Il principio di laicità: la libertà religiosa dalla nascita del Regno d’Italia ad oggi

Il principio di laicità: la libertà religiosa dalla nascita del Regno d’Italia ad oggi

Il principio di laicità è un  principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale italiano, caratterizzante la forma dello Stato Repubblicano, il quale ha rifiutato di soggiacere ad una religione di Stato – e quindi ad un confessionismo statale – a favore della garanzia e della salvaguardia della libertà di religione, in seno ad un regime di pluralismo confessionale e culturale, ove Stato, istituzioni e magistratura si assumono il dovere di essere equi ed imparziali nei confronti dei diversi culti.

Del principio di laicità possono essere fornite molteplici letture, che altro non sono se non il risultato di quella che è l’interpretazione che ne viene data nel contesto comune; infatti, secondo quelle che sono le fasi del progresso sociale, così nel corso del tempo si evolve il concetto di “laicità”.

Guardando a tale principio da un punto di vista prettamente empirico, è possibile definire la laicità come l’atteggiamento di assoluta indifferenza da parte delle istituzioni politiche e statali di fronte ad eventuali condizionamenti di tipo sociale, filosofico e religioso.

Analizzando, però, più a fondo, è possibile constatare che la laicità può subire una vasta serie di interpretazioni, essendo essa il metro di misura delle relazioni intercorrenti tra Stato, Chiesa e, più in generale, Confessioni Religiose.

Ripercorrendo le tappe della storia italiana, a partire dalla nascita del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1871, è possibile notare come si sia evoluto nel nostro Paese il concetto di laicità e quanta importanza abbia sempre rivestito il rapporto con le confessioni religiose e, più in particolare, con la Chiesa Cattolica, istituzione millenaria che ha sempre ricoperto un ruolo fondamentale nel quadro storico, culturale e sociale dell’intero contesto europeo.

Con la presa di Porta Pia nel 1871, il neonato Stato Italiano si trovava ad affrontare una serie di questioni fondamentali:

  1. Aveva bisogno di affermarsi sul territorio nazionale, rivendicando il monopolio legislativo;

  2. Necessitava di risorse economiche, per affermarsi come Stato Sovrano e risolvere i problemi tecnici tipici del cosiddetto Stato Liberale;

  3. Doveva insinuarsi con fermezza nell’ambito delle cosiddette politiche sociali (quali, a mero titolo esemplificativo, il campo dell’istruzione, della sanità, dell’assistenza, ecc. …), al fine di rivendicare ulteriormente la propria autorità.

In tale ottica, lo Stato Italiano – ove la carta costituzionale di allora, ovvero lo Statuto Albertino del 1848, statuiva al suo articolo 1 che  la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato e che gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi – ammetteva un visione del principio di laicità che potremmo definire moderata, ove pur riconoscendo la supremazia alla religione cattolica, considerata religione di Stato, si ammettevano in ogni caso ulteriori culti religiosi.

Tale scelta fu prevalentemente dettata da “convenienza”: infatti, le neonate istituzioni statali si trovavano a scontrarsi con un influente avversario, dotato di ingenti risorse economiche, nonché investito di una grandissima autorità nell’alveo dei diversi settori nevralgici delle politiche sociali di cui sopra e, pertanto, in grado di influenzare la società attraverso le proprie regole: tale avversario era proprio la Chiesa Cattolica.

Avvertita dal neonato Stato Italiano tale millenaria Istituzione come una vera e propria minaccia alla propria autorità sovrana, la formula di Camillo Benso, Conte di Cavour, teorizzatore della separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica, che recitava “libera Chiesa in Libero Stato”, sembrò la migliore soluzione adottabile ed ispirò la L. n. 214/1871, ovvero la cosiddetta Legge delle Guarentigie (così chiamata in quanto il termine “guarentigie” era sinonimo di “garanzie”), approvata il 13 maggio 1871: tale legge, unilaterale, regolò i rapporti tra Stato Italiano e Santa Sede fino al 1929 e dotava la Chiesa Cattolica, in virtù della propria posizione storico-autoritaria, di una serie di privilegi rispetto alle altre confessioni religiose presenti sul territorio nazionale.

