Il principio di legalità penale e le incidenze del diritto sovranazionale nell’ordinamento penale interno
Il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e art. 7 CEDU è uno dei pilastri del diritto penale moderno. La sua funzione è quella di evitare abusi ed arbitri dello Stato nella sua pretesa punitiva a detrimento dei cittadini. Pertanto, un soggetto può essere punito solo per un fatto previsto dalla legge come reato e solo se previsto come tale da una legge al momento dell’zione o dell’omissione criminosa. Nella sua essenza, dunque, il principio di legalità garantisce il favor libertatis.
Storicamente il principio venne coniato dal criminalista tedesco A. Fauerbach nel XIX secolo nel noto broccardo “nullum crimen, nulla poena sine lege poenali scripta et stricta“, come prodotto del pensiero illuministico dell’800. Infatti, il diritto penale è caratterizzato, da sempre, dalla contrapposizione dialettica tra indirizzi metapositivistici-sostanzialistici e indirizzi formalistici-positivistici, con la conseguente accezione formale o sostanziale di reato. Mentre i primi tendono ad attingere le fonti in materia penale dal sano sentimento del popolo (“Gesundes Volksempfinden“), per i secondi il reato può essere soltanto quello previsto dalla legge. Nel nostro ordinamento, in particolare, l’obiettivo illuministico e giuspositivistico venne raggiunto nel 1930 con la Prolusione Sassarese di Arturo Rocco, anche grazie all’influenza di una parte della dottrina tedesca (Beling, Binding, Mayer) che, in territorio germanico, aveva portato alla elaborazione di una teoria generale del diritto (“allgmaine Rechtlhere“) fondata sui c.d. “dogmi”.
La nostra Costituzione, all’art. 25, accoglie, quindi, una concezione formale di reato. Tuttavia, alcuni Autori, hanno sostenuto la posizione intermedia, con precipuo riguardo agli artt. 13 e 27 Cost., che attenuerebbero il rigore formale. Il principio di legalità interno racchiude in sé tre o quattro (a seconda delle diverse posizioni dottrinali) corollari, e precisamente: quello della riserva di legge, quello della irretroattività, quello di tassatività e quello di analogia. Dunque, non solo il principio di riserva di legge e di irretroattività, ma anche quello di tassatività (come affermato da diverse pronunce della Corte Costituzionale degli anni ’50 e ’60). Tralasciando una trattazione articolata e specifica su ciascuno dei corollari del principio di legalità interno, può sintetizzarsi che: il corollario della riserva di legge garantisce il favor libertatis e l’autodeterminazione del singolo affidando al Parlamento, quale massima espressione politica-democratica (così le sentenze n. 394/2006 e n. 487/89 richiamate dalla Corte Cost. 230/2012) il compito di scrivere le leggi; il corollario della irretroattività (in malam partem) si rivolge sia allo Stato, sia al giudice ed impone il divieto di applicare una norma sfavorevole al reo intervenuta successivamente alla commissione del fatto di reato; infine il corollario della tassatività e quello del divieto di analogia si rivolgono l’uno al Legislatore, che deve enucleare norme chiare, determinate e precise rifuggendo, dunque, da elementi astratti e non empirici, mentre l’altro al giudice che, il divieto ex art. 14 c.c., non può interpretare la norma oltre la portata massima consentita.
Il principio di legalità, oltre che a livello interno, trova la sua fonte anche nell’art. 7 CEDU per cui nessuno può essere punito per un fatto commesso antecedentemente all’entrata in vigore di una norma, né essere punito con una pena più grave, in luogo di quella più mite, prevista da una disposizione susseguente la commissione del fatto di reato. Appare evidente allora che il principio di legalità sovranazionale accoglie il principio di irretroattività con riferimento al precetto ed alla pena. Tuttavia, come affermato dai giudici di Strasburgo, dall’art. 7 CEDU si ricavano implicitamente anche i principi di tassatività e di divieto di analogia. La Corte di Strasburgo ha, inoltre, raffinato tali principi a livello qualitativo enucleando i due criteri della prevedibilità e dell’accessibilità in matière pénal. Pertanto, non solo una norma deve essere resa pubblica e, quindi, accessibile ma dev’essere, altresì, prevedibile nella sua concreta applicazione, grazie ad una formulazione chiara e determinata, ai cittadini. Nel noto caso Scoppola c. Italia del 2009, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto anche l’applicabilità del principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 7 CEDU, in ragione del principio del favor rei, diversamente dalla Corte Costituzionale che distingue tra principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (giustificato con l’art. 25 Cost.) e il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo, che trova la sua ratio nel principio di uguaglianza e di parità di trattamento ex art. 3 Cost. Ulteriore disposizione, che appare opportuno richiamare a livello sovranazionale, è l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che, oltre a recepire il contenuto dell’art. 7 CEDU, sancisce espressamente il principio della retroattività della lex mitior.
