Il principio di autoresponsabilità dell’operatore economico e il principio di buona fede

Il principio di autoresponsabilità dell’operatore economico e il principio di buona fede

Sommario: 1. I principi di autoresponsabilità e di diligenza professionale dell’operatore economico che partecipa ad una procedura di affidamento di contratti pubblici – 2. La buona fede tra diritto privato e diritto pubblico

 

1. I principi di autoresponsabilità e di diligenza professionale dell’operatore economico che partecipa ad una procedura di affidamento di contratti pubblici

L’operatore economico[1] che partecipa ad una procedura di gara soggiace a particolari obblighi di diligenza che devono essere osservati nei rapporti con l’Amministrazione.

Il concorrente, pertanto, è chiamato a porre in essere una condotta che possa consentire all’Amministrazione di poter valutare l’affidabilità e la serietà, nonché – per l’appunto – la correttezza del comportamento del concorrente stesso.

La procedura ad evidenza pubblica, infatti, impone a tutti i partecipanti di curare con la necessaria attenzione l’adempimento delle prescrizioni imposte dalla legge di gara, adottando tutti i necessari accorgimenti che vengono richiesti ad ogni operatore economico.

È dunque ragionevole attendersi dall’operatore economico un agire consapevole, al fine di poter correttamente gareggiare nel concorrenziale mercato degli appalti pubblici.

Dalla mancata osservanza dei doveri di diligenza che gravano su coloro che partecipano a gare per l’affidamento di contratti pubblici ne deriva poi per gli stessi l’assunzione di responsabilità per gli errori commessi.

Ne consegue, pertanto, una diretta correlazione tra il principio di autoresponsabilità e quello di diligenza.

Per comprendere al meglio il rapporto che lega questi due principi occorre prenderli in esame singolarmente e cercare di offrire una definizione tanto del primo quanto del secondo.

Con riferimento al principio di autoresponsabilità, va premesso che una sua definizione non si rinviene nell’assetto normativo, ma è da ricercare in via pretoria.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa fa ricorso al generale principio di autoresponsabilità per addebitare al concorrente le conseguenze degli eventuali errori commessi nella formulazione dell’offerta ovvero nella presentazione della documentazione[2].

In forza del principio di autoresponsabilità, chi immette o dà causa all’immissione di dichiarazioni negoziali nel traffico giuridico è assoggettato alle relative conseguenze secondo il loro obiettivo significato.

Il suddetto principio trova la sua giustificazione nell’esigenza di certezza nei rapporti giuridici, rispetto alla quale la tutela dell’affidamento della controparte e dei terzi è all’evidenza funzionale.

L’autoresponsabilità, in altri termini, significa accettare le conseguenze del proprio agire e comporta il sacrificio dell’interesse di chi ha posto in essere un comportamento diverso rispetto a quello definibile come normale da una specifica norma, a favore del configgente interesse del terzo o della controparte. E ciò si verifica anche quando l’autore non abbia né previsto né voluto le conseguenze della sua azione.

L’operatore economico, pertanto, è esposto al continuo rischio di dover sopportare gli effetti negativi che derivano dall’aver posto in essere una condotta non improntata all’osservanza del canone generale della diligenza[3].

Sebbene sembri agevole cogliere la relazione che intercorre tra i due principi in argomento e, pertanto, comprendere come questi dialoghino tra di loro, si rende tuttavia necessario esaminare in che termini il principio di diligenza debba essere declinato nell’ambito delle procedure di gara.

Come è noto, il dovere della diligenza viene disciplinato all’art. 1176 del codice civile[4], il quale offre all’interprete i criteri per valutare la condotta dell’obbligato nell’adempiere[5].

Il primo comma dell’articolo in questione fissa il tradizionale criterio del buon padre di famiglia, da assumere quale regola di valutazione generale del comportamento del debitore[6].

Al secondo comma, invece, l’art. 1176 c.c. detta una regola specifica da applicarsi nelle ipotesi di adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale, prevedendo che – in questi casi – la diligenza debba valutarsi con riguardo all’attività professionale esercitata.

