Il principio di intangibilità del giudicato penale e la sua attuale tenuta: tra giurisprudenza e legislatore
L’effetto del giudicato, insito nella necessità di garantire la stabilità nel tempo dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, è da sempre accolto nel nostro ordinamento come uno dei principi cardine della realtà giuridica. Esso implica l’inamovibilità delle pronunce, al fine di garantire la certezza delle situazioni giuridiche.
Tale esito è causato o dalla scadenza dei termini per impugnare il provvedimento, o dall’esaurimento tutti i rimedi di contestazione.
Ciò è quanto risulta dall’art. 648 cpp. dal quale si evince, appunto, il principio di irrevocabilità delle sentenze.
Sul piano sostanziale la resistenza del giudicato penale emerge, in primis, dalla disciplina contenuta nell’art. 2 cp., regolante la successione delle leggi nel tempo. Il comma 4, in particolare, nel disciplinare gli effetti diacronici delle norme fa sempre salvo il giudicato quando esso sia maturato prima che sia entrata in vigore una disposizione penale più favorevole.
Nel bilanciamento tra opposti interessi, rappresentati dalla certezza delle situazioni giuridiche e dalla libertà individuale, il legislatore ha ritenuto preminente il primo. Non si tratta, tuttavia, di una scelta irragionevole, dal momento che la disposizione, nel caso di specie, si riferisce limitatamente ad una successione di leggi tutte incriminatrici, benché una delle due sia più favorevole. Qualora ciò non avvenga, ovvero la norma successiva non sia solo più favorevole (ad es. rispetto al trattamento sanzionatorio), ma sia del tutto abolitrice del reato, si assiste ad una prima, ma quanto mai inevitabile, ipotesi di cedevolezza del giudicato (art. 2 co. 2 cp.).
L’art. 673 co 1 cpp., infatti, prevede il superamento del principio di intangibilità in caso di revoca della sentenza per abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice.
Ancora, ulteriore deroga alla stabilità del giudicato è prevista dall’art. 630 cpp., il quale disciplina talune specifiche ipotesi di revisione della sentenza per motivi di fatto.
Nonostante siffatte circoscritte ipotesi, da sempre considerate quali eccezioni al principio di intangibilità del giudicato, si assiste ormai da tempo ad una progressiva e continua erosione di tale dogma a causa di interventi non soltanto di natura legislativi, ma anche giurisprudenziali.
Il primo passo in tal senso, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza (non ultime le SSUU della Corte di Cassazione nel 2014 n. 42858), è stato compiuto dalla L. 85/2006 che ha introdotto il co. 3 art 2 cp., il quale ammette implicitamente la cedevolezza del giudicato qualora la norma successiva sostituisca in luogo della pena detentiva la pena pecuniaria.
La singolarità della norma si spiega in virtù della sua portata eccezionale, dal momento che il rapporto tra le norme è, in realtà, di mera successione modificativa che, pertanto, sarebbe dovuto essere risolto alla luce del co. 4, quindi facendo salvo il limite del giudicato.
Ancora, sul fronte giurisprudenziale il principio di intangibilità del giudicato è stato oggetto di attenzione da parte della Corte Costituzionale la quale, con la sentenza n. 249/2010, ha dichiarato l’illegittimità della circostanza aggravante n. 11 bis dell’art. 61 cp (cd. aggravante della clandestinità) ritenuta irragionevole, dal momento che un reato non può ritenersi più grave per il sol fatto che sia stato commesso da uno straniero, ancorché stanziatosi illegalmente nel territorio nazionale. In tale occasione, la Consulta ha esteso retroattivamente gli effetti della sua pronuncia, anche in caso di intervenuto giudicato, con l’unico limite dei rapporti esauriti.
Il giudice delle leggi, pur non avendo espunto alcuna ipotesi di reato, essendosi limitato ad incidere sul solo trattamento sanzionatorio, ha ritenuto che qualsiasi rapporto (salvo il limite di cui sopra), pur coperto dal giudicato, non possa continuare a subire l’ applicazione di quel quantum di pena considerato costituzionalmente illegittimo. In tale caso, sarà compito del giudice dell’esecuzione che, pur essendo privo di poteri cognitori, dovrà procedere ad un ricalcolo della pena in maniera legittima.
