Il principio di legalità come fondamento e limite del potere espropriativo della pubblica amministrazione
Sommario: 1. Premessa – 2. Dall’occupazione acquisitiva all’art. 42 bis del D.P.R. N. 327/2001 – 3. La rinuncia abdicativa nel procedimento di espropriazione
1. Premessa
L’espropriazione per pubblica utilità è un procedimento a carattere ablatorio attraverso il quale la Pubblica Amministrazione acquisisce coattivamente beni di proprietà privata per il perseguimento di scopi pubblici. Essa trova il suo fondamento nell’art. 42 della Costituzione, che dopo aver attribuito alla proprietà privata il carattere di diritto assoluto, prevede, nel terzo comma, che essa può essere espropriata per motivi di interesse generale nei casi previsti dalla legge e dietro pagamento di un indennizzo.
Da tale disposizione si comprende come la proprietà, oltre ad essere funzionale a garantire lo sviluppo della personalità umana e a provvedere ai bisogni dell’uomo, è diretta anche all’assolvimento di funzioni sociali al fine di garantire il perseguimento degli interessi della collettività. Pertanto, l’istituto dell’espropriazione si giustifica alla luce dei principi costituzionali del perseguimento dell’interesse generale, della riserva di legge e dell’obbligo di indennizzo.
2. Dall’occupazione acquisitiva all’art. 42 bis del D.P.R. N. 327/2001
Il procedimento espropriativo è disciplinato dagli artt. 8 e 23 del DPR n. 327/2001 (noto come Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità) che prevedono una procedura articolata in più fasi. La prima fase è rappresentata dall’apposizione da parte della PA di un vincolo preordinato all’espropriazione che può discendere da un piano regolatore generale, da una sua variante o da un altro atto che comporti comunque una sua modifica.
La seconda fase è rappresentata dalla dichiarazione di pubblica utilità in cui è inserito anche il termine per il decreto di esproprio (in mancanza di tale previsione, l’art. 13 prevede che sia di 5 anni). Segue la determinazione in via provvisoria dell’indennità che spetta al privato. Infine la procedura si chiude con l’emanazione del decreto di esproprio.
In alcuni casi, la PA occupa un bene immobile senza intraprendere la procedura di espropriazione e compie su tale proprietà privata un’attività che ne comporta la sua trasformazione irreversibile.
In passato, la giurisprudenza elaborò l’istituto dell’occupazione acquisitiva per regolamentare questo “modus operandi” della PA.
Infatti, con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 16/02/1983 n. 1464 fu affermato il principio in base al quale, in caso di occupazione illegittima da parte della PA di un fondo privato con la sua trasformazione irreversibile, si ha l’estinzione del diritto di proprietà del privato con la contestuale acquisizione della proprietà da parte della PA e l’insorgere in capo al privato di un diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
La Corte di Cassazione giungeva a questa conclusione richiamando l’istituto dell’accessione di cui all’art. 934 c.c. , invertita per effetto della forza attrattiva esercitata dal bene di interesse pubblico su quello privato.
Tale ricostruzione fu ben presto criticata in quanto contrastante con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che attraverso l’art. 1 del protocollo addizionale prevede che “ nessuno può essere privato della proprietà privata se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge”. Pertanto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II , con la sentenza del 30/05/2000 , ricorso n. 31524/1996 ha censurato le forme di espropriazione indirette perché costituenti un illecito permanente lesivo del diritto fondamentale di cui al’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU. La Corte europea ha evidenziato come l’espropriazione, in virtù del principio di legalità, deve essere sempre prevedibile e, quindi, avere una base giuridica certa, non potendo derivare da un atto illecito.
Successivamente, il legislatore, con il DPR n. 327/2001 introdusse l’art. 43 che prevedeva la possibilità della PA di acquisire in sanatoria la proprietà dell’immobile illegittimamente espropriato e irreversibilmente modificato. Tale norma, però, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 08/10/2010 n. 293.
Pertanto, nel predetto testo unico è stata introdotta con il DL. n. 99/2011 una nuova disposizione all’art. 42 bis. Con tale norma sono state superate le precedenti censure mosse dalla giurisprudenza europea atteso che è stato introdotto un procedimento espropriativo semplificato sostenuto da una precisa base legale.