La diligenza esigibile dal professionista o dall’imprenditore, nell’adempimento delle obbligazioni assunte nell’esercizio delle loro attività, è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione a loro richiesta[7].

Tracciati i confini di applicazione delle due fattispecie, è doveroso interrogarsi su quale sia il grado di diligenza richiesto all’operatore economico che partecipa ad una procedura di affidamento di contratti pubblici.

Orbene, la giurisprudenza amministrativa è nel senso di ritenere che «il grado di diligenza da richiedersi all’operatore economico che partecipa ad una gara […] non può essere considerata quale diligenza ordinaria (secondo il primo comma dell’art. 1176 del codice civile), bensì diligenza specifica, propria degli operatori professionali» (TAR Lombardia (Milano), sez. IV, 5 dicembre 2019, n. 2598)[8].

In ossequio al principio di autoresponsabilità[9], all’impresa che partecipa a pubblici appalti viene pertanto richiesto un grado di professionalità e di diligenza superiore rispetto alla media.

In capo all’operatore economico che partecipa alle procedure di gare, proprio perché agisce in veste di operatore professionale di settore, non può che richiedersi una diligenza “aggravata” di cui all’art, 1176, c. 2, c.c., intesa come deviazione da una regola di condotta per violazione tanto di norme giuridiche quanto di comune esperienza[10].

Tale assunto è stato peraltro condiviso dall’ANAC che, con delibera 24.11.2021, n. 773, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 305 del 24.12.2021, ha adottato il bando tipo n. 1 sulle procedure aperte digitali e ha chiarito all’art. 1 che l’utilizzo della piattaforma avviene nel rispetto «dei principi di autoresponsabilità e di diligenza professionale, secondo quanto previsto dall’articolo 1176, comma 2, del codice civile».

Il predetto canone di diligenza qualificata viene del resto ritenuto esigibile dai concorrenti in tutte le fasi contrattuali: prodromiche, genetiche ed esecutive[11].

Il concorrente, dunque, deve conformarsi alla massima diligenza nell’adempimento dei propri obblighi. Ciò si giustifica in ragione della delicatezza e dell’importanza degli interessi in gioco, sì da adottare regole e comportamenti improntati alla massima serietà ed efficienza.

L’operatore economico, nella partecipazione alle procedure di gara, è quindi tenuto all’osservanza di cautele minime. Qualora queste vengano meno, il concorrente si deve dolere della propria mancanza.

Un particolare ambito in cui viene in rilievo l’obbligo di comportarsi con diligenza è da rinvenirsi con riferimento alle dichiarazioni sostitutive.

Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza amministrativa di legittimità, il principio di autoresponsabilità «è il cardine fondamentale dell’intera disciplina in materia di dichiarazioni sostitutive. In forza di tale principio, al privato è precluso di trarre qualsivoglia vantaggio da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero, per cui l’Amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità, e a prescindere dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante» (Cons. St., sez. III, sent. n. 4634 del 20/07/2020)[12].

Sul punto, occorre distinguere tra omissione delle informazioni e falsità delle dichiarazioni.

Il discrimine tra le siffatte ipotesi risiede nel margine di discrezionalità riservato all’Amministrazione che è chiamata a svolgere i dovuti controlli.

La falsità delle dichiarazioni consiste nella presentazione nella procedura di gara di dichiarazioni non veritiere, «rappresentative di una circostanza in fatto diversa dal vero, cui di regola consegue, per contro, l’automatica esclusione dalla procedura di gara, deponendo in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico» (Cons. St., sez. V, sent. n. 2838 del 08/04/2021).

Per converso, «ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso» (ancora, Cons. St., sez. V, sent. n. 2838 del 08/04/2021).

