Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare
Nell’architettura originaria del codice di rito l’udienza preliminare avrebbe dovuto distinguersi per il carattere affatto marginale dell’attività istruttoria, la cui superfluità trovava la propria ragion d’essere nell’oggetto del giudizio, proteso verso la verifica della legittimità della domanda di transizione a giudizio. A sorreggere tale impostazione ideologica stava tanto la centralità del dibattimento, sede naturale di esplicazione della prova, quanto il diffuso timore che l’attribuzione al giudice di poteri istruttori finisse per riesumare la figura del giudice istruttore che si voleva completamente e definitivamente spunta dall’ordinamento processual-penalistico[1].
La scelta di fondo di garantire l’intangibilità della posizione d’imparzialità del giudice, precludendogli pericolose incursioni sul terreno delle prove, lasciava tuttavia del tutto impregiudicata tanto l’esigenza di risolvere possibili situazioni di impasse probatoria che non consentisse al giudice dell’udienza preliminare di sciogliere l’alternativa decisoria tra il transito a giudizio e la pronuncia di cui all’art. 425 c.p.p., quanto la necessità di garantire all’imputato, in occasione del primo contatto con la giurisdizione, in qualche modo l’esercizio del diritto alla prova[2].
Il ruolo del giudice dell’udienza preliminare è stato potenziato dalla “Legge Carotti”[3] del 1999, intervenuta, da un lato, per ampliare e specificare i poteri di sollecitazione investigativa finalizzati ad adeguare il materiale d’indagine raccolto ai bisogni della regola di giudizio (nelle due alternative del rinvio a giudizio o della sentenza di non luogo a procedere); dall’altro, per rendere unidirezionale l’attivazione istruttoria di cui all’art. 422 c.p.p., il cui ambito operativo è stato conseguentemente ridotto[4].
Il tema della completezza delle indagini[5] deve essere affrontato quindi con riferimento alla disciplina dell’udienza preliminare così come ridisegnata dalla L. 1999 n. 479.
Viene subito in gioco il ruolo che l’art. 421-bis comma 1 c.p.p. assegna al giudice dell’udienza preliminare sul terreno probatorio, nella veste di organo preposto a verificare se il titolare dell’accusa abbia esercitato l’azione penale dopo aver raccolto all’esito delle indagini preliminari un quadro probatorio sufficientemente solido[6]. L’art. 421-bis comma 1 c.p.p., là dove evoca esplicitamente l’incompletezza delle indagini preliminari[7], appare il precipitato normativo degli orientamenti espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 1991: è assunto consolidato che l’osservanza del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. imponga al pubblico ministero un percorso investigativo esaustivo quanto all’individuazione ed alla raccolta delle fonti e dei mezzi di prova necessari per emettere un giudizio di fondatezza sull’imputazione che l’organo dell’accusa ritiene di formulare.
La Consulta ha preso le mosse dal principio di obbligatorietà dell’azione penale in virtù del quale nulla può essere sottratto al controllo di legalità.
L’obbligatorietà dell’azione penale è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; ed è la concreta realizzazione di tale principio a sottrarre a tale organo ogni margine di discrezionalità. Invero, se il limite implicito alla obbligatorietà dell’azione penale, razionalmente intesa, vieta che il processo sia instaurato quando si manifesti oggettivamente superfluo, è necessario prevedere adeguati meccanismi di controllo delle valutazioni di oggettiva non superflua della stessa, per scongiurare il pericolo di scelte arbitrarie del pubblico ministero[8].
Nell’ambito della novellata udienza preliminare, i poteri probatori del giudice appaiono tesi non solo a soddisfare la funzione di filtro rispetto all’incauto esercizio dell’azione penale, tradizionalmente demandata all’udienza preliminare[9], bensì ad indurre l’imputato ad «accettare i riti alternativi». Cosicché l’udienza preliminare non si atteggia più solamente come il contesto in cui l’imputato può optare per un rito alternativo: la fisionomia dell’istituto è protesa ad incentivare simile scelta, mercé la previsione di meccanismi di integrazione, anche officiosa, del materiale probatorio[10].