Occorre, giunti a questo punto della trattazione, soffermarsi sui rapporti tra Costituzione e CEDU, sulla capacità di resistenza del principio di legalità interno all’influenza sempre più penetrante del diritto CEDU e dell’UE. In particolar modo i differenti tra la fonte nazionale e le fonti sovranazionali si risolvono in differenti modalità di composizione dei contrasti e di risoluzione dei conflitti tra le norme e, per l’effetto, in divergenti incidenze sul sistema dell’ordinamento penale interno. Come è noto le famose sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007 hanno sancito dei principi di fondamentale importanza nell’ambito dei rapporti tra le fonti. Infatti, con precipuo riferimento al rapporto diritto interno-diritto dell’UE, i giudici della Consulta ebbero a dire che l’Italia aderendo all’UE è entrata a far parte di un ordinamento più vasto, concedendo parte della propria sovranità, anche legislativa, con il solo limite del rispetto dei principi costituzionali e dei diritti inalienabili della persona. Mentre per quanto concerne i rapporti tra diritto interno-diritto CEDU i giudici di legittimità hanno affermato che la stipulazione di trattati internazionali multilaterali non comporta l’appartenenza dell’Italia ad un ordinamento più ampio. Alle norme CEDU è attribuito rango e valore sub-costituzionale. Il Legislatore nazionale e regionale nella formulazione delle leggi deve, dunque, attenersi ai principi sia della Costituzione, sia della CEDU.
Qualora un giudice nazionale ravvisi un contrasto insanabile tra norma interna e norma CEDU dovrà, dopo aver tentato un’interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale della norma in contrasto con il diritto CEDU, per violazione dell’art. 117 Cost. La Corte Costituzionale, ritenuta l’ammissibilità e la correttezza del ricorso, dovrà verificare la compatibilità della normativa CEDU con i principi della Carta Costituzionale e dichiarare inammissibile e rigettare il ricorso in caso di giudizio negativo. Differentemente, nei rapporti diritto interno-diritto dell’UE, a seguito delle famose sentenze Frontini del 1973 e Granital del 1984, vista l’efficacia diretta della normativa UE nell’ordinamento interno e salva l’applicazione dei c.d. “controlimiti allaragati”, l’eventuale contrasto tra norme deve essere risolto alla luce del primato del diritto dell’UE. Benché il primato dell’Ue sull’ordinamento interno è pacifico e consolidato in giurisprudenza, pare opportuno rilevare, come Autorevole dottrina ha fatto, che al diritto dell’Unione, tramite l’adesione dell’Italia ai Trattati, non è stata attribuita alcuna competenza esclusiva in materia penale e che l’art. 83 TFUE prevede che le direttive europee possono produrre efficacia diretta solo per l’adozione di norme minime, effettive e dissuasive negli ambiti di competenza europea e di maggiore armonizzazione ai fini e per la tutela degli interessi dell’UE.
Il differente atteggiarsi degli obblighi derivanti dall’adesione alla CEDU rispetto a quelli imposti dall’Unione Europea agli Stati membri ben si evince dalla comparazione dei recenti casi Cestaro e Taricco. Tali vicende sono accomunate dal fatto che sia la Corte di Strasburgo, sia la Corte di Giustizia dell’UE pervengono ad affermare l’incompatibilità della normativa in materia di prescrizione con gli obblighi assunti dallo Stato italiano a livello sovranazionale. Nel caso Cestaro c. Italia, relativo alle violente perpetrate dalle forze di polizia italiane in occasione delle manifestazioni contro il G8 di Genova nel 2001 presso la scuola Diaz, la Corte EDU ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sia sotto il profilo sostanziale che processuale. Il nostro ordinamento non prevede il reato di tortura, conseguentemente, i fatti oggetto del processo sono stati sussunti in fattispecie di reato minori quali percosse, lesioni o abusi d’ufficio, non capaci di riassumere la reale offesa arrecata e per i quali è previsto un termine di prescrizione troppo breve in considerazione della gravità delle condotte considerate. La Corte EDU ha rilevato come la disciplina della prescrizione, così come disciplinata dagli artt. 157 e ss. c.p., possa impedire in pratica ogni punizione di soggetti responsabili di atti di tortura, autori di trattamenti inumani e degradanti, nonostante gli sforzi profusi dalle autorità inquirenti e giurisdizionali. La conseguenza della riscontrata violazione è che lo stato italiano è tenuto al risarcimento del danno in favore del ricorrente ed è obbligato a dotarsi di strumenti giuridici idonei ad assicurare il rispetto dell’art. 3 CEDU. Non vi è alcuna incidenza immediata sul diritto interno sub specie di disapplicazione da parte del giudice nazionale della norma interna da cui discende la violazione accertata.
Nella notissima sentenza Taricco resa dalla Corte di Giustizia dell’UE ha avuto un impatto devastante decisamente più dirompente proprio in ragione del principio del primato del diritto dell’UE rispetto a quello nazionale. La CGUE ha affermato che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella risultante dal combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, c.p. e 161, comma 2, c.p. che fissa un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi, pari al termine di prescrizione ordinario più un quarto, nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi la materia di imposta sul valore aggiunto (c.d. “frodi carosello”) è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 315, paragrafi 1 e 2, TFUE. Tali conclusioni della Corte di Giustizia hanno immediatamente destato forti perplessità, sia in dottrina che in giurisprudenza sotto il profilo della compatibilità dell’obbligo posto a carico del giudice nazionale con il principio di legalità in materia penale ex art. 25, comma 2, Cost. La querelle è stata chiusa definitivamente dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 115/2018, che seguendo il fare diplomatico messa in atto anche dalla Corte di Cassazione, a messo in atto a tutela dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno e, in particolar modo quello del principio di legalità in materia penale, ha riaffermato la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione nel nostro ordinamento, che non rileva sul piano processuale, incidendo sulla punibilità in astratto, non rilevante ex post ed in concreto, e che pertanto l’istituto risulta assoggettato al principio di legalità.
Il principio di legalità sovranazionale (come affermato dalla Corte Cost. n. 230/2012) è più ristretto di quello nazionale. In particolare, differente è la concezione della riserva di legge in ambito europeo. Questa assume una accezione sostanziale, assurgendo il diritto CEDU e dell’UE ad una posizione mediana tra gli ordinamenti degli Stati membri, nella contrapposizione dialettica tra i sistemi incentrati sulla “law in the action” e quelli della “law in the books“. Quindi, per i giudici comunitari, oltre alla legge, anche il c.d. “diritto vivente”, ovvero la consuetudine ed il c.d. “judge made law“, rientrano nel concetto di riserva di legge. Per tale motivo, secondo i giudici di Strasburgo, il principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, può subite un’indebita violazione sia di carattere originario (quando si ledono i principi di tassatività e di divieto di analogia), sia di carattere derivato (in caso di violazione dei principi qualitativi di prevedibilità ed accessibilità e della riserva di legge nel senso suddetto). Differenti e variegati sono stati i criteri adottati dai giudici comunitari nel controllo del rispetto della legalità sovranazionale di tipo derivato. Infatti, in alcune pronunce, nel dichiarare la violazione dell’art. 7 CEDU, i giudici di Strasburgo si sono orientati per un criterio oggettivo (come nel caso Sunday Times c. Regno Unito del 1970); in altri casi, per un criterio evolutivo (così, ad esempio, nelle sentenze gemelle S.W. c. Regno Unito e R.C. c. Regno Unito, richiamandosi alla famosa pronuncia Kokkanakis c. Grecia del 1993); mentre, un criterio soggettivo è stato applicato nel caso Radio c. Svizzera del 1990 e in Soros c. Francia del 2011); infine, l’utilizzo del “precedente qualificato” è stato il criterio adottato dai giudici di Strasburgo nella recente e nota vicenda Contrada.
In conclusione, il principio di legalità interno è oggi sottoposto ad una prova di resistenza notevole. Intanto l’integrazione tra le fonti nazionali e sovranazionali continua (ne è esempio il caso De Tommaso in materia di misure di prevenzione personali), ed è in una continua evoluzione di difficile, se non impossibile, prevedibilità. Non resta che attendere, quindi, gli approdi dottrinali e giurisprudenziali di questo intenso ed affascinante “dialogo tra le Corti”, che specie in materia penale, comporta incidenze rilevanti nell’ordinamento penale interno, ma, soprattutto, per le ripercussioni che tale dialogo può avere a livello di diritti fondamentali dei cittadini così come garantiti dalla Costituzione.
Fonti
F. MANTOVANI: Diritto Penale, parte generale, 2017.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Enrico Sericola
Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.
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