto a metterlo in sicurezza nelle more dell’attuazione delle operazioni di bonifica, in quanto l’obbligo di messa in sicurezza d’emergenza rientra negli obblighi di prevenzione ed è imposto dal principio di prevenzione che governa la materia ambientale.

Sul tema, recentemente la Cassazione ha affermato che un conto è la prevenzione, un conto è la messa in sicurezza del sito inquinato, perché la prevenzione presuppone la minaccia del danno ambientale, mentre la messa in sicurezza presuppone invece che il danno ci sia già.

In altri termini, la prevenzione previene il danno presupponendo un rischio concreto di danno, quindi opera in una situazione in cui non sussiste ancora l’inquinamento del sito che potrebbe verificarsi. Mentre, se l’inquinamento è in atto non risulta più operativo il principio di prevenzione, ma la c.d. messa in sicurezza, che fuoriesce dagli obblighi del proprietario incolpevole del sito inquinato, che è chiamato unicamente a prevenire il danno ambientale da altri cagionato, ma non a provvedere alla messa in sicurezza d’emergenza di un sito che altri hanno inquinato. Ciò in quanto sia le misure di messa in sicurezza, sia le misure di bonifica non sono poste a carico del proprietario, ma gravano sull’autore dell’inquinamento e se non si individua il responsabile, incombono sull’amministrazione che poi si rivale sul proprietario sempre nei limiti dell’onere reale.

Del resto, si precisa che a volte le misure di messa in sicurezza di emergenza finiscono per produrre risultati analoghi all’operazione di bonifica, perché a volte la messa in sicurezza di un sito significa che il medesimo va sostanzialmente bonificato, quindi sarebbe un modo per eludere la sanzione rappresentata dalla bonifica.

Inoltre, in tale ipotesi non può ritenersi applicabile la responsabilità né per danno cosa in custodia, né per attività pericolose.

Invero, per quanto concerne la responsabilità per attività pericolose se il proprietario del sito non ha inquinato non sussiste necessariamente una correlazione con l’attività eventualmente svolta tale da configura la predetta responsabilità.

In relazione, invece, alla responsabilità per danno da cose in custodia, si esclude la relativa configurabilità nel caso di specie perché presuppone una derivazione causale del danno dalla cosa. In particolare, un orientamento aveva tentato di recuperare l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza attraverso la responsabilità da cose in custodia sostenendo che il proprietario del sito risulta custode del fondo e quindi in tale qualità deve attivarsi, perché altrimenti risulta responsabile per il danno che la cosa inquinata continua a produrre. Pertanto, secondo tale ricostruzione ermeneutica, viene posta in capo al proprietario incolpevole del sito inquinato alla stregua della disciplina della responsabilità civile per danno da cose in custodia una forma di risarcimento in forma specifica finalizzata alla messa in pristino del sito, almeno per la parte in cui l’inquinamento si è protratta sotto la sua custodia. In realtà, anche questo tentativo di recuperare l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza in capo al proprietario del sito attraverso la responsabilità da cose in custodia viene respinto, perché si ritiene che la disciplina dettata nel Codice dell’ambiente per la bonifica dei siti contaminati sia una disciplina speciale ed esaustiva che esclude l’applicazione delle norme del codice civile, in quanto normativa a sé stante non sovrapponibile a quella civilistica. Pertanto, non si possono imporre al proprietario incolpevole del sito inquinato obblighi di bonifica o di messa in sicurezza neanche invocando l’art. 2050 cc proprio per la specialità della disciplina in materia ambientale.

Al riguardo, le Sezioni Unite n. 3077 del 1° febbraio 202313, in tema di responsabilità ambientale, hanno affermato che a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l’inquinamento, non può essere imposto l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall’art. 253 del d.lgs. n. 152 del 2006 in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari, possedendo le misure anzidette una connotazione ripristinatoria di un danno già prodottosi che le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che, viceversa, il proprietario del sito è obbligato ad assumere in quanto idonee a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile. Al proprietario che non abbia causato l’inquinamento sono, altresì, inapplicabili i criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., dal momento che la disciplina definita nella parte quarta del Codice dell’Ambiente per la bonifica dei siti contaminati ha carattere di specialità rispetto alle norme del codice civile, contemplando, a tale proposito, la specifica posizione del proprietario/gestore incolpevole e trovando applicazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga” di cui alla direttiva 2004/35/CE), a titolo di dolo o colpa. Ne consegue che l’obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico di colui che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell’inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza. In conclusione, il proprietario incolpevole del sito inquinato non è tenuto alla bonifica, alla messa in sicurezza d’emergenza, non grava su di lui una responsabilità da cose in custodia tramite la quale possa essere costretto a bonificare il fondo.

1 Al riguardo cfr. G. Fornabio, “Chi inquina paga”, in Milan Law Review, Vol. 3, No. 1, 2022.

2 L’art. 191 TFUE enuncia il principio “chi inquina paga alla stregua del quale: «la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». A tale principio, peraltro, si fa riferimento sin dal Primo programma d’azione del 1973 in cui è precisato che “le spese per la prevenzione e l’eliminazione dei fattori nocivi devono essere sostenute dall’inquinatore” e successivamente nella raccomandazione del Consiglio del 3 marzo 1975, n. 436 concernente l’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici poteri in materia di ambiente che rappresenta la prima fonte relativa alla sua interpretazione ed attuazione.