Calata nella disciplina dell’udienza preliminare, l’«incompletezza» delle indagini che, stando all’art. 421-bis comma 1 c.p.p., impone al giudice dell’udienza preliminare di disporre «ulteriori indagini» quando ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, si colora di sfumature variegate a seconda dello scopo che si intende assegnare all’udienza preliminare[11]. Infatti, il grado di completezza delle indagini imposto dal sistema varia a seconda che il giudice dell’udienza preliminare si orienti verso la mera verifica della sostenibilità dell’accusa in giudizio, piuttosto che verso la più pregnante verifica circa la fondatezza in facto ed in iure dell’imputazione: mutano, nell’uno e nell’altro caso, l’ampiezza e la quantità degli elementi probatori necessari per sciogliere l’alternativa fra rinvio a giudizio e non luogo a procedere.
Tanto più il giudice dell’udienza preliminare valorizza la natura meritale dell’accertamento condotto in sede di udienza preliminare, a scapito di quella processuale[12], tanto più esteso ed approfondito deve essere il quadro probatorio necessario per emettere il provvedimento terminativo della fase. Benché non sia quantificabile la soglia probatoria al di sotto della quale il rinvio a giudizio debba essere negato, bastando per emettere il relativo provvedimento un coacervo di elementi a carico di minor peso rispetto a quelli necessari per la condanna, il giudice dell’udienza preliminare potrà ritenere complete le indagini preliminari quando reputi raggiunta tale soglia gnoseologica minima[13].
L’esatta individuazione del ruolo e, conseguentemente, dei probatori del giudice dell’udienza preliminare è, dunque, questione di assoluto rilievo per ricostruire il sistema. In effetti, la collocazione del giudice dell’udienza preliminare appare sempre più polarizzata su due posizioni difficilmente riconducibili ad unità: egli, da un lato, è chiamato a procedere ad un accertamento tendenzialmente completo sui fatti di cui all’imputazione, anche per deflazionare il dibattimento; dall’altro, è sospinto, mercé la proclamata centralità del dibattimento, a lasciare che il completamento del quadro probatorio si attui in tale fase, limitandosi ad una mera attività di delibazione dell’accusa in vista dell’utilità di celebrare il giudizio dibattimentale[14].
La completezza è, quindi, a garanzia di tutti i soggetti del processo; tant’è che il legislatore si è preoccupato di dotare il giudice e parti di idonei strumenti che ne consentano un’effettiva o tendenziale attuazione[15].
Ha predisposto meccanismi di interlocuzione diretta tra parti private e organo inquirente in chiave di impulso investigativo: i difensori, possono nel corso delle indagini preliminare avanzare richieste al pubblico ministero (art. 367 c.p.p.); l’indagato e il suo legale, in particolare, possono sollecitare il compimento di ulteriori indagini al pubblico ministero che ritiene di dover esercitare l’azione penale, postulando come concluse e, quindi, complete le indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.). Ha, ancora, confezionato per il difensore un nuovo statuto dell’investigazione privata assai dettagliato: fuori dai consueti percorsi della “canalizzazione”[16] il difensore potrebbe svolgere attività investigativa propria e versarne i relativi risultati tra gli atti dell’indagine del pubblico ministero (concorrendo, in tal modo, a sancire la completezza.
Ritornando sull’insegnamento della sentenza delle Corte costituzionale n. 88 del 1991, è stato mai attuale il riferimento ad un’estensione funzionale delle indagini nella direzione dell’incentivazione dei riti alternativi e della marginalizzazione del dibattimento[17]. Per indurre l’imputato a richiedere il giudizio abbreviato, può essere conveniente che le investigazioni spazino sino ad abbracciare quelle ipotesi ricostruttive del fatto legate alla possibilità d’assoluzione insita in tale giudizio e, comunque, sino a rendere evidente l’inutilità d’ulteriori approfondimenti dibattimentali. Ne consegue che il principio di completezza delle indagini preliminari elaborato dalla giurisprudenza costituzionale è funzionale anche all’accesso dell’imputato ai riti alternativi.
Se l’incentivazione dei riti alternativi è ormai divenuta una finalità delle indagini, anche il meccanismo d’integrazione dell’art. 421-bis c.p.p. viene ad acquistare un campo di applicazione più ampio e significativo perché il giudice dell’udienza preliminare (ogniqualvolta ciò sarà possibile), sarà chiamato a sollecitare la progressione delle indagini sino a dimostrare all’imputato la superfluità di un dibattimento e, quindi, la convenienza ad avvalersi dei benefici premiali connessi ai riti alternativi.