La ragionevolezza di ancorare alla sola falsità[13] delle dichiarazioni l’automatica esclusione dalla gara è «coerente con un sistema in cui il principio della leale collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione[14] non deve spingersi fino al punto di onerare le stazioni appaltanti di defatiganti indagini sul profilo soggettivo di chi abbia dichiarato il falso al fine di stabilirne, caso per caso, il regime sanzionatorio, con ricadute negative anche sulla par condicio competitorum» (Cons. St., sez. VI, sent. n. 3361 del 12/04/2011).

All’esito di questa prima indagine, condotta ponendo in relazione i principi di autoresponsabilità e di diligenza, si evidenzia come l’operatore economico che partecipi ad una procedura di gara debba porre in essere tutte le accortezze e cautele necessarie volte a collaborare lealmente con l’Amministrazione, pena l’addebito delle conseguenze negative derivanti dalla mancata osservanza di questi obblighi generali[15].

2. La buona fede tra diritto privato e diritto pubblico

Il principio di buona fede trova il proprio fondamento nell’art. 2 Cost., in quanto attuazione dei doveri inderogabili di solidarietà sociale [16] , ed è richiamato da molteplici norme del codice civile.

In via preliminare, si rende necessario operare una distinzione in termini concettuali tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva[17].

La buona fede soggettiva si sostanzia in uno stato soggettivo consistente nell’incolpevole ignoranza di ledere l’altrui diritto[18].

La buona fede oggettiva, invece, assume un significato del tutto diverso: essa si sostanzia in una regola di condotta[19], che opera quale criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti nel rapporto obbligatorio che tra loro intercorre[20].  L’art.1175 c.c. pone a carico del debitore e del creditore il dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza, da intendersi quale estrinsecazione del principio di buona fede oggettiva (i due concetti vanno pertanto a soprapporsi fino a coincidere).

Sul punto è opportuno rilevare la distinzione tra il dovere di buona fede e quello di diligenza: mentre il primo, come detto, si rivolge ad entrambe le parti ed è fonte di nuovi obblighi (1173 c.c.), il secondo si pone quale criterio atto a valutare il comportamento del solo debitore in sede di adempimento (art. 1176 c.c.)[21].

Secondo l’interpretazione prevalente, la buona fede è da intendersi quale clausola generale[22], in quanto caratterizzata da una “indeterminatezza intenzionale”[23], tale da renderla una formula elastica che viene adattata con riferimento alle singole situazioni di fatto[24].

La buona fede, quale fondamentale canone di correttezza, deve ispirare il comportamento delle parti durante tutte le fasi del rapporto contrattuale[25].

In materia precontrattuale, la buona fede è fonte di doveri reciproci di lealtà[26] e salvaguardia dell’altrui sfera giuridica (art. 1337 c.c.)[27], gravando su ciascuna parte l’obbligo di comportarsi lealmente e salvaguardare l’interesse dell’altra nei limiti di un apprezzabile sacrificio[28]. Ciò si traduce, ad esempio, nel divieto di intraprendere trattative non serie o di recedere repentinamente dalle stesse, ledendo il legittimo affidamento della controparte circa la conclusione del contratto[29], ai quali si aggiunge il dovere di segretezza, che vieta di divulgare le informazioni apprese durante le trattative. L’art.1338 c.c., inoltre, pone l’obbligo di informare la controparte in ordine all’esistenza di una causa di invalidità, conosciuta o conoscibile, al fine di garantire la validità del contratto. L’inosservanza della clausola di buona fede durante la fase delle trattative è fonte di responsabilità precontrattuale da lesione dell’altrui libertà negoziale, con conseguente obbligo risarcitorio nei limiti del cd. interesse negativo (danno emergente subito a causa delle inutili trattative e lucro cessante integrato dalla perdita di altre occasioni contrattuali favorevoli).

Ai sensi dell’art. 1375 c.c., la buona fede regola più in generale l’intera fase esecutiva dell’accordo negoziale: essa si eleva, così, a regola di governo del contratto, idonea ad integrarne il contenuto[30]. In questo senso il principio di buona fede si pone quale limite all’autonomia privata[31].