3 Cfr. Dir. 21-4-2004 n. 2004/35/CEDirettiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Il quadro normativo è profondamente mutato con tale direttiva, secondo cui la prevenzione e la riparazione di tale danno nella misura del possibile “contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato”; tenendo fermo, peraltro, il principio “chi inquina paga”, stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (n. 1 e n. 2 del “considerando”). In particolare, nell’Allegato II della direttiva, relativa alla “Riparazione del danno ambientale”, si pone in luce come tale riparazione è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, che sono costituite da “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”. Solo qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell’ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare e quella compensativa.

4 Cfr. Dir. 19-11-2008 n. 2008/98/CE – Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive.

5 La la legge 8 luglio 1986, n. 349 “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale” detta la prima disciplina organica della materia, prevedendo all’art. 18, comma 3, che l’azione di risarcimento del danno ambientale potesse essere promossa “dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo”. Ciò era coerente con una visione che privilegiava una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto all’ambiente. In questa prospettiva civilistica non era illogico collegare l’azione ad ogni interesse giuridicamente rilevante.

6 Cfr. Corte costituzionale, 30 dicembre 1987, n. 641. In particolare, con tale sentenza la Corte costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 18 della Legge n. 349/86, ha sostenuto che l’ambiente è un “bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutele; ma tutte nell’insieme, sono riconducibili ad unità”. Non solo: con la sentenza del 1° giugno 2016, n. 126, la Corte costituzionale è tornata sulla questione della legittimazione attiva all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale e, nel valutare la legittimità costituzionale del sistema di legittimazione accentrata introdotto dal d.lgs. 3.4.2006, n. 152, ha giudicato legittimo il sistema introdotto dal Codice dell’ambiente che attribuisce soltanto allo Stato il diritto di agire in giudizio per la tutela del danno ambientale. Nel pervenire a tale esito, inoltre, la Consulta ha riscritto la nozione stessa di danno all’ambiente, limitandola al solo recupero delle spese sostenute per il ripristino del sito inquinato. Per contro, resta fuori dalla nuova definizione di danno all’ambiente la funzione di tutela degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio in cui vive una comunità che la precedente giurisprudenza della Corte riteneva rientrasse in tale tipo di danno.

7 Art. 117, co. 2 lett. s).

8 L’art. 311, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, ha limitato la legittimazione attiva per la pretesa risarcitoria per danno ambientale solo allo Stato, in persona del Ministero dell’Ambiente, escludendo quindi la legittimazione sostitutiva degli enti pubblici locali, come previsto dal previgente art. 18, L. n. 349 del 1986. Gli altri soggetti (enti pubblici, associazioni esponenziali, persone fisiche e giuridiche private) che assumono di essere stati lesi da un illecito ambientale possono agire per il risarcimento di danni (patrimoniali e non) diversi dal danno ambientale, attraverso l’ordinaria azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., e quindi – come normalmente avviene – anche per “equivalente monetario”. Si veda l’art. 313, comma 7, d.lgs. n. 152 del 2006, per cui “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

9 Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 01.02.2023, n. 3077.

10 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25 settembre 2013, n. 21 e Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25.

11 L’Adunanza plenaria ha riconosciuto l’esistenza a livello nazionale di un orientamento (cfr. parere n. 2038 del 2012 reso dalla Seconda sezione del Consiglio di Stato all’esito dell’Adunanza di sezione del 23 novembre 2011 e alcune, sentenze di primo grado) che ritiene legittima l’imposizione in capo al proprietario non responsabile dell’obbligo di porre in essere le misure di sicurezza d’emergenza, anche in forza del principio UE “chi inquina paga”, letto unitamente ai principi di precauzione e dell’azione preventiva, in base all’esigenza che le conseguenze dell’inquinamento ricadano sulla collettività e dei doveri di protezione e custodia pendenti sui proprietari delle aree, e a prescindere dal diretto coinvolgimento nella determinazione del fenomeno di contaminazione. Il Consiglio di Stato ha poi richiamato l’orientamento che esclude l’attribuibilità al proprietario degli obblighi sopra citati (cfr. sentenza della sesta sezione del CdS del 9 gennaio 2013, n. 56), anche in ragione del fatto che nessuna disposizione comunitaria “sembra consentire che il principio “chi inquina paga” comporti l’addebito di una responsabilità per danno ambientale quale mera conseguenza di un rapporto dominicale con la res sulla quale sia in atto un fenomeno di inquinamento”. E ciò pur riconoscendo che risulta attenuata, a seguito della sentenza della Corte di giustizia del 9 marzo 2010 in causa C-378/08 (ERG Spa e a.), la consistenza attribuibile all’elemento psicologico ai fini della riferibilità del danno ambientale ad un operatore ai sensi della direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. In tale nota pronuncia i giudici della Corte hanno argomentato nel senso della compatibilità con la direttiva citata di una normativa nazionale che, nel caso di inquinamento diffuso, consenta di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, in base ad alcuni indizi plausibili, tra cui ad esempio quello di vicinanza dell’impianto dell’operatore al sito inquinato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore. Condividendo l’opinione maggioritaria della giurisprudenza nazionale che esclude la responsabilità ambientale e gli obblighi di porre in essere le misure di sicurezza d’emergenza sulla base del mero rapporto dominicale, l’Adunanza plenaria ha espresso una risposta negativa al quesito posto dai giudici della Sesta sezione.

12 Corte di giustizia, III Sez., 4 marzo 2015 – causa C-534/13.

13 Cass. Civ., SS. UU., 1° febbraio 2023, n. 3077.

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