Il principio della domanda nel processo amministrativo alla luce delle Adunanze Plenarie nn. 4 e 5 del 2015

Il principio della domanda nel processo amministrativo alla luce delle Adunanze Plenarie nn. 4 e 5 del 2015

Il principio della domanda nel processo, ovverosia della c.d. corrispondenza tra chiesto e pronunciato, è oggi l’espressione evocativa del brocardo latino “ne procedat iudex ex officio”. Siffatto principio trova espressione a chiare lettere nel Codice del Rito Civile agli artt. 99 e 112 i quali prevedono rispettivamente che “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente” e che “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”. Si tratta, a ben vedere, di un derivato logico del generale potere dispositivo riconosciuto alle parti in giudizio in ossequio al principio secondo cui occorre che la parte abbia interesse alla proposizione della domanda in giudizio (art. 100 c.p.c.).

Occorre chiedersi se il principio della domanda sia riconosciuto anche nel processo amministrativo o se, al contrario, in tale contesto mutino le facoltà di pronuncia riconosciute al giudice amministrativo. Infatti, nel primo caso, il g.a. investito della domanda di annullamento di un provvedimento amministrativo non potrà riconoscere la tutela risarcitoria al ricorrente che abbia agito in giudizio ai soli fini impugnatori, nel secondo caso lo stesso g.a. conserverà maggiore autonomia decisionale rispetto a quanto attribuito al giudice del processo civile. Ebbene, se si tiene mente del disposto di cui all’art. 39 c.p.a., il quale ha la funzione di una vera e propria valvola di apertura del Codice del Processo Amministrativo, secondo cui “per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”, in mancanza di norme all’interno del c.p.a. che sanciscano l’operatività del principio della domanda nel processo amministrativo, può sostenersi che il combinato disposto di cui  agli artt. 99, 112 c.p.c. valga come principio generale da applicare anche al rito amministrativo.

Ed è in tal senso che, di recente, si è espressa l’Adunanza Plenaria con sentenza n. 4/2015. Ed infatti, l’art. 29 c.p.a. nel disporre che la sanzione del provvedimento per vizi di violazione di legge, eccesso di potere o incompetenza sia l’annullamento, in tutto o in parte, del provvedimento illegittimo a opera del giudice amministrativo descrive il sistema secondo cui il provvedimento amministrativo illegittimo è annullato su ordine del giudice ma a fronte della domanda di parte. Del resto, l’art. 34 c.p.a. esprime il principio dispositivo nell’ambito del processo amministrativo cosicché il giudice deve pronunciarsi entro i limiti della domanda del ricorrente. E allora, se si considerano le differenze di presupposti tra pronuncia di annullamento (nella quale la causa petendi è l’illegittimità dell’atto e il petitum la demolizione dello stesso) e pronuncia di risarcimento (laddove al contrario la causa petendi sta nell’illiceità dell’atto e il petitum nella condanna risarcitoria), la pronuncia del giudice entro i limiti della domanda di parte altro non sarà se non il precipitato logico del principio della domanda di parte ricavabile già negli artt. 29 e 34 c.p.a. e, aliunde, nelle norme del Codice di Procedura Civile per effetto del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a.. Quello che sarà concesso al giudice potrà essere non già di modulare la tutela del ricorrente, riconoscendogli la risarcitoria piuttosto che quella impugnatoria, ma, al più, di determinare, in base ai vizi sollevati dal ricorrente la portata effettiva della pronuncia di annullamento. Non solo.

L’affermazione del principio di domanda di parte si riverbera anche sulla problematica questione inerente alla graduazione dei motivi di ricorso, tema sul quale occorre dare atto della posizione assunta dal massimo Consesso di giustizia amministrativa con l’Adunanza Plenaria n. 5/2015. Sul tema sarà innanzitutto utile intendersi in merito al significato che il termine “graduazione” assume nel processo amministrativo: per esso si intende l’ordine di carattere logico-giuridico nel quale la parte ricorrente propone le sue domande al giudice amministrativo a fronte della maggiore o minore utilità che la stessa può ricavare dalla domanda principale piuttosto che da quella subordinata.

Ebbene, considerato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e i caratteri di giudizio soggettivo che il processo amministrativo riveste così come esaminati funditus dalla Plenaria n. 4/2015, ne deriva che la graduazione dei motivi vincola il g.a. in ossequio al principio dispositivo e di parità delle parti. Tale affermazione trova peraltro una chiara spiegazione nel fatto che tali giudizi sono instaurati nel perseguimento dell’interesse privato in contrapposizione con l’interesse pubblico il cui esercizio la parte ricorrente ritiene illegittimo; nei giudizi connotati dal primato dell’interesse pubblico come quelli di costituzionalità, al contrario, il giudice non può dirsi affatto condizionato dalla scelta dell’ordine delle questioni di legittimità sollevate.

Tuttavia, il riconosciuto e pacifico potere della parte di graduare i motivi del ricorso non è, ad oggi, illimitato. Invero, l’art. 34, co. 2 c.p.a. statuisce che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati“. Tale principio codicistico, che è chiara espressione della separazione dei poteri, costituisce un limite espresso alla graduazione delle parti con riferimento, per esempio, al vizio di incompetenza.

Ovviamente, in assenza di graduazione si riespande il potere del giudice di pronunciare, salve alcune deroghe, su tutti i motivi e le domande proposte. Epperò, considerato il particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al  controllo sull’esercizio della funzione pubblica, il g.a. in tal caso stabilisce l’ordine di trattazione  dei motivi. In tale contesto si è quindi radicata la prassi giurisprudenziale del c.d. “assorbimento dei motivi”: il giudice individua uno fra i motivi di ricorso che ritiene dirimente per chiudere la vicenda e decide sulla base di quello stesso motivo che assorbe quindi tutti gli altri. Il risultato comunque positivo raggiunto dalla parte presta però il fianco ai rischi di avere una pronuncia non approfondita, magari appuntata su vizi di forma dell’atto impugnato, che ben corre il rischio di essere elusa o raggirata dalla P.A. soccombente. In queste evenienze, infatti, resta frenata l’ambizione del processo amministrativo a conoscere pienamente del rapporto  tra cittadino ed amministrazione.

Pertanto, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il dovere del g.a. di pronunciarsi su tutta la domanda impongono di ritenere vietata la prassi dell’assorbimento dei motivi, tuttavia con alcune deroghe. Deve, infatti, osservarsi che in alcuni casi (manifesta irricevibilità, inammissibilità o infondatezza) è la stessa legge che ammette l’assorbimento dei motivi; in altri casi l’assorbimento è richiesto da questioni di ordine logico (rigetto del ricorso principale che comporta il rigetto di quello incidentale subordinato all’accoglimento di quello principale) o, ancora, da ragioni di economia processuale (assorbimento dei motivi meramente ripetitivi).


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