La clausola generale di buona fede e correttezza è destinata pertanto ad operare «tanto sul piano dei comportamenti del creditore e del debitore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.)» (Cassazione Civile, Sez. III, sentenza 7 giugno 2006, n. 13345).

Emerge così la doppia funzione della buona fede. Da un lato, la clausola viene intesa quale regola di condotta che deve orientare il comportamento delle parti del rapporto (con chiara funzione integrativa delle obbligazioni ivi dedotte)[32]. Dall’altro lato, il canone in questione impone alle parti di adempiere obblighi anche se non previsti espressamente dalla legge o dal contratto, qualora ciò si rendesse necessario per la salvaguardia degli interessi dell’altra parte[33].

Dopo aver esaminato le varie disposizioni che disciplinano il principio della buona fede in materia civilistica, nel prosieguo della trattazione si cercherà di effettuare un cambio di prospettiva, andandosi ad interrogare se e in quale misura il parametro della buona fede oggettiva sia applicabile al diritto pubblico[34], con precipuo riferimento al diritto amministrativo[35].

Occorre premettere fin da subito che la dottrina amministrativistica[36], fino a non molto tempo addietro, tendeva ad escluderne l’applicazione. Accogliere il principio della buona fede oggettiva (quale dovere di comportarsi secondo correttezza) nell’ambito del diritto pubblico avrebbe significato porre in discussione il fondamento stesso del principio di certezza del diritto[37].

La questione, per l’appunto, assume particolare rilevanza in relazione ai rapporti non paritari, come si assiste nel diritto amministrativo, in cui un privato cittadino si trova a dialogare con la pubblica amministrazione[38].

Occorre pertanto osservare che, qualora l’azione amministrativa non sia conforme alla legge, la pubblica amministrazione si troverebbe ad essere posta sullo stesso piano del privato cittadino e, configurandosi un abuso del potere autoritativo, dovrebbe ammettersi l’applicazione del canone della buona fede.

È doveroso invece interrogarsi in quali termini il principio della buona fede possa trovare applicazione in presenza di un potere autoritativo volto al perseguimento dell’interesse pubblico.

La dottrina più recente ammette l’applicabilità del parametro della buona fede nell’ambito del diritto amministrativo, anche con riferimento a quest’ultima ipotesi, fondando la propria tesi sull’assunto che il canone della buona fede governi tutto l’agire amministrativo[39].

Il principio di buona fede, secondo l’impostazione da ultimo richiamata, riguarda il modo in cui la pubblica amministrazione agisce nell’assumere la decisione[40].

I recenti tracciati della dottrina sono stati in seguito recepiti anche dalla giurisprudenza, la quale ha attribuito al principio della buona fede oggettiva il valore di clausola generale che informa l’azione amministrativa nel suo complesso[41].

Dal canone della buona fede oggettiva derivano, pertanto, una serie di regole di condotta che governano l’intero procedimento amministrativo, da intendersi nel suo complesso, andando ad incidere su tutte le fasi di esercizio del potere amministrativo[42].

Trattandosi, dunque, di una clausola di portata generale che orienta l’agire amministrativo, la buona fede assurge a parametro di giudizio della condotta della pubblica amministrazione, che prescinde dall’emanazione di un provvedimento e dalla sua illegittimità[43].

La clausola della buona fede consente pertanto di ampliare l’orizzonte dei doveri che incombono sulle parti, sia nella fase precontrattuale e contrattuale, sia anche con riferimento all’illecito aquiliano.

All’esito della presente disamina, si può pertanto giungere alla conclusione nel senso di ritenere il principio della buona fede oggettiva applicabile a tutti i rapporti tra i consociati, compresi quelli in cui non sussista alcun vincolo obbligatorio.

Il canone della buona fede finisce così per trovare cittadinanza anche nell’ambito del diritto pubblico (rectius amministrativo)[44].