Nonostante gli intenti dello Stato Italiano, tale corpo normativo conteneva al suo interno una serie di previsioni, che erano state avvertite dalla Chiesa stessa come una vera e propria sopraffazione; infatti:

  1. Alla Chiesa furono sottratti i suoi poteri legislativi;

  2. Lo Stato rivendicò il monopolio nelle politiche sociali, escludendo quindi l’azione della Chiesa nel loro alveo;

  3. Fu, inoltre, sottratto alla Chiesa il suo patrimonio, per far fronte alle richieste dello Stato Liberale;

  4. Nel definire il settore pubblico ed il settore privato, si ascrisse al primo ogni forma di legislazione statale ed al secondo l’ambito entro cui i privati potessero esprimere la propria autonomia; ciò facendo, essendo stata la Chiesa privata della possibilità di impegnarsi nel sociale, la si relegò alla sola cura delle anime, volendo, per così dire, trattare la religione come un fattore individuale, ascrivendola nell’ambito privato ed addivenendo in tal modo ad una sorta di “privatizzazione” della Chiesa.

Da tali considerazioni è possibile individuare una prima accezione del principio di laicità, secondo un’ottica di tipo separatista: Stato e Religione occupano due settori tra loro separati, a cui sono affidate diverse funzioni ed investiti da diversi fini. Se da un lato lo Stato ha il compito di garantire il funzionamento del Paese, la Chiesa ha invece quello di preservare la società dai pericoli in cui potrebbe incorrere a seguito del peccato.

Tale interpretazione della laicità come momento di separazione è , però, entrata in decadenza con la crisi dello Stato Liberale, risolsasi nel primo conflitto mondiale e nella nascita di nuove ideologie, come il Socialismo ed il Comunismo, frutto della caduta dello Zar, della Rivoluzione Russa e della ascesa al potere di Lenin, Stalin e Trovsky.

In quel contesto storico, in Europa il popolo, provato dalla miseria, cercava occasioni di riscatto sociale: occasioni che ben sarebbero potute degenerare in un vero e proprio blocco della società stessa, rivoluzioni e conseguente istituzione di regimi comunisti, così come avvenuto nell’area geo-politica russa.

In tale clima di instabilità, si affermarono, in effetti, una serie di regimi dittatoriali in tutto il territorio europeo: dal Fascismo in Italia, al Salazarismo in Portogallo, al Franchismo in Spagna, sino al Nazismo in Germania. Questi, di fronte alle perplessità ed alle paure della gente comune derivanti da un forte clima di incertezza, riuscirono ad affermarsi, ottenendo sia il consenso delle masse popolari, sulla base della promessa di occasioni di riscatto sociale, sia il consenso di capitalisti ed imprenditori, i quali vedevano scongiurata la minaccia del Comunismo.

Filo conduttore comune di tali regimi fu la comprensione dell’importanza dell’unità linguistica e nazionale.

In particolare, in Italia l’allora Duce Benito Mussolini comprese l’importanza della religione e il suo incontestabile fattore coesivo, e si servì del fattore “religione” per l’affermazione della sua egemonia, sino al punto da essere apostrofato e definito quale “Uomo della Provvidenza”. In tale disegno, egli ridefinì i rapporti tra Chiesa Cattolica e Stato Italiano attraverso due provvedimenti:

  1. I Patti Lateranensi del 1929, ove la Religione Cattolica fu definita “religione di Stato”;

  2. La Legge dei Culti Ammessi del 1929, che, in linea con il regime, individuava quali religioni potessero essere liberamente professate nell’ambito del territorio italiano, ponendole le stesse, secondo una prospettazione gerarchica, un gradino al di sotto della religione Cattolica.

Tuttavia il quadro storico di allora ci offrono una visione della laicità del tutto edulcorata: infatti, le leggi razziali ben lasciano comprendere come il principio in esame fosse del tutto avulso dal sistema istituzionale e come la libertà religiosa fosse un fattore oggettivizzato in seno ad un ordinamento che non lasciava alcuno spazio di manovra al singolo e alle formazioni sociali.

Con la caduta del Fascismo a seguito della Seconda Guerra Mondiale, si ebbe il passaggio dallo Stato Liberale, allo Stato di Diritto, allo Stato Costituzionale di Diritto, sacralizzato in seno alla Costituzione del 1948. In quest’ultima, sulla scia del dolore e dei patimenti del conflitto globale e del quarantennio di dittatura, furono assicurate una serie di garanzie di rango costituzionale ad una serie di fondamentali principi (di democraticità ex art. 1, pluralismo, ex art. 2, uguaglianza ex art. 3, diritto al lavoro ed impegno dello Stato nella promozione culturale del paese ex art. 4).