Il provvedimento emesso ex art 42 bis non ha lo scopo di sanare un comportamento illecito; bensì è un atto autonomo che si va a sostituire al decreto di esproprio. Infatti, l’acquisto da parte della PA opera ex nunc e sono previste due obbligazioni patrimoniali in capo alla PA nei confronti del privato: una risarcitoria derivante dal precedente comportamento illecito e una indennitaria discendente dal legittimo provvedimento di cui all’art. 42 bis.
In merito alla previsione di cui all’art. 42 bis si è discusso sulla possibilità per la PA di emanare il provvedimento di acquisizione sanante dopo che sia intervenuto un giudicato restitutorio.
Sul punto sono emersi due orientamenti. Secondo una prima tesi la PA può adottare un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis anche se precedentemente è intervenuto un giudicato restitutorio della proprietà privata.
Altro orientamento ritiene che il giudicato restitutorio costituisce un limite temporale per la PA ed ha, quindi, un effetto preclusivo rispetto alla possibilità della stessa di adottare un successivo provvedimento ex art. 42 bis.
Per risolvere questo contrasto giurisprudenziale è intervenuto il Consiglio di Stato, ad adunanza plenaria, con la sentenza del 09/02/2016 n. 2, affermando importanti principi in materia di acquisizione sanante e giudizio di ottemperanza. In particolare, essa ha precisato che, a fronte di un giudicato puramente cassatorio, il commissario ad acta può adottare un provvedimento ex art. 42 bis; viceversa, ciò non può avvenire a fronte di un giudicato restitutorio che esplicitamente condanna la PA a restituire la proprietà privata.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5 del 18/02/2020 è intervenuta di nuovo sulla questione relativa alla compatibilità o meno del giudicato restitutorio con il provvedimento ex art. 42 bis.
La vicenda che ha dato luogo alla sentenza nasceva dal fatto che, dopo un giudicato restitutorio civile, la PA aveva emanato un atto di dichiarazione di pubblica utilità e di imposizione di una servitù.
Il Consiglio di Stato, dopo aver richiamato i principi di cui alla sentenza n. 2/2016, ha affermato che il giudicato restitutorio non preclude comunque l’emanazione da parte della PA di un atto di imposizione di una servitù, in osservanza del potere previsto dall’art. 42 bis comma 6, poiché la servitù presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al privato.
3. La rinuncia abdicativa nel procedimento di espropriazione
Strettamente collegato al tema delle occupazioni illegittime è quello relativo alla rinuncia abdicativa a cui in passato la giurisprudenza ha fatto ricorso in caso di espropriazioni illegittime da parte della PA , in assenza di un decreto di esproprio o di dichiarazione di pubblica utilità o di annullamento di tali atti.
In merito, occorre rilevare che nel diritto civile la rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale non recettizio che consente al titolare di rinunciarvi. Tale negozio, pur essendo riconducibile alle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c. ( e, in particolare, alla previsione “ da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico”) non risulta disciplinato da alcuna norma giuridica. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel riconoscerne la validità nel diritto civile.
Anche nella materia degli espropri, la giurisprudenza in passato ha ritenuto ammissibile la rinuncia abdicativa, sostenendo che la domanda al risarcimento del danno per equivalente formulata nel corso del giudizio dal privato determinasse la perdita della proprietà in capo a quest’ultima, trattandosi di un comportamento incompatibile con la pretesa della restituzione del bene.
Tuttavia, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con tre sentenze del gennaio 2020 (n. 2/2020, n. 4/2020, n. 5/2020) ha affermato la non idoneità della rinuncia abdicativa a determinare l’acquisto della proprietà in capo alla PA espropriante. Il Consiglio di Stato, alla luce dell’art. 42 della Costituzione e della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo in tema di occupazioni illegittime, ha evidenziato che affinché si possa avere un effetto traslativo in favore della PA occorre una base legale certa.
Orbene, l’art. 42 bis riserva alla PA il potere di valutare se procedere alla restituzione del bene o all’acquisizione con le modalità previste dalla legge. Analogo potere spetta al commissario ad acta nominato dal Giudice.
Viceversa, nessuna norma attribuisce al privato, a fronte di occupazione illegittime della PA di decidere sulla sorte del bene. Pertanto, l’atto abdicativo del privato non può comportare alcun effetto traslativo in capo alla PA ; diversamente si verificherebbe un grave “vulnus” al principio di legalità che costituisce il fondamento e, nel contempo, il limite del potere amministrativo.
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Avv. Anna Amendola
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