 

 

 


[1] In merito alla definizione di operatore economico si rimanda all’art. 45 del D. Lgs. n. 50/2016.
[2] Ex multis Cons. St., sez. V, n. 1540/2021, che riprende Cons. St., sez. III, n. 4795/2020.
[3] Nell’ambito delle gare pubbliche è necessario adempiere, con scrupolo e diligenza, a quanto previsto dal bando di gara e alle norme tecniche. L’erroneo utilizzo rimane a rischio del partecipante (Cons. St., sez. III, sent. n. 7507/2021).
[4] Secondo la Relazione preliminare al codice civile, la diligenza consiste in «quel complesso di cure e di cautele che il debitore deve impiegare per soddisfare la propria obbligazione».
[5] Corte cass., sez. II, 26 novembre 1997, n. 11843.
[6] Il buon padre di famiglia non è soltanto la figura del c.d. uomo medio, ma è il modello di cittadino avveduto, che vive in un determinato ambiente sociale, secondo i tempi, le abitudini, i rapporti economici e il clima storico-politico.
[7] Corte cass., sez. VI, 24 giugno 2020, ord. n. 12407.
[8] In tal senso anche Cons. St., sez. V, sent. n. 1191/2022, TAR Lazio (Roma), sez. II, sent. n. 10499/2019, TAR Campania (Napoli), Sez. I, sent. n. 6527/2022
[9] In forza del quale i concorrenti non possono pretendere di scaricare sull’amministrazione problemi che essi stessi potrebbero risolvere utilizzando la diligenza esigibile da un operatore qualificato, qual è l’impresa che partecipa ad una gara pubblica.
[10] TAR Campania (Napoli), sez. V, sent. n. 1936/2022.
[11] TAR Piemonte, sez. I, sent. n. 616/2022
[12] Sul punto, si rimanda anche a Cons. St., sez. V, n. 5928/2014 secondo cui «L’intero sistema della disciplina delle procedure ad evidenza pubblica poggia sulla presentazione, da parte delle imprese concorrenti, di dichiarazioni sostitutive che le vincolano in base all’elementare principio dell’autoresponsabilità e che devono essere rese con diligenza e veridicità».
[13] La falsità risulta più gravemente sanzionata dall’obbligo di segnalazione all’ANAC gravante sulla stazione appaltante in forza dell’art. 80, c. 12, del D. Lgs. n. 50/2016, il quale prevede espressamente che «In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1 fino a due anni, decorso il quale l’iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia».
[14] Il principio permea l’intera procedura ad evidenza pubblica, privando di rilevanza anche le categorie, di derivazione penalistica, del falso innocuo e del falso inutile «atteso che, in tale contesto, la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire poiché consente, anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla selezione. Pertanto, una dichiarazione che è inaffidabile perché, al di là dell’elemento soggettivo sottostante, è falsa o incompleta, deve ritenersi di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare» (Cons. St., sent. n. 663/2022). «Nelle procedure di evidenza pubblica la veridicità delle dichiarazioni rese o della documentazione prodotta costituisce un primario valore poiché convergente all’obiettivo dell’integrità del processo decisionale dell’Amministrazione» (Cons. St., sent. n. 577/2022).
[15] In forza del principio di autoresponsabilità, che deve informare necessariamente i rapporti tra privato ed amministrazione, anche nell’ambito delle procedure di gara, alla stazione appaltante è precluso di operare con una diligenza superiore a quella impiegata dallo stesso concorrente (Cons. St., sez. V, sent. n. 4182/2021).
[16] G.M. Uda, Buona fede oggettiva ed economia contrattuale, in Riv. dir. civ., 1990, II, 384; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali di diritto civile, Napoli, Jovene, 1966, ristampa 1989, 147 ss.; A. Del Fante, Buona fede prenegoziale e principio costituzionale di solidarietà, in Rass. dir. civ., 1983, 157, 162-163. In giurisprudenza si segnala Corte cass. n. 3462/2007 secondo cui «L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica», nonché Corte cass. n. 14188/2016.