Approfittando di questa scia evolutiva, la Corte di Cassazione nel 2010 con sentenza n. 18288 ha interpretato in chiave sovranazionale il concetto di diritto ritenendo che, per esso, non si debba intendere solo il freddo dato legislativo ma anche il dato giurisprudenziale, alla luce dell’art. 7 Cedu.
I giudici di legittimità, pertanto, hanno ritenuto che anche l’orientamento sopravvenuto di una Corte Superiore (cd. overrulling sostanziale) debba essere in grado di scardinare il giudicato, altrimenti osservando situazioni uguali verrebbero regolate in modo diverso a causa di un intervento giurisprudenziale più favorevole ma intervenuto solo successivamente. Ciò in aperto contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 co. 2 della Costituzione.
Medesime sono state le considerazioni accolte dal Tribunale di Bari che, nello stesso anno, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 673 cpp., nella parte in cui non prevede, quale ulteriore ipotesi di revoca della sentenza, il sopravvenuto orientamento delle Sezioni Unite.
Malgrado i tentativi di affievolimento dell’intangibilità del giudicato avanzati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, nel 2011 la Corte Costituzionale ha rigettato la questione e ciò in ragione del fatto che, innanzitutto, l’orientamento anche delle Corti Superiori non è vincolante per i giudici nazionali, i quali sono soggetti soltanto alla legge (iura novit curia); inoltre, l’interpretazione in senso ampliativo del concetto di diritto alla luce della Cedu si spiega soltanto in virtù del fatto che il diritto unionale è condiviso anche da ordinamenti di Common law che si basano sul precedente giudiziario.
Dalla giurisprudenza costituzionale, diversamente da quella di merito e di legittimità, sembra emergere una minore flessibilità del giudicato, limitatamente alle ipotesi di abolitio criminis (eccezion fatta per il caso di cui al co. 3 art. 2 cp.) e di declaratoria di illegittimità.
Proprio su questi due fronti, di particolare rilevanza nel dibattito giurisprudenziale è stata la pronuncia della Corte di Cassazione, resa a Sezioni Unite nel 2014 n. 42858, intervenuta per chiarire i rapporti tra abolitio criminis e dichiarazione di illegittimità costituzionale da un lato, e giudicato dall’altro, quand’anche la pronuncia della Corte sia limitatamente intervenuta sul trattamento sanzionatorio, lasciando impregiudicata la carica offensiva della fattispecie penale.
L’abolitio criminis, innanzitutto, che ai sensi del co. 2 art. 2 cp. costringe il giudicato a cedere, è frutto di una scelta politica il cui monopolio appartiene al potere legislativo statale il quale, in base a considerazioni attuali, ritiene un certo fatto non più bisognoso di pena. Si tratta, quindi, di motivi di opportunità legati prevalentemente al contesto storico e alla sua evoluzione di cui il legislatore deve tenere conto, e che possono spingerlo a mutare orientamento, esercitando una sorta di ius poenitendi. Ciò è quanto intervenuto, ad esempio, per il reato di ingiuria ex art. 594 cp., a seguito del Dlgs. n. 7/2016.
Il fenomeno dell’abolitio criminis va poi tenuto distinto da quello dell’abrogazione, il cui fatto colpito non viene del tutto espunto dall’ordinamento, bensì torna ad esser regolato, per effetto di una riespansione naturale, da una norma già esistente e solo temporaneamente compressa dalla norma abrogata. Così è quanto avvenuto a seguito dell’abrogazione del reato di omicidio d’onore ex art. 578 cp., incluso nella fattispecie generale di cui all’art. 575 cp grazie al criterio dei cerchi concentrici, ove il più contiene il meno. Compito dell’interprete sarà, allora, ravvisare la sussistenza del fenomeno di continuità normativa, facendo salvo il giudicato quando il rapporto tra norme si risolva in una successione di leggi più favorevoli.
Dal caso in cui la legge abrogatrice incide sulla norma speciale, sì da far riestendere quella generale, va distinta l’ipotesi contraria la quale, invece, potrà dar luogo ad un’ipotesi parzialmente abolitrice (abrogatio sine abolitione), in grado di rimuovere il giudicato.
Si tratta di effetti fisiologici dovuti all’obsolescenza nel tempo subita dal bene giuridico tutelato dalla norma, del tutto differenti da quegli effetti patologici causati dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale provocati dalle pronunce incidenti sulle norme incriminatrici.