A tali principi, di portata generale ma indirettamente ricollegabili alla diversità religiosa, furono affiancati da altri, più specificatamente volti a definire i rapporti tra Repubblica, Chiesa Cattolica ed altre Confessioni Religiose, in seno agli artt. 7 e 8 Cost., i quali definiscono i criteri di negoziazione tra Stato ed Istituzioni religiose mediante concordati ed intese, nonché in seno al fondamenta,e art. 19 Cost., che testualmente recita tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume e, pertanto, sancisce, in contrapposizione alle previsioni dello Statuto Albertino, il cosiddetto principio di libertà religiosa, che altro non è se non il principio di laicità. Questo si scompone nelle più specifiche libertà di professione, propaganda, esercizio – con l’unico limite della contrarietà al buon costume (inteso, secondo l’orientamento prevalente, come pudore sessuale) – nonché nella libertà di credo, che si estrinseca addirittura alla piena tutela del singolo di non aderire ad alcun credo religioso, al rifiuto a ogni credo (cosiddetto ateismo).

Da una lettura complessiva degli artt. 1-2-3-4-7-8-19 Cost., è possibile definire il quadro complessivo della attuale situazione riferita ai rapporti intercorrenti tra Repubblica Italiana ed Istituzioni Religiose: essendo assicurata la giusta dose di visibilità ad ogni tipo di ordinamento sociale di fronte alle istituzioni politiche in virtù della democraticità e dell’uguaglianza di cui si gode a livello costituzionale sia come singoli che in seno a formazioni sociali, è fuor di dubbio che, stante le garanzie concesse al fattore religioso, anche gruppi ed istituzioni religiose si estrinsechino attraverso le garanzie democratiche e pluraliste di cui è permeata l’intera carta costituzionale. Essendo, inoltre, il fattore religioso di estrema importanza – in virtù della sua capacità coesiva e della sua capacità di influenza sulle masse sociali e, indirettamente sulla maggioranza politica espressa in Parlamento – può essere facilmente ricompreso tra i elementi promozionali del progresso del Paese.

Alla luce di tali considerazioni è allora possibile dare una seconda – e forse più pregnante – definizione di laicità come cooperazione tra Stato ed Enti Religiosi, finalizzata a garantire gli obiettivi della Costituzione.

In tale accezione, la laicità diventa una delle maschere del principio di uguaglianza, quella attraverso la quale vengono definiti i rapporti tra autorità pubblica ed autorità religiosa – sia come istituzione, sia come più intima accezione dell’animo umano.

Preliminarmente, è possibile sostenere che la pubblica autorità ha compreso l’importanza della religione come fattore coesivo, soprattutto in tempi, come quelli odierni, dove tutto è impregnato da una profonda incertezza. Infatti, relativismo morale, crisi sociale ed economica e, da ultimo, il terrorismo diffuso, che interessa gli ultimi anni, sono un insieme di fattori che ci hanno condotti, come affermato dal filosofo Bauman, ad una società liquida, dove la necessità di esser “contenuti” da Istituzioni forti, aggreganti, fondate su principi etico-morali, non potevano non dar conto dell’apporto dato dalla Chiesa Cattolica, la quale, nell’alveo di una società secolarizzata, quale quella in cui viviamo, sembra essere – insieme alle altre confessioni religiose millenarie – l’unica istituzione ancora in grado di “contenere” la società.

Pertanto, gli artt. 7-8 Cost. assicurano a tal fine una negoziazione bilaterale (Concordati ed Intese) nella definizione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose in genere ed assicurando in tal modo a tali norme il carattere della tipicità – intesa come capacità di definire le regole religiose in conformità degli spazi concessi dall’autorità pubblica – e della unicità – ossia come definizione della materia ecclesiastica inerentemente alla libertà religiosa ed ai suoi modi di esplicarsi nella socialità attraverso riti individuali e collettivi e la costruzione di edifici di culto a tale scopo dedicati.

D’altro canto, la libertà religiosa si esplica anche nel diritto di poter aderire a qualunque religione si dimostri maggiormente rispondente alle proprie esigenze e nel dovere dello Stato di rispettare la più intima scelta del singolo individuo. Una tutela così esplicita della libertà religiosa manca ad oggi negli apparati di tipo internazionale, ove questa viene ricavata implicitamente da principi più generali. Tali caratteristiche conferiscono al singolo una pretesa di esigibilità, che si sostanzia nella promozione di determinati interessi, assurti a diritti. Da tanto discende anche una conseguente pretesa di giustiziabilità, consistente nella possibilità di rivendicare la lesione di un diritto religioso innanzi all’autorità giudiziaria competente.


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Emanuela Spolverino

Praticante Avvocato Abilitato al patrocinio, presso il foro di Avellino. Laureata in Giurisprudenza nel settembre 2014 presso l'Università degli Studi di Salerno, ove è stato anche conseguito il Diploma di Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali nel settembre 2016. Attualmente impegnata a svolgere la professione forense; collabora con il Tribunale di Avellino, come tirocinante ex art. 73 L. 98/2013, presso la Sezione Lavoro e Previdenza.

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