[17] Secondo l’impostazione più risalente, il concetto di buona fede ha carattere unitario, da intendersi come principio etico (P. Bonfante, Essenza della ‘bona fides’ e suo rapporto colla teorica dell’errore, in Scritti giuridici vari, II, Torino, 1926, 717 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, Giuffrè, 1953, p. 53; U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 18) ovvero come situazione psicologica (A. Montel, voce Buona fede, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, 502). In tale concezione, si fondono le condizioni di “essere in buona fede” e di “comportarsi in buona fede”: l’una espressione della buona fede soggettiva, l’altra della buona fede oggettiva.
[18] M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1939, 142 e ss.
[19] F. Benatti, La responsabilità precontrattuale, Giuffrè, Milano, 1963, 47 – 49.
[20] Alla buona fede in senso oggettivo si riferiscono le disposizioni di cui agli artt. 1175, 1337, 1338, 1366, 1374, e 1375 del codice civile, tutte sistematicamente collocate nel libro IV del codice civile, dedicato alle obbligazioni.
Il principio di buona fede oggettiva si traduce, pertanto, in un generale dovere di cooperazione delle parti (sul punto, ex multis, si segnala Corte cass., 3 novembre 1999, n. 12310, in Foro Padano, 2000, 348).
[21] Per una trattazione più approfondita si rimanda al paragrafo precedente.
[22] Sul tema, significativo l’apporto fornito da C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv.,1986, anno IV, n. 1, 21 secondo cui «La buona fede è la clausola generale per eccellenza, caratterizzata specialmente dalla capacità di resistere a qualsiasi cambiamento di regime, a qualsiasi ribaltamento di valori sociali. Il perché di tanto successo può essere spiegato considerando che essa si colloca sul crinale che corre tra autonomia ed eteronomia, e individua per linee sinuose e talora difficili da cogliere e da percorrere quella che potremmo chiamare eteronomia non autoritaria, indicativa di un intervento anche incisivo sul contratto, intervento che, pur condotto da un potere alieno alle parti, tuttavia non è autoritario perché si limita a filtrare valori sociali entro la forma giuridica. E i valori sociali, una volta divenuti tali, prescindono per definizione dalla dimensione impositiva».
[23] S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. Dir. priv., 1987, 728 ss.
[24] La Relazione introduttiva al codice civile, infatti, non mette a disposizione dell’interprete strumenti concreti per l’ermeneutica della clausola generale di buona fede (cfr. G. Alpa, Pretese del creditore e normativa di correttezza, in Riv. dir. comm., 1971, II, 278. La buona fede, infatti, data la sua genericità ed indeterminatezza, sarebbe da intendersi quale “norma in bianco” (G. Alpa, Trattato di diritto civile, I, Milano, Giuffrè, 2000, 951 ss.), dal momento che il suo contenuto non sarebbe predeterminabile e andrebbe valutato in relazione alle concrete circostanze (F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, 96).
[25] In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Corte cass. n. 5348/2009; Corte cass. n. 15476/2008).
[26] E. Betti, op. cit., 81 ss.
[27] Secondo minoritaria dottrina, la buona fede ex art. 1337 c.c. impone solamente obblighi negativi di astensione da comportamenti sleali (E. Betti, op. cit., 81 – 82).
La Relazione introduttiva al codice civile n. 612, con riferimento agli artt. 1337 e 1338 c.c., muove appunto dall’obbligo di correttezza e buona fede che devono guidare le parti nella fase delle trattative.
[28] P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giur. It., 1968, c. 224 ss.
[29] Così Corte cass., sez. II, 25 febbraio 1992, n. 2335, in Foro pad., 1993, I, 149.