In questo caso, infatti, non sono motivi di opportunità che spingono il Giudice delle Leggi ad intervenire, essendo la norma affetta da un vizio genetico, originario, in quanto la disposizione mai avrebbe dovuto esser introdotta nell’ordinamento. E’ la ragione per la quale l’art. 673 cpp. prevede, appunto, il superamento del giudicato.
I problemi affrontati dalle Sezioni Unite, tuttavia, si sono concentrati in particolar modo riguardo il caso in cui ad esser colpita dalla declaratoria di incostituzionalità non sia la norma incriminatrice, bensì una norma che regoli il solo trattamento sanzionatorio. La questione, che ha costretto il massimo consesso a pronunciarsi, ha portato la giurisprudenza ad esprimersi riguardo al caso in cui se anche in siffatta ipotesi sia ammissibile la cedevolezza del giudicato.
L’orientamento minoritario avrebbe negato tale possibilità alla luce dell’interpretazione restrittiva data all’art. 673 cpp. Quest’ultimo, stando al mero criterio letterale, si riferirebbe alla revoca delle sentenze nel sol caso di declaratoria di incostituzionalità (oltre che di abrogazione) delle sole norme incriminatrici, intendendo per tali quelle disciplinanti fattispecie di reato in tutti i suoi elementi. Il giudice della esecuzione, inoltre, non avrebbe gli strumenti atti a far fronte a tale intervento. Secondo questo orientamento allora, la pronuncia della Corte Costituzionale, che intervenga limitatamente al trattamento sanzionatorio, lascerebbe impregiudicata la carica offensiva della condotta rispetto al bene giuridico protetto e, pertanto, il giudicato già intervenuto sarebbe fatto salvo.
Di diverso avviso è l’orientamento della giurisprudenza maggioritaria la quale, invece, ammetterebbe il superamento del giudicato in ragione del fatto che l’intervento della pronuncia ha fatto irruzione in riferimento ad un aspetto della norma che, ancorchè limitatamente agli effetti sanzionatori, mai avrebbe dovuto fare ingresso nel nostro ordinamento.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno aderito a tale ultimo orientamento per molteplici ragioni. Innanzitutto, militerebbe in tal senso lo stesso art. 30 co. 3 e 4 della legge n. 87/1953, recante norme sul funzionamento della Corte Costituzionale, il quale da un lato prevede che le norme dichiarate illegittime non producono effetti dal giorno della pubblicazione della sentenza e, dall’altro, prevede che se a seguito della norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile, il giudicato verrà rimosso.
L’art. 30, quindi, nel disciplinare gli effetti retroattivi delle sentenze della Consulta non si limita alle sole norme incriminatrici introduttive di fattispecie penali strettamente intese, riferendosi in senso ampio a tutte le norme dichiarate incostituzionali.
Inoltre, è lo stesso legislatore che ha ammesso la cedevolezza del giudicato quando ha introdotto il nuovo comma 3 dell’art. 2 cp.
Ancora, sempre in senso favorevole verso la flessibilità del principio di intangibilità si è manifestata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 249/2010 in relazione alla circostanza aggravante n. 11 bis dell’art. 61 cp., tenuto anche conto del solo compito di ricalcolo del giudice dell’esecuzione.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma regolante il solo aspetto sanzionatorio impone, dunque, di rivalutare quel necessario bilanciamento tra opposti interessi: di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche con il trascorrere del tempo, alla luce del principio di intangibilità del giudicato, e la libertà individuale, costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 13 Cost.
I giudici di legittimità hanno ritenuto doversi risolvere il conflitto in favore di tale ultima garanzia, trattandosi di una libertà fondamentale superabile solo quando il confronto tra norme in successione tra loro siano tutte legittime, come avviene nel caso di cui all’art. 2 co. 4 cp. Altrimenti osservando il soggetto verrebbe condannato, per quel quantum di pena ritenuta incostituzionale, attraverso una sanzione ab origine illegittima.
Pertanto, il principio di intangibilità del giudicato incontra sicuramente una maggiore elasticità rispetto all’interpretazione datane in passato, certamente più rigida, ma è ancora confinato agli stretti ambiti interpretativi forniti dalla giurisprudenza di legittimità più recente.
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Simona Saggiomo
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