Ciò vale sia per il patteggiamento sulla pena che per il giudizio abbreviato, ancorché quest’ultimo, per effetto delle disposizioni in cui agli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p., come modificati dalla l. n. 479 del 1999, sia ormai un giudizio “aperto” a nuovi approfondimenti istruttori.
Non vi è dubbio che, l’accesso al rito abbreviato potrebbe comunque essere incentivato da un uso accorto dello strumento di cui all’art. 421-bis c.p.p., quanto meno nei casi in cui l’imputato fosse incerto sulla scelta dell’abbreviato “condizionato” ex art. 438 comma 5 c.p.p. che lo esporrebbe (oltre che ad un rigetto del giudice) ad esiti istruttori non prevedibili ma potenzialmente pregiudizievoli, nonché ad una possibile modifica dell’imputazione a norma dell’art. 423 c.p.p.[18]
In altri termini, l’integrazione investigativa prevista dall’art. 421-bis c.p.p. conserva la sua funzione “incentivante” anche nel caso di giudizio abbreviato perché consente all’imputato di optare per tale rito alternativo sulla base di uno “stato degli atti” a lui preventivamente noto, così neutralizzando l’alea rappresentati dagli esiti non prevedibili delle integrazioni probatorie ex artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p.[19].
[1] Cfr., G. Pansini, Con i poteri istruttori attribuiti al Gup il codice retrocede allo schema inquisitorio, cit., p. 60.
[2] G. Spangher, Trattato di procedura penale, Indagini preliminare e udienza preliminare (a cura di Giulio Garuti), cit. p. 941.
[3] Cfr., P. P. Rivello, Commento all’art. 21 legge 16 dicembre 1999, n. 479, in Legislaz. pen., 2000, p. 408.
[4] V. Maffeo, L’udienza preliminare. Tra diritto giurisprudenziale e prospettive di riforma, cit., p. 129.
[5] Cfr., D. Potetti, Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo art. 421-bis c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 2148.
[6] Secondo quanto affermato dalla Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88
[7] La terminologia dell’art. 421-bis comma 1 c.p.p. appare impropria. Il richiamo operato all’incompletezza delle «indagini preliminari» non può essere inteso nell’accezione tecnica della formula, come se l’incompletezza concernesse le sole attività poste in essere dagli organi inquirenti al momento dell’iscrizione della notizia di reato nel relativo registro a quello in cui viene esercitata l’azione penale. Ovvio che la valutazione della completezza delle indagini debba, invece, essere effettuata alla luce di tutti gli atti confluiti nel fascicolo a disposizione del giudice, indipendentemente dalla provenienza soggettiva e dal contesto procedimentale in cui essi sono stati esplicitati.
[8] V. Maffeo, L’udienza preliminare. Tra diritto giurisprudenziale e prospettive di riforma, cit., p. 131.
[9] L. Caraceni, Giudice dell’udienza preliminare e «nuovi» poteri istruttori, in Foro it., V, 2001, p. 297.
[10] Di «collegamento strategico» delineato dal legislatore del 1999 fra la disciplina dell’udienza preliminare ed il giudizio abbreviato discorre R. E. Kostoris, Udienza preliminare e giudizio abbreviato, snodi problematici della riforma, in Aa. Vv., Nuovi scenari del processo penale alla luce del giudice unico, a cura di Nosengo, Milano, 2002, p. 38 e ss.
[11] F. Cassibba, La «completezza» e la «concludenza» delle indagini alla luce della rinnovata udienza preliminare, in Cass. pen., 2006, p. 1232.
[12] F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, p. 457.
[13] Ibidem
[14] Sul tema, con particolare chiarezza, M. Daniele, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, Torino, 2005, p. 1 e ss.
[15] T. Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Aa. Vv., Studi in onore di Enrico Redenti, vol. II, Milano, 1950, p. 700.
[16] Cass. pen., sez. fer., 18 agosto 1992, Burrafato, in Riv. it dir. e proc. pen., 1993, p. 1169.
[17] M. Saso, L’attività d’integrazione probatoria del giudice dell’udienza preliminare, in Aprile E. – Saso M., L’udienza preliminare, Milano, 2005, p. 151.
[18] Ivi, p. 153.
[19] M. Saso, L’attività d’integrazione probatoria del giudice dell’udienza preliminare, cit., p. 153.
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