[30] Alla integrazione del contratto il codice civile dedica il solo art. 1374 c.c. che non ne dà una definizione, limitandosi ad indicarne la funzione. Può tuttavia «ritenersi ormai superato, per effetto della valorizzazione del buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ. come fonte di regole integrative del programma contrattuale, il dibattito sulla tassatività o meno dell’elenco delle forme di integrazione di cui all’art. 1374 cod. civ. Pur dovendo riconoscersi carattere di tassatività all’elencazione contenuta nell’art. 1374 cod. civ., tanto non esclude, infatti, la possibilità di individuare altre norme di legge, contenenti ulteriori indicazioni relative all’integrazione, tra le quali certamente l’art. 1375 (e, secondo i più l’art. 1175) cod. civ. Si afferma al riguardo che il richiamo alla legge contenuto nell’art. 1374 cod. civ. si estende anche alla buona fede attraverso la previsione di cui all’art. 1375 cod. civ. (e all’altra norma di cui all’art. 1175), con la precisazione che l’interrelazione così stabilita tra le predette norme non implica, però, che l’integrazione del contratto alla stregua della buona fede sia assimilabile all’integrazione mediante puntuali previsioni normative, tenuto conto che la natura di clausola generale della buona fede e il ruolo svolto dal giudice implicano innegabilmente peculiari modalità di attuazione del precetto, dando luogo ad “un’operazione integrativa giudiziale”, fondata sulla legge e comunque orientata da criteri desumibili dal contesto normativo al quale la clausola inerisce» (Relazione Telematica della Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, 10 settembre 2010, n. 116, Buona fede come fonte di integrazione dello statuto negoziale: Il ruolo del giudice nel governo del contratto, 5). In giurisprudenza, v. Corte cass., sent. n. 4598/1997.
In letteratura cfr. S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, Giuffrè, 1969, 89; R. Sacco, in R. Sacco e G. De Nova (cur.), Il Contratto, II, Torino, Utet, 1993, 402 ss.; M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e Impresa, 1999, 83 ss.; A. Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali, in Corr. giur., 2000, 1486 ss.
[31] Ai sensi dell’art. 1372 c.c., il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.). Da ciò ne consegue che, in linea generale, l’accordo negoziale non è idoneo a produrre conseguenze estranee alla volontà delle parti.
Negli ultimi anni, si è assistito a un’evoluzione del sindacato giudiziale sull’autonomia negoziale che ha determinato, sul piano degli interessi individuali, l’obbligo di ciascun contraente di contemperare il perseguimento del proprio interesse egoistico con la salvaguardia della posizione della controparte. Ciascun contraente dovrà comportarsi in modo leale, per non pregiudicare gli interessi altrui – sia pure nei limiti dell’apprezzabile sacrificio – assolvendo a un vero e proprio obbligo di cooperazione che si esplica in un momento di incontro per la salvaguardia del traffico giudico. Emerge, quindi, l’esigenza di elevare il principio di correttezza e buona fede a strumento di controllo correttivo e/o integrativo della volontà delle parti, utile al giudice per sindacare il regolamento negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio di opposti interessi (Corte cass., sez. III, n. 17565/2013).
[32] Corte cass., sez. I, 13/01/1993, n. 343, in Foro it., 1993, I, 2129 con nota di G. Sicchiero, Appunti sul fondamento costituzionale del principio di buona fede.
[33] Cfr. Corte cass., sez. III, n. 20106/2009.
[34] Sui rapporti tra diritto privato e diritto pubblico, ex multis, S. Pugliatti, Diritto pubblico e privato, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 736; N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, Edizioni di Comunità, 1977, 145 ss; M. Santilli, Il diritto civile dello Stato. Momenti di un itinerario fra pubblico e privato, Milano, Giuffrè, 1985; G. Rossi, Diritto pubblico e diritto privato nell’attività della pubblica amministrazione. Alla ricerca della tutela degli interessi, in Dir. pubbl., 1998, 661 ss; L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001; F. Trimarchi Banfi, Il diritto privato dell’amministrazione pubblica, in Dir. amm., fasc. 4, 2004, 661; V. Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, Giappichelli, 2011; M. D’Alberti, Diritto amministrativo e diritto privato: nuove emersioni di una questione antica, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1019 ss; M. D’Alberti, Poteri regolatori tra pubblico e privato, in Dir. Amm., 2013, fasc.4, 607.
[35] Sui rapporti tra diritto privato e diritto amministrativo si rimanda a S. Romano, Principii di diritto amministrativo italiano, II ed., Milano, Società Editrice Libraria, 1906, 15-16 in cui l’autore afferma espressamente che «Seconda una teoria, alquanto diffusa, il diritto amministrativo sarebbe un diritto di eccezione, laddove il privato sarebbe il diritto comune: per conseguenza, quando l’eccezione non si trova espressamente stabilita, si dovrebbe, per i principii della logica, far ritorno alla regola. In tutto ciò, c’è soltanto una parte di vero. Il diritto amministrativo non può considerarsi come un diritto singolare: esso si è venuto costruendo in un sistema scientificamente autonomo, il che vuol dire che siffatto sistema è suscettibile di bastare a sé stesso. Ma non può parimenti negarsi che il diritto privato ed il pubblico abbiano tra loro molti punti di contatto, derivanti dal fatto che ambedue sono diritti e partecipano quindi della medesima natura: ne viene che non pochi principi sono ad essi comuni. Questi principii si sono però svolti non solo nelle leggi, ma anche nella scienza in materiale connessione con il diritto privato: donde l’illusione che il diritto amministrativo sia in rapporto ad esso in una posizione subordinata, laddove in astratto, avrebbe potuto dirsi il contrario. Il vero si è che non bisogna innalzare a teoria ciò che dipende da condizioni di fatto che possono essere anche passeggere, ma non bisogna nemmeno sconoscere che, nell’attuale stato delle cose, l’interprete del diritto amministrativo è spesso costretto a ricorrere ad altre norme, e specie a quelle di diritto privato, che fra tutte sono le più precise e complete, per trovarvi ciò che invano cercherebbero altrove».
[36] In particolare E. Guicciardi, Recensione a K.H. Schmitt, Treu und Glauben im Verwaltungsrecht. Zugleich ein Beitrag zur juristischen Methodenlehre (Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1935), in Arch. dir. pubbl., 1936, 556 ss. Rilevante anche lo scritto di M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’amministrazione, cit., 373 ss.
[37] F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “Trenta” all’ “Alternanza”, Milano, Giuffrè, 2001, 8.
[38] In origine, infatti, la dottrina era nel senso di non accogliere il principio della buona fede nel diritto amministrativo in quando veniva considerato interamente assorbito dall’interesse pubblico e, pertanto, lo si ammetteva esclusivamente nei rapporti paritetici. Sul punto, cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, cit., 142 ss.
[39] Sul tema, di particolare rilevanza, l’opera di F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, cit., 8.
[40] F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, giugno 2001, L. Garofalo (cur.), vol. III, Padova, Cedam, 2003, 472 in cui si legge che «la correttezza non confligge con il raggiungimento del fine pubblico, semmai impone l’attenta considerazione anche dell’interesse dei privati, che siano coinvolti, in un modo o nell’altro, nell’assetto di interessi che l’amministrazione, unilateralmente, con il provvedimento stabilisce ed impone».
[41] Cons. St., Sez. V, sent. n. 3384/2007; Cons. St., sez. V, sent. n. 550/2011.
[42] Come sottolineato da autorevole dottrina, il principio della buona fede «riguarda precipuamente il modo in cui l’Amministrazione agisce nell’assumere la decisione» (F.G. Scoca, op. cit.).
[43] G. Avanzini, Responsabilità civile e procedimento amministrativo, Padova, Cedam, 2007, 273.
[44] E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, giugno 2001, a cura di L. Garofalo, Padova, Cedam, 2003, vol. I, p. 125 e ss. In letteratura, per una completa disamina dell’istituto, si rimanda a S. Antoniazzi, La tutela del legittimo affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli, 2005; F. Gaffuri, L’acquiescenza al provvedimento amministrativo e la tutela dell’affidamento, Milano, Giuffrè, 2006; L. Giani, funzione amministrativa e obblighi di correttezza. Profili di tutela del privato, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006.

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