Il principio di necessaria offensività e il principio di proporzionalità della pena: profili generali ed applicazioni in materia di reati concernenti sostanze stupefacenti
Nel corso degli anni il diritto penale ha cambiato la propria essenza passando da un diritto penale dal carattere metafisico, basato sulla personalità dell’autore, ad un diritto penale liberale e risocializzante collegato intimamente alla condotta del reo. Invero, tale passaggio è avvenuto alla luce del principio di legalità e dei suoi corollari in base ai quali all’autore del reato può essere mosso un rimprovero solo se questi abbia commesso un fatto, volontariamente o colposamente, lesivo di interessi giuridici tutelati dal legislatore. Il principio di legalità, quindi, presuppone la materialità della condotta e la colpevolezza dell’autore in rapporto all’offesa del bene giuridico protetto al fine di erogare una pena proporzionale al disvalore del fatto ex artt. 3, 25, 27 Cost.
Fra i corollari della legalità spiccano per importanza i principi di offensività e proporzionalità; essi, sono stati al centro di vivi dibattiti giurisprudenziali e dottrinali in ordine al loro fondamento giuridico e alla loro ambito applicativo rispetto a plurime norme del codice penale e della disciplina settoriale come, ad esempio, in tema di reati concernenti sostanze stupefacenti.
Orbene, prima di entrare nel merito della casistica giurisprudenziale e dei principi di diritto espressi, è necessario delineare il fondamento e la ratio del canone dell’offensività e della proporzionalità.
Prima degli anni Sessanta, il principio di offensività è stato visto con sfavore dalla tesi scettica secondo cui, data l’assenza di un riferimento normativo espresso del canone dell’offensività, questo non poteva trovare fondamento nel nostro ordinamento giuridico. Inoltre, tale principio comporterebbe un incontrollato potere discrezionale del giudice nella valutazione dell’offesa al bene giuridico in pieno contrasto con i principi di tassatività, prevedibilità e certezza del diritto.
A tale tesi si è contrapposto l’orientamento positivo, secondo cui il principio di offensività, nonostante sia un principio inespresso, trova il suo fondamento giuridico alla luce del combinato disposto degli artt. 3, 13, 25, 27 Cost, art. 7 CEDU ed art. 49 della Carta di Nizza. In particolare, è stato affermato che un diritto penale liberale e risocializzante non esisterebbe se non in ragione di una concreta lesione del bene giuridico presidiato della norma. Proprio per questo motivo, sarebbe irragionevole punire una condotta che, nel caso concreto pur se tipica, non abbia leso alcun interesse rilevante per l’ordinamento. Ciò si evince anche dalla valorizzazione del principio di colpevolezza e della funzione rieducativa della pena che presuppongono ontologicamente un’offesa al bene protetto.
I fautori di tale tesi, inoltre, rinvengono il fondamento del principio di offensività anche in numerose disposizioni del codice penale come: l’art. 49 c.2 in tema di reato impossibile; l’art. 131 bis c.p. in tema di non punibilità per tenuità del fatto, gli artt. 61, 62 c.p. riguardo alle circostanze aggravanti ed attenuanti comuni.
L’ammissibilità del principio di offensività però ha destato accesi contrasti dottrinali e giurisprudenziali in ordine alla sua collocazione all’interno della teorica del reato e sulla sua portata applicativa.
Sul primo profilo, si sono confrontate la teoria dell’elemento negativo della pena, la tesi realistica e strutturale; la prima tesi sostiene che il principio di offensività non trova collocazione all’interno della struttura del reato, inteso come fatto-antigiuridicità-colpevolezza, ma come causa di esclusione della punibilità. Così argomentando, chi commette un reato tuttavia privo di qualsia carattere offensivo commette un fatto tipico che non sarà punibile poiché inoffensivo.
L’orientamento in questione è stato aspramente criticato poiché comporta meno garanzie processuali per l’imputato poiché su di questi grava l’onere probatorio relativo all’inoffensività della condotta. Inoltre, è stato evidenziato che proprio gli artt. 49 e 131 bis c.p. dimostrano al contrario che l’offensività riguarda la struttura del reato poiché intimamente collegata alle modalità della condotta e all’elemento soggettivo dell’agente. Sicché, sarebbe preferibile far rientrare l’offensività nella struttura del reato secondo lo schema: fatto tipico-antigiuridico-colpevole-offensivo.
L’approccio realista dell’offensività comporta allora un’accezione particolarmente forte di tale principio in quanto tutti i reati devono essere necessariamente offensivi dei beni giuridici protetti in base ad un procedimento logico\normativo senza trascendere in giudizi di valore o morali che si pongono in antitesi con la certezza del diritto e la prevedibilità. Quindi, secondo tale approccio il giudice dovrà valutare l’offensività sul piano astratto e, nel caso in cui manchi nel dato normativo, procedere ad una valutazione dell’offensività nel caso concreto. Ne consegue che, nell’ipotesi di inoffensività della condotta, il giudice dovrà assolvere il reo perché il fatto non costituisce reato; formula assolutoria che, tuttavia, non è pienamente liberatoria sul piano civilistico ed amministrativo.
Altra parte della dottrina ha sostenuto che l’offensività, nonostante sia parte della struttura del reato, è più precisamente elemento integrale del fatto tipico secondo la formula: fatto tipico ed offensivo-antigiurdico-colpevole. Ne deriva che può definirsi fatto tipico solo quello che sia ontologicamente lesivo degli interessi tutelati dall’ordinamento e, nel caso di assenza di offesa, il giudice procederà ad assolvere l’agente secondo la formula più favorevole del “fatto non sussiste”.
Anche sulla portata applicativa del principio di offensività si sono confrontate la dottrina e la giurisprudenza; secondo un primo orientamento, l’offensività deve essere interpretata in senso “forte” poiché appartenente alla struttura del reato. Sicché, il principio in questione permetterebbe un sindacato forte sulle scelte del legislatore funzionale a tutelare i beni giuridici protetti dalle norme costituzionali.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha abbracciato la tesi dell’offensività in senso “debole” in ragione del principio della separazione dei poteri e del canone di ragionevolezza sulle scelte di incriminazione effettuate dal legislatore. Difatti, è stato sottolineato che alla Consulta non compete un sindacato pieno ed illimitato sulle scelte di politica criminale, le quali possono essere censurate solo se manifestatamente irragionevoli ed arbitrarie. Inoltre, il principio di offensività non deve necessariamente operare per la tutela dei beni primari\costituzionali in quanto spetta esclusivamente all’apparato politico scegliere di tutelare anche beni strumentali agli interessi costituzionalmente garantiti. Sul punto, la Corte Costituzionale è intervenuta nel c.d. “caso Cappato” in merito al perimetro applicativo del reato di istigazione o aiuto al suicidio, dichiarandone la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non prevede una causa di non punibilità per chi aiuti al suicidio un soggetto che sia affetto da una grave patologia e che sia in grado di esprimere la propria volontà.
Orbene, alla luce di quanto sopra esposto, emerge con chiarezza il perimetro applicativo del principio di offensività che, nella sua accezione astratta, limita la discrezionalità del legislatore in ragione del principio di ragionevolezza.
L’offensività opera anche nel piano concreto inteso come metro di giudizio rivolto al giudice imponendo a questi la verifica che la condotta sia concretamente lesiva del bene giuridico presidiato dalla norma.
La giurisprudenza ha fatto propri tali declinazioni del principio di offensività in tema di clausola “de minimis” nel reato di truffa ex art. 640 c.p.; nel dettaglio, è stato affermato che non è punibile la condotta dell’agente che, pur connotata da artifizi e raggiri, non produca un danno reale per la persona offesa. Ancora, in materia di falsi, la giurisprudenza ha creato delle ipotesi di inoffensività della condotta nei casi di falso grossolano, innocuo ed inutile poiché ipotesi incapaci di ledere la fede pubblica. Sul tema, si segnala una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo cui la fotocopia di atto pubblico inesistente non è offensiva nel caso in cui la copia dell’atto sia incapace di sembrare un provvedimento originale o una copia ad esso conforme.
Infine, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, è stata sostenuta l’inoffensività della condotta del funzionario che effettui una telefonata privata dalla linea telefonica pubblica. Più precisamente è stato osservato che, pur essendo integrato dal punto di vista del fatto tipico il reato di peculato, la condotta è talmente inoffensiva da non meritare l’erogazione della severa pena prevista dall’art. 314 c.p.
Come è stato accennato, al principio di offensività si affianca il canone della proporzionalità intensa come precipitato logico e giuridico della legalità, colpevolezza e, soprattutto, della funzione rieducativa della pena ex artt. 3, 27 c.2 Cost. Anche la proporzionalità ha conosciuto una lenta e progressiva accettazione quale principio immanente del nostro ordinamento principalmente rivolto al rapporto tra condotta commessa e pena erogata.
Prima degli anni Settanta, era pacifico l’orientamento secondo cui la Corte Costituzionale non avrebbe potuto in alcun modo sindacare le scelte effettuate dal legislatore in rapporto alle singole cornici edittali dei reati. Invero, è stato sostenuto che i giudizi di valore sulla fattispecie e sulla pena sarebbero ad appannaggio esclusivo del potere politico e che, l’eventuale sindacabilità di tale giudizio, sarebbe una rinnegazione del principio della separazione dei poteri.
Tuttavia, l’orientamento in questione fu ben presto abbandonato alla luce dei principi di legalità, proporzionalità, colpevolezza ed offensività ex artt. 3, 25, 27 Cost.
Infatti, come per l’offensività, la proporzionalità svolge una funzione astratta ed una concreta. La prima volge il suo monito verso il legislatore affinché questi predisponga cornici edittali “astratte” ragionevoli e proporzionali alla tutela del bene giuridico protetto.
Sul punto si è pronunciata la Corte Costituzionale affermando che le scelte dell’apparato politico sulla cornice edittali sono incensurabili, poiché espressione del principio di discrezionalità politica, salvo nei casi in cui siano manifestamente irragionevoli. Sotto questo profilo, ben può la Consulta censurare le cornici edittali stabilendo nuovi minimi e massimi conformi al disvalore della condotta e alla rilevanza del bene giuridico tutelato.
Ancora la Corte Costituzionale è intervenuta nel 2016 in ordine al reato di alterazione di stato tramite false dichiarazioni o attestazioni ex art. 567 c.2 c.p. rimodulandone la cornice edittale poiché risultava troppo severa rispetto al bene giuridico tutelato e, quindi, non proporzionale. Difatti, i giudici di legittimità hanno precisato che la cornice edittale compresa fra i cinque e i quindici anni di reclusione per del reato di alterazione di stato, risultava sproporzionata ad i giorni nostri in ragione degli strumenti di identificazione di stato che sono stati introdotti col tempo. Invero, se al momento dell’introduzione del reato in questione era giustificata la pena in ragione del fatto che l’unico rimedio per conoscere le qualità dello stato civile di un soggetto era la dichiarazione dello stato di nascita, ad oggi, il medesimo ragionamento è improponibile. Inoltre, è stata sottolineata l’irragionevolezza dello iato sanzionatorio fra il primo ed il secondo comma dell’art. 567 c.p. sulla scorta dei motivi che possono indurre il singolo alla falsificazione dello stato civile del neonato. Sicché, la Corte ha mutato la cornice edittale del secondo comma, compresa dai cinque ad i dieci anni, a quella meno severa del primo comma, che va dai tre ai dieci anni, tramite le c.d. “rime obbligate” ovvero quel procedimento comparativo fra due norme che hanno tutelano il medesimo bene giuridico protetto ma che, nella sostanza, sono connotate da forbici edittali differenti senza alcuna motivazione ragionevole.
La Corte Costituzionale è anche intervenuta anche in merito alla proporzionalità delle sanzioni accessorie dichiarando la parziale incostituzionalità dell’ultimo comma dell’art 216 l. fallimentare che prevedeva la pena fissa di dieci anni di inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale.
In particolare, è stato sottolineato che il principio di proporzionalità svolge la sua funzione non solo in rapporto alla pena principale sotto la lente della funzione rieducativa, ma anche per le pene accessorie\secondarie in ragione della funzione special-preventiva. Di conseguenza, è irragionevole fissare rigidamente la pena per le sanzioni accessorie, poiché deve essere possibile per il giudice di merito modularle in ragione delle specifiche oggettive e soggettive del caso concreto ex art. 133 c.p.
Di conseguenza, i giudici di legittimità hanno sostituito la pena accessoria fissa a dieci anni di inabilitazione con la frase “sino a dieci anni” rendendola modulabile alla luce del principio di proporzionalità e ragionevolezza ex art. 3, 27 Cost.
Come è stato accennato, il principio di proporzionalità oltre a rappresentare un limite verso la funzione legislativa, si pone come parametro imprescindibile al quale il giudice di merito deve far riferimento nella comminazione della sanzione in base alle circostanze del fatto concreto. Del resto, gli istituti delle aggravanti, delle attenuanti, del reato continuato e del delitto tentato altro non sono che il diretto precipitato giuridico del principio in questione. Infatti, la ratio degli artt. 56, 61, 62, 81 c.p. svolgono la funzione di modulazione della pena in base alle circostanze, oggettive e soggettive, del caso concreto nell’ottica di una pena rieducativa e proporzionata al disvalore del fatto.
Inoltre, è doveroso precisare che anche l’art. 43 c.p. in tema di elemento psicologico del reato è pervaso dal canone della proporzionalità poiché i diversi “gradi” del dolo e della colpa consentono di modulare in concreto la pena in base all’atteggiamento psicologico dell’agente.
Nel medesimo senso, si pongono anche gli artt. 132, 133 e 133 bis c.p. in base ai quali il giudice di merito applica la pena discrezionalmente tenuto conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole e delle condizioni economiche del reo.
Orbene, alla luce di quanto sopra esposto, adesso si può procedere all’analisi della disciplina in materia di stupefacenti sulla quale vi sono stati plurimi dibattiti giurisprudenziali e dottrinali in ordine sia alla proporzionalità delle pene dell’art. 73, sia in rapporto all’offensività della condotta della coltivazione di cannabis destinata all’uso personale.
In particolare, il principio di proporzionalità ha svolto un importante ruolo nel dibattito giurisprudenziale in ordine alla determinazione delle cornici edittali dell’art. 73 c.1 e 5 del D.P.R. 309/1990.
L’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti è inserito nel Titolo VII, Capo I, concernente le disposizioni penali e amministrative in materia di traffico, produzione, detenzione di sostanze stupefacenti e psicotrope. Secondo la giurisprudenza ad oggi dominante, la disposizione in questione prevede due fattispecie autonome di reato, la più grave al primo comma e la più tenute al quinto comma; invero, l’art. 73 c.1 punisce con la reclusione da sei a venti anni chi, in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 17 del testo unico in materia di stupefacenti, coltiva, produce, fabbrica, detiene, offre o mette in vendita le sostanze stupefacenti di cui alla tabella I dell’art. 14.
Invece, il comma quinto prevede la sanzione più lieve compresa tra i sei mesi e i quattro anni di reclusione per chi pone in essere le condotte previste dal primo comma se il fatto risulta di lieve entità per i mezzi, le modalità della condotta e per la quantità o qualità dello stupefacente.
Orbene, preme precisare che l’attuale formulazione della norma è frutto di una pluralità di interventi della Consulta e del legislatore; nel dettaglio la formulazione originaria della norma ricalca la formulazione attuale con l’unica differenza sanzionatoria sostanziale del minimo di pena di otto anni stabilito per la fattispecie di cui all’art. 73 primo comma.
Tuttavia, al fine di rendere più severo l’impianto normativo in tema di stupefacenti, nel 2005 è intervenuto il legislatore con il D.L. nr. 272 del 2005 modulando le cornici edittali di entrambe le fattispecie contemplate nell’art. 73 del D.P.R. 309/1990. In tal modo, veniva inasprita la pena per la fattispecie di lieve entità la cui cornice edittale passava dai sei mesi a quattro anni di reclusione a quella compresa fra i due ed i sei anni di reclusione. Viceversa, l’art. 73 c.1 veniva mutato solo nel minimo edittale per il quale veniva stabilita la pena di anni sei di reclusione.
La riforma ha destato accesi dibattiti giurisprudenziali in ordine al principio di proporzionalità della pena anche alla luce della vasta casistica di spaccio di stupefacenti che interessava quotidianamente i tribunali di merito. Difatti, è stato osservato come la c.d. “Legge Fini-Giovanardi” abbia sin troppo ridotto il discrimen fra la fattispecie più grave del primo comma e quella nettamente più tenue prevista al quinto comma dell’art. 73. Secondo tale tesi, sarebbe irrazionale ed irragionevole rendere talmente flebile lo iato sanzionatorio fra fattispecie nella sostanza differenti.
Sul punto, è intervenuta la Corte Costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4 bis del D.L. 272 del 2005 per la violazione dell’art. 77 Cost. in tema di eccesso di delega senza però esprimersi sulla proporzionalità dei limiti edittali contemplati dall’art. 73. Così facendo, si è portato in vigore il testo originale dell’art. 73 che, tuttavia, ha destato altrettanti dubbi circa la proporzionalità della sanzione.
Invero, per tali ragioni la stessa Corte Costituzionale è stata adita più volte tra il 2014 ed il 2016 denegando la violazione del principio di proporzionalità con una considerazione importante; e’ stato precisato che la Corte non può mutare le cornici edittali in base ad una contestata “irragionevolezza\sproporzionalità” della norma, in quanto, sta al giudice rimettente indicare il c.d. “tertium comparationis” ovvero la norma più ragionevole e che tutela il medesimo bene giuridico protetto con una sanzione più mite. Nel caso dell’art. 73 c.1 e 5, non esiste una norma comparabile, attualmente in vigore, sulla quale modulare la cornice edittale. Tuttavia, la Consulta ha precisato che è compito del legislatore intervenire sul tema della proporzionalità della pena stabilità per l’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti, in quanto, data la delicatezza della questione e la mole di processi interessati, l’intervento appare non più procrastinabile.
Il monito espresso dalla Corte Costituzionale, però, non è stato seguito dall’apparato politico che è stato inerte per diversi anni. Sicché, nel 2019 la Consulta è intervenuta nuovamente sul punto, mutando l’art. 73 c. 1 nel minimo edittale stabilendo la pena di anni sei al posto di quella originaria di anni otto di reclusione. Nella sentenza in questione, è stato precisato che i diritti fondamentali del cittadino non possono essere messi in discussione dall’inerzia del legislatore alla luce dei principi di ragionevolezza, uguaglianza, proporzionalità e della funzione rieducativa della pena ex art. 3, 27 Cost., art. 7 CEDU; difatti, lo iato sanzionatorio fra il primo ed il quinto comma, dell’art. 73 risulta irragionevole in ragione del medesimo giuridico protetto.
In sostanza, i giudici di legittimità dinnanzi all’inerzia politica e rilevata l’irragionevolezza sanzionatoria, hanno modificato la pena dell’art. 73 senza utilizzare lo schema delle “rime obbligate\tertium comparationis” ma procedendo autonomamente a trovare la “pena ragionevole” fra quelle contemplate nell’ordinamento nel suo complesso. Così argomentando, la Corte ha impiegato il minimo edittale di “anni sei” dell’oramai abrogato decreto legge nr. 272 del 2005.
Il testo unico in materia di stupefacenti è stato oggetto di dibattiti giurisprudenziali sul principio di offensività, con particolare riferimento al fenomeno della coltivazione della cannabis; prima di entrare nel merito della questione è necessario analizzare le norme del Titolo II di tale testo normativo.
L’art. 17 del D.P.R. 309/1990 sancisce che chiunque intenda coltivare, fabbricare, commerciare a qualsiasi titolo le sostanze psicotrope comprese nelle tabelle di cui all’art. 14, deve essere munito dell’apposita autorizzazione del Ministero della Sanità. Inoltre, gli artt. 28, 29 e 30 prevedono inoltre prevedono un sistema di vigilanza sulla coltivazione, raccolta e produzione di stupefacenti con il centrale ruolo della guardia di finanza che procede a valutazioni periodiche concernenti l’osservanza dei limiti stabili dalla legge.
L’art. 17 è anche richiamato nell’art. 73 come ipotesi eccezionale nella quale non vengono applicate le sanzioni in esse stabile; sicché chi coltiva senza l’apposita autorizzazione ministeriale è punito con le pene stabilite dall’art. 73. Preme sottolineare che esiste un importante discrimen fra la coltivazione e la detenzione di stupefacenti; per la prima non è prevista una peculiare ipotesi di coltivazione finalizzata all’uso personale, a differenza della detenzione per uso personale contemplata dall’art. 75 che viene punita esclusivamente con una pluralità di sanzioni amministrative e, ove ne ricorrano i presupposti, l’utilizzatore sarà anche invitato a seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo.
Sin dall’entrata in vigore del testo unico in materia di stupefacenti, la giurisprudenza si è interrogata sulla natura del pericolo contemplato dalla condotta di coltivazione; sul punto si sono scontrate la tesi del pericolo astratto e la teoria del pericolo concreto.
Secondo il primo filone interpretativo, la coltivazione di stupefacenti, che non avviene con l’autorizzazione prevista dall’art. 17, è di per sé reato poiché la condotta è capace di influenzare il mercato illecito e ledere la salute collettiva. Sicché già la mera detenzione dei semi o la coltivazione delle piante è penalmente rilevante in quanto si tratta di un reato di pericolo astratto.
In senso critico si è posto l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il reato di coltivazione necessita di un giudizio di offensività in concreto necessario a valutare le modalità della condotta per vedere se concretamente viene messa a repentaglio la salute collettiva. In sostanza, la tesi in questione cerca di mitigare il rigore sanzionatorio del primo orientamento al fine di “scriminare” quelle condotte di coltivazione destinata all’uso personale in base alle circostanze del caso concreto come i mezzi di coltivazione rudimentali, l’esigua quantità di piante o il basso grado di “THC”.
L’iter argomentativo sopra esposto è stato aspramente criticato dai fautori della tesi rigorista poiché viziato da una irrazionalità di fondo; nel dettaglio, è stato sottolineato che tale interpretazione si pone in contrasto con l’argomento letterale dell’art. 73 frutto di una scelta politica-criminale del legislatore. Invero, il potere politico ha deciso di punire più severamente la coltivazione, indipendentemente dal fine, data l’impossibilità ex ante di valutare l’incidenza sul mercato e sulla salute collettiva. Difatti, se per la detenzione esiste un nesso di necessaria immediatezza rispetto all’uso personale, ciò non avviene per la coltivazione poiché rilegata in un lasso temporale troppo distante rispetto ad una valutazione in ordine al fine personale dei frutti della pianta.
E’ stato anche osservato che, mentre per la detenzione ad uso personale il legislatore ha previsto una serie di sanzioni amministrative, ciò non è stato fatto per la coltivazione, sulla basa di specifiche logiche criminali ragionevoli e proporzionate. Sicché, l’adesione alla tesi della non punibilità della coltivazione se destinata all’uso personale comporterebbe l’assurdità di non renderla nemmeno punibile dal punto di vista amministrativo poiché non vi sono apposite sanzioni previste e constata l’impossibilità dell’analogia in materia penale in ossequio del principio di legalità, tipicità e determinatezza.
La questione è giunta nel 1994 alla Corte Costituzionale che ne ha affermato la ragionevolezza del discrimen tra la coltivazione e la detenzione proprio alla luce della considerazione dell’assenza del nesso di necessaria immediatezza all’uso persona della coltivazione; inoltre secondo la Consulta è indubbio che la condotta di coltivazione sia connotata da una offensività più pregante rispetto alla condotta di detenzione. Tuttavia, è stato sottolineato che il giudice debba vagliare in concreto se la condotta sia effettivamente offensiva o meno; nel caso di inoffensività, infatti, non potrà essere mosso alcun rimprovero alla luce del disposto dell’art. 49 c.p.
L’intervento della Corte Costituzionale, allora, ha affidato al giudice di merito un grande potere discrezionale in ordine alla verifica dell’offensività in concreto che è stato visto con sfavore dal legislatore che, nel 2006, è intervenuto in materia cercando di ostentare tale deriva interpretativa.
Ciò ha comportato ulteriori dibattiti giurisprudenziali, sempre delineati in base alle anzidette teorie, che sono culminati con l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2008, che hanno affermato il principio di diritto secondo cui la condotta di coltivazione è sempre illecita anche se destinata all’uso personale poiché si tratta di un reato di pericolo astratto. Difatti, le Sezioni Unite prendono le mosse dalla ricostruzione del contrasto in materia sottolineando l’irrazionalità della tesi favorevole all’esclusione della punibilità in caso di coltivazione ad uso personale. E’ stato ribadito proprio che la volontà del legislatore risulta inequivoca anche alla luce del recente intervento normativo del 2006, nel quale non è stata prevista alcuna ipotesi peculiare di “coltivazione finalizzata all’uso personale” con ciò confermando la natura di pericolo astratto del reato in questione. Ancora, veniva ribadito che anche la coltivazione seppur domestica si rivela capace di influire il mercato illecito con conseguente danno alla salute della collettività. Infine, veniva ripreso l’argomento teleologico in base al quale, per la condotta di coltivazione non esiste alcun nesso di immediatezza rispetto all’uso personale.
L’intervento delle Sezioni Unite, tuttavia, non è stato immune da critiche da parte dei fautori della tesi “permissiva”; invero veniva evidenziato come la coltivazione domestica non è capace di influire sul mercato, anzi, sottrae “domande” di stupefacenti al mercato stesso poiché il tossicofilo si auto-produce la sostanza drogante non mettendo a repentaglio la salute collettiva ma esclusivamente la propria.
L’innovato contrasto ha condotto all’intervento delle Sezioni Unite del 2020 con una pronuncia innovativa nella quale è stato affermato il principio di diritto secondo cui il reato di coltivazione deve necessariamente essere valutato alla luce del principio di offensività che esige anche una valutazione della lesività della condotta in concreto in base ai parametri di ragionevolezza, uguaglianza e della funzione rieducativa ex art. 3, 27 Cost.
Nello specifico, le Sezioni Unite ripercorrono il dibattito ultra-decennale in materia respingendo la tesi rigorista secondo cui la condotta di coltivazione costituisse un ipotesi di reati di pericolo astratto; inoltre veniva anche confutata quella tesi della giurisprudenza minoritaria e parte della dottrina in base alla quale si riteneva che la coltivazione fosse un ante factum della detenzione non punibile se svolta allo scopo dell’uso personale. Difatti, veniva precisato che la semina, la maturazione e la coltivazione di piante fossero condotte ontologicamente diverse da quelle della detenzione e per tali non assimilabili. Tuttavia, le Sezioni Unite pongo un importante distinzione fra coltivazione tecnico\agraria autorizzata, tecnico\agraria non autorizzata e domestica. La prima, non punibile per espressa scelta del legislatore poiché finalizzata alla produzione, commercializzazione di derivati della canapa a scopo tessile\imprenditoriale che avviene tramite un’apposta autorizzazione ministeriale e secondo le modalità e controlli stabiliti dalla legge.
La seconda, sanzionata dall’art. 73 poiché esorbitante dalle finalità indicate dalla legge e capace di mettere a repentaglio la salute collettiva a causa dell’immissione nel mercato di nuove ed indeterminate quantità di sostanze psicotrope. La terza, ovvero la coltivazione domestica, non punibile se avviene con modalità tali da par presumere, con un giudizio ex ante e concreto, la destinazione all’uso personale della condotta. Quest’ultima ipotesi, rappresenta l’esatta declinazione del principio di offensività in concreto, in base al quale competerà al giudice di merito vagliare se la condotta del coltivatore risulti capace di mettere a repentaglio il bene della salute collettiva protetto dalla norma in base ad una serie di indici. Gli elementi in base ai quali dedurre la destinazione persona della coltivazione sono: la minima dimensione della coltivazione; la rudimentalità scientifica del processo di maturazione e degli strumenti utilizzati; la modica quantità di piante detenute dal coltivatore; l’assenza di locali ad hoc finalizzati alla maturazione e l’assenza di strumenti\macchinari che facciano propendere per il fine di distribuzione (ad esempio la bilancia di precisione e l’impacchettamento separato della materia prima).
In definitiva, se alla luce di tali indici si evince la destinazione personale della coltivazione, la condotta dell’agente risulterà atipica poiché in concreto incapace di offendere il bene della salute collettiva.
Anche il predetto intervento delle Sezioni Unite non è stato accolto con favore dalla dottrina rigorista che ne segnalava le criticità di fondo del filone giurisprudenziale permissivo alla luce di argomenti letterali e teleologici in conformità alla volontà del legislatore. In sintesi, veniva criticata l’irrazionalità della tesi poiché trascendere il dato letterale e sistematico della regolamentazione in materia di stupefacenti che non prevede l’ipotesi della coltivazione personale. Infatti, l’adesione a questa teoria comporta la radicale impunità della condotta di coltivazione nemmeno sul piano amministrativo, a differenza della detenzione ad uso personale ex art. 75. Ancora, veniva sottolineato la difficoltà di stabilire, ex ante, la quantità di sostanza stupefacente che potrebbero produrre le piante e l’incertezza sul parametro di riferimento per calcolare le dosi ad uso personale. Infine, veniva rilevato che si assisterebbe anche ad un annichilimento della certezza del diritto e della prevedibilità della decisione giudiziale in quanto l’applicazione della sanzione amministrativa ex art 75 dipenderebbe dal momento dell’intervento delle Autorità, ovvero se al momento della detenzione, punibile in via amministrativa, o nella fase della coltivazione, non punibile se finalizzata all’uso personale.
Infine, sul piano sia dell’offensività che della proporzionalità, merita di essere segnalata la sentenza delle Sezioni Unite del 2019 in tema di commercializzazione e coltivazione della c.d. “cannabis light o sativa” ovvero di quella sostanza dal basso contenuto di “THC” ma ad alto contenuto di “CBD”.
Le Sezioni Unite hanno ripercorso il dibattito giurisprudenziale creatosi a seguito di un intervento legislativo del 2016 che aveva sostanzialmente ipotizzato una eccezione alla coltivazione punibile nei casi in cui le piante coltivate siano incapaci di produrre “THC” superiore al 0,6 %. Sul punto, si sono confrontate la tesi “permissiva” e quella “restrittiva”; secondo la prima, l’intervento legislativo doveva essere letto sotto la lente dei principi di proporzionalità\ragionevolezza ed offensività, con la conseguenza che la l. 241/2016 abbia creato una ipotesi eccezionale di coltivazione, distribuzione e cessione non punibile poiché inoffensiva data la esigua capacità drogante.
In senso critico, si è posta la teoria “restrittiva” secondo cui la l. 241/2016 non crea una zona di “non punibilità” per inoffensività della condotta, ma una peculiare eccezione all’art. 14, 17 del D.P.R. 309/1990 limitata alla sola fase della coltivazione destinata all’uso tessile/commerciale ed industriale.
Le Sezioni Unite hanno aderito a quest’ultimo orientamento rilegando la non punibilità alla sola coltivazione destinata all’uso tecnico-industriale; infatti, è stato sottolineato che lo stesso art. 73 del D.P.R. 309/1990 non distingue delle soglie di “THC” per applicare la sanzione penale, quindi, la condotta del coltivatore di “cannabis light” risulterà sempre penalmente rilevante indipendentemente dalla bassa soglia della capacità drogante della sostanza.
Tuttavia, una simile pronuncia ha comportato gravi problemi economici rispetto all’apertura e chiusura dei locali di distribuzione di articoli, foglie, resine, oli di canapa che avevano fatto affidamento sui sussidi concessi dall’U.E. e dall’intervento del legislatore che era stato interpretato dalla collettività come “legalizzazione parziale”. Difatti, poco dopo la sentenza delle Sezioni Unite è intervenuto il legislatore con un emendamento con il quale è stato precisato che oltre alla coltivazione è anche permessa la cessione e la distribuzione anche al fine agro\alimentare di tali sostanze purché sotto la soglia di 0,6 % di “THC”.
In definitiva, la materia degli stupefacenti ha costituito il campo ideale per l’applicazione dei principi di proporzionalità e di offensività che hanno rappresentato il faro orientativo per dare una certa razionalità logica di un sistema complesso, frammentato e lacunoso. Infatti, nonostante i plurimi interventi della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione i dibattiti non si sono affatto sopiti forse anche in ragione della complessità della materia e dall’inerzia del legislatore.
Invero, certi concetti come “dose personale media”, “destinazione all’uso personale”, “soglia drogante” sono sin troppo vacui ed incerti in ragione dell’ontologico legame con le specifiche caratteristiche dell’assuntore.
In definitiva, la materia risulta ancora al centro di importanti contrasti interpretativi che, parzialmente, potrebbero essere sopiti solo a seguito di un intervento legislatore; nell’attesa starà all’interprete valutare ogni singolo caso concreto avendo ben chiari i principi fondati del diritto penale moderno, ovvero del principio di legalità con i suoi corollari di necessaria offensività e proporzionalità.
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Giancarlo